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Il pranzo della domenica di Serena Balivo e Mariano Dammacco

Kantor diceva che il Teatro parla sempre della morte. E non perché si rappresentino delitti, tragedie o pietose morti. Il teatro ci mette in comunione con il senso della nostra finitezza. Dal buio sorgono le immagini e i personaggi che, dopo un flebile soffio di vento, ritornano nell’ombra. Come scriveva Shakespeare siamo tutti attori che si pavoneggiano e si agitano sul palcoscenico per il tempo a noi assegnato, e poi nulla più s’ode. Vita e teatro si rispecchiano. Non è finzione, è menzogna che si fa verità di carne.

La morte ovvero il pranzo della domenica, di Mariano Dammacco, interpretato superbamente da Serena Balivo, ci fa sentire fin da subito la presenza della Signora in nero. Quelle bottiglie sul fondo del tavolino fanno tanto pensare a quelle di Morandi, così ordinarie, vuote, abbandonate. E quando compare lei, con la sigaretta, seduta al tavolo con gli occhi fissi, emerge anche la figura di uno dei giocatori di carte di Cezanne. Su quel tavolo appaiono una selva di nature morte. Tutto in quell’immagine, così semplice e così ordinaria, ci riporta alla stasi della tomba.

La donna seduta, non più giovane, ci racconta del suo pranzo domenicale, appuntamento che non vuole perdere per nulla al mondo. Un pranzo con i genitori ultranovantenni di cui ci viene raccontato con dovizia di particolare tutto il menu. È una stazione di un viaggio verso la morte. I vecchi si stanno preparando al funerale, lo sognano, mentre la figlia cerca di esorcizzare il momento. È raggelante, benché in alcuni momenti il racconto ti obblighi a sorridere.

Quei genitori sono i nostri. Li possiamo riconoscere. Io per esempio non ho potuto non pensare a mia madre, le sue polpette divine, il suo sentirsi in dovere di metterti al corrente di tutte le tragedie di cronaca e della situazione geopolitica mondiale. È noiosa, a volte, ma cerchi di sopportare perché sai che un giorno quei discorsi ti mancheranno. E poi le fissazioni, l’ordine maniacale, il senso del decoro, tutti ci ricorda genitori comuni, condivisibili, e per questo quell’ansia di morte che pervade la scena è così opprimente che se non ci fossero le risate sarebbe insopportabile. L’ipostasi della Jouissance di Lacan, quella terra oltre il confine del piacere, dove il godimento è inestricabilmente connesso con il dolore.

La morte ovvero il pranzo della domenica, rende vivi e concreti i nostri timori. Quella sensazione orribile, riassunta da Serena Balivo nell’immagine dei saluti dalla finestra, che ti attaglia talvolta nel pensare: “forse è l’ultima volta che ci vediamo”. Ridere di queste sensazioni è il più grande risultato del teatro, ribaltare l’angoscia nel suo contrario, vincere la paura della morte confrontandosi con lei faccia a faccia.

Lo spettacolo però non è solo il racconto, è soprattutto il corpo dell’attore. Serena Balivo ha il perfetto controllo delle sue capacità espressive. Riesce a padroneggiare una gestualità vivace, colorita, intensa e difficilissima, in quei movimenti a scatto, come di marionetta, in quei repentini congelamenti dell’azione, non come se ci fosse un ripensamento, ma come se nel frattempo si sia riscritta la programmazione, nelle routine e i loop, come leitmotiv e frasi poetiche, che si stagliano in contrapposizione alla narrazione. Il dosaggio sapiente dei toni e delle espressioni rende il racconto avvincente anche se in fondo si racconta niente di diverso di un semplice pranzo domenicale con il suo arrosto con le patate e pastine con l’amaro e il caffè a chiudere.

Un pranzo che è consueto ma anche arcaico. E non solo perché il legame tra il cibo e i morti sia stretto ancor oggi, ma in quanto il timore di non aver fatto “tutto per bene”, come dice il padre della donna, ci accomuna ai nostri avi. Il non essere ricordati, non aver meritato questa vita agli occhi di chi rimane, forse è paura ancor più forte della morte stessa. E questo pranzo della domenica ce lo ricorda ossessivamente.

Mariano Dammacco e Serena Balivo sono riusciti a creare un lavoro che coniuga la leggerezza della serenità con il panico generato dal timore della perdita. Come spettatori ci si sente dilacerati dal piacere e dall’orrore. Solo il Teatro con la maiuscola, quello evocato da Kantor all’inizio di queste riflessione, può osare tanto. È raro incontrarlo ma quando succede provi la strana sensazione di una gioia mista a inquietudine. Ma questo è il suo compito. Come diceva Artaud il teatro ha il dovere ricordarci che il cielo può caderci in testa ogni minuto.

La morte ovvero il pranzo della domenica

Torino, Cubo Teatro | 17 gennaio 2025

Durata 60′

Uno spettacolo con Serena Balivo
Ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
Musiche originali Marcello Gori
Consulenza spazio e luci Vincent Longuemare
Oggetti di scena Andrea Bulgarelli / Falegnameria Scheggia
Foto di scena Angelo Maggio
Ufficio stampa Maddalena Peluso
Produzione Compagnia Diaghilev
Con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) e di Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno)

Maguy Marin apre a Torino Palcoscenico Danza

Iniziare il proprio festival con due pezzi d’annata di una grande riformatrice come Maguy Marin può sembrare una scelta azzardata da parte di Paolo Mohovich, direttore di Palcoscenico danza, soprattutto oggi dove ogni cosa che guarda al passato è vista come nostalgica. Tutti sono rivolti verso il futuro, uno qualsiasi, anche se ancora non si è capito quale sia.

Partire dalla memoria sembra invece un ottimo auspicio per la nuova edizione della rassegna torinese. Capire da dove si viene, per comprendere meglio che strada intraprendere, magari per ribellarsi al sentiero posto sotto i nostri piedi, ma consapevoli di quale sentiero ci ha portati fino a qui. Come diceva Benedetto Croce: «la storia è sempre storia contemporanea».

Merito di questa operazione di recupero dai fondali della memoria è da attribuirsi a MM Contemporary Dance Company di Michele Merola che ha deciso di riproporre al pubblico questi piccoli gioielli della danza. Peccato che tra il pubblico ci fosse un’esigua partecipazione di giovani danzatori a cui principalmente sarebbe stato utile uno sguardo profondo nel recente passato.

Duo d’Eden (1986): un uomo e una donna entrano sulla scena. Indossano una tutina color carne. Il costume è anche maschera. I volti sono inquietanti, deformi, con i capelli fulvi e arruffati. Potrebbero richiamare un mondo primitivo, forse innocente, sicuramente più animale, ma anche alludere ai volti dolenti dei progenitori cacciati dall’Eden dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze. L’aria si riempie di suoni di pioggia e di tuoni e questo ci spinge ancor di più verso un cammino che vede nel duetto un’eco di immagini. Il tuono ci fa balenare sulla retina un’immagine persistente da La tempesta di Giorgione, quadro misterioso, allusivo delle vicende dell’eden, dove i progenitori sono già stati cacciati. E se il sodato è Adamo, in riposo dal duro lavoro, quella zingara seminuda con il bambinello tra le braccia altro non è che Eva dopo aver partorito con dolore. E la città sullo sfondo è proprio l’Eden da cui ormai sono esclusi.

Duo d’Eden, potrebbe aver quindi un’atmosfera meno serena ed erotica di quanto si è immaginato. I due corpi, così materiali ma anche pieni di grazia, si inseguono ma ricercano spasmodicamente quell’unione ormai persa, quell’essere una sola carne avanti l’incidente della mela. I corpi lottano contro la gravità e la fatica. Si avvinghiano l’un l’altro, ruotano come stelle binarie in perenne rivoluzione una sull’altro.

La grazia perduta viene dalla sprezzatura, quell’attitudine che Baldassare Castiglione diceva aver qualità di far sembrar facile quello che non è. Tutto trama contro di loro. Gli elementi vogliono la loro caduta, non importa se già avvenuta, perché avverrà, non si potrà in eterno battere la fatica. La bellezza di questa danza vive di instabilità, finitezza, precarietà. Forse proprio perché i due progenitori sono caduti nelle sabbie del tempo, nella tempesta segnata da un prima e un dopo il tuono, e solo nel tempo può vivere la bellezza, pienezza destinata a sfiorire. Nell’eternità dell’Eden, al contrario, tutto si equivale nella perfezione.

Grosse fugue (2001) è un confronto con Die Grosse Fuge op. 133 del grande Ludovico Van. Il pezzo, prima di divenire un numero di catalogo a sé stante, sarebbe dovuto essere l’ultimo movimento del quartetto d’archi n.13 in si bemolle maggiore op. 130. Gli esecutori dell’epoca lo trovarono superiori alle loro forze. Tutte quelle dissonanze, i cambi di tonalità, quella ritmica così balzana ma fortemente innovativa era impossibile da eseguirsi. Il maestro ormai sordo e incamminato verso la dissoluzione delle forme classiche, soprattutto della sonata, urlò e protestò ma alla fine riscrisse un finale più sereno e la grande fuga divenne un pezzo autonomo.

Inutile dire che oggi è considerato un capolavoro, così avanti sui suoi tempi da essere considerato dai suoi contemporanei un orrore e un’aberrazione dovuta alla sordità.

Maguy Marin si confronta con il pezzo di Beethoven non solo dal punto di vista linguistico, contrappuntando la musica con la danza, ma infondendovi nuove immagini, una vena ironica, e messaggio politico.

Quattro donne vestite di rosso entrano in scena, come le quattro frasi melodiche che si rincorrono in questa grande fuga. L’ardita composizione spinge al virtuosismo le danzatrici, costrette a rincorrersi, a stare al passo. Sia l’ascolto come la visione anelano a un momento in cui il ritmo conceda almeno un leggero calare. Improvviso ecco giungere un breve attimo di pausa, quel meno mosso e moderato racchiuso da due parentesi costituite da due allegri molto e con brio, le donne quasi si rilassano, rilasciano un sospiro di sollievo che dura troppo poco e ci strappa un piccolo sorriso. Ed ecco nuovamente a intrecciarsi con brio, a correre dietro il tempo. Non possiamo non pensare a questa vita pazza che ci siamo autoimposti, schiavi per volontà, supini al diktat di essere sempre produttivi e performanti prima che il buio cali su di noi.

Ciò che più sorprende in questi due pezzi di Maguy Marin è la loro attualità, il non essere per nulla datati, freschi come uova di giornata. Una danza tecnica, ma capace di liberarsi dal virtuosismo fine a se stesso regalando nuove immagini. Questi due pezzi brevi non si chiudono su se stessi, ma aprono porte e finestre nel palazzo della nostra memoria, facendo irrompere immagini e associazioni. Una danza di corpi coinvolgenti, mai autoreferenziali, corpi liberi perché capaci di andare al di là della tecnica, padroni del tempo, dello spazio e della gravità. Portare nuovamente sulla scena questi due piccoli capolavori di Maguy Marin, è stato un gesto di grande generosità di cui non si può essere che grati.

Torino, Teatro Astra | 21 gennaio 2025

La forma delle cose di Neil LaBute

In un giorno qualsiasi del 1917 Marcel Duchamp ruotò di novanta gradi un orinatoio e la storia dell’arte occidentale cambiò radicalmente. John Cage che di Marcel era stato grande amico e degno avversario alla scacchiera, per sottolineare la rivoluzione copernicana nel mondo dell’arte disse: «Supponiamo che non sia un Duchamp. Basta girarlo e lo diventa». Sembrerebbe una motto di spirito, di quelli che piacevano tanto a Freud per la fine arguzia, ma con questa battuta Cage metteva in luce che nell’arte contemporanea la questione estetica era ormai in secondo piano rispetto al gesto e l’intenzione che la manifestava.

Marcel Duchamp infatti diceva dei suoi readymade: «c’è un punto che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu dettata da qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso da un’assenza assoluta di buono o cattivo gusto… di fatto un’anestesia totale».

La forma delle cose di Neil LaBute, messo in scena dal 7 al 19 gennaio al Teatro Gobetti da Marta Cortellazzo Wiel, così come Arte di Yasmina Reza dove tre amici litigano per un quadro bianco, recupera il gusto estetico come fattore divisivo per scatenare la ferocia dei personaggi in scena e metterci di fronte a questioni che estetiche non sono per niente. L’arte sembra essere un pretesto, come potrebbe esserlo la politica, per istigare conflitti insanabili.

Neil LaBute però, al contrario di Reza, non si contenta di usare l’arte come oggetto del contendere. In La forma delle cose l’opera d’arte è il soggetto stesso dell’intera azione. Evelyn (in scena Beatrice Vecchione) è una giovane artista. Sta ancora studiando per un master di specializzazione e, grazie a una borsa di studio, va a risiedere in un piccolo paesino della provincia americana. Nel museo locale viene esposta una scultura raffigurante Dio di un famoso scultore a cui, un comitato cittadino, per questioni di bigotto pudore, ha coperto le pudenda con una foglia di fico in gesso. Evelyn è nel museo per reagire a questa forma di censura disegnando con la vernice spray un “pisello” sulla foglia restituendo il vero al fasullo.

Ancora una volta la questione sembra essere estetica, una reazione contro un novello Braghettone chiamato, come a suo tempo Andrea da Volterra nella Cappella Sistina, a censurare il vero di natura affinché non offendesse il pio e virgineo sguardo dei cardinali, e ora dei casti visitatori del museo. A volte però un’immagine nasconde un’altra immagine, come in Vermeer, Velasquez o Van Dyck, con quegli specchi che riflettono personaggi misteriosi. E così le parole aprono varchi nello spazio-tempo e dal museo appare il giardino dell’Eden. Si perché a fermare Evelyn, entrata con una mela che sgranocchia soddisfatta, a fermarla affinché non vada dove non deve e non vandalizzi la statua di Dio, è Adam (Marcello Spinetta).

Qui Eva non è una costola di Adamo, non è la donna creata affinché sia di compagnia all’uomo. Qui Eva è molto più simile a Lilith, la ribelle. Assume anche i connotati del serpente tentatore. Lei non costringe Adam, lo consiglia, lo esorta a esercitare il suo libero arbitrio fregandosene di cosa pensano gli altri. La novella Eva anche divinità perché Adam è la sua opera d’arte. E qui torniamo a Duchamp che, sempre parlando dei suoi readymade, diceva non avevano niente di unico: «tutti i readymade esistenti oggi non sono degli originali nel senso usuale del termine».

Adam è molto simile a un readymade per Evelyn. Come diceva John Cage per farlo diventare un Duchamp basta solo dargli un’altra prospettiva. Inoltre è già pronto, potremmo chiamarlo un objet trouvè. Non è né bello né brutto, capita come per caso sotto l’occhio dell’artista.

Evelyn nella sua creazione coinvolge inevitabilmente anche le persone vicine a Adam, i suoi più cari amici Jenny (Celeste Gugliandolo) e Philip (Christian di Filippo) creando quello che Duchamp chiamava readymade aumentato. Cambiando Adam, Evelyn modifica inevitabilmente anche i rapporti con loro e di conseguenza le rispettive personalità. La mutazione non è indolore. Anzi violenta, quasi contro natura, perché l’arte, benché possa imitare la Natura, non le somiglia quasi mai, soprattutto se c’è di mezzo l’ego. Cage infatti, artista che più di ogni altro insieme a Carmelo Bene nel secolo scorso ha avversato l’idea di un’arte egoriferita, prendeva a prestito l’invito del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy a non a imitare la natura nelle forme ma nel suo modo di operare.

Evelyn compie il peccato di agire senza amore, per non dire senza compassione. Come una scienziata che sperimenta sulle proprie cavie da laboratorio, modella la sua scultura di carne viva freddamente, calcolando le reazioni e le mosse successive. Lei non fa di se stessa un’opera d’arte come faceva la Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven (colei che pare inviò il pissoir a Duchamp), ma fa diventare gli altri un’opera d’arte. E mette il risultato sul mercato. La questione alla fine è etica e non estetica. O meglio: l’arte deve agire secondo un’etica? Oppure conta solo il risultato? Sono questioni che il movimento #MeToo ha sollevato per esempio per il caso Jan Fabre. Le risposte sono ovviamente personali.

C’è un altro aspetto da considerare in quest’opera complessa. Per divenire opera d’arte Adam deve lasciarsi manipolare da Evelyn, trasformarsi in creta nelle sue mani. Philip Dick, il grande maestro della fantascienza, scrivendo La svastica sul sole, ci ha fornito un’opera magistrale che racconta del potere della suggestione. L’idea di un mondo in cui avevano vinto i nazisti paradossalmente gli si era presentata leggendo La banalità del male di Hannah Arendt, dove la filosofa spiega il potere di piegare la realtà propria dei regimi totalitari. Questi si affannano come in 1984 a riscrivere la storia cambiando il passato e obbligando i cittadini a credere nel bispensiero che nega e afferma verità contrastanti tra loro.

E di banalità in fondo si tratta anche nel caso di Evelyn e Adam. Le basta suggerire piccole cose per generare un totale cambio di personalità del suo soggetto. Adam in questo è un perfetto readymade: senza particolari qualità viene messo sottosopra e posto su un piedistallo. Quella di Evelyn è un’operazione che ricorda un poco anche Piero Manzoni quando mise il mondo sul piedistallo e per farlo non dovette far altro che rovesciare il piedistallo stesso.

La regia di Maria Cortellazzo Wiel mette in luce tutti gli aspetti emergenti dal testo. Sembra, – e sottolineo sembra -, che si sia sottratta dal manipolare la materia, lasciandola invece affiorare naturalmente dallo sviluppo dei dialoghi. L’azione, al di là della prima scena che avviene in proscenio, si sviluppa in un ambiente chiuso da riquadri di plastica trasparente illuminato da neon, uno spazio che i personaggi non abbandonano mai. Sembra uno di quei box da quarantena dove vengono confinati i contagiati o le cavie da laboratorio. Unici elementi: un pianoforte un paio di sgabelli. Nel finale solo Evelyn esce da questo spazio contenitivo per illustrare al pubblico la sua opera d’arte.

La recitazione è calda e coinvolgente. Non si ha mai l’impressione del fasullo, una sensazione fastidiosissima e spesso presente sui palchi italiani. Gli attori si sono lasciati pervadere dai campi di forza emergenti dai conflitti tra sfera pubblica e sfera privata dei singoli personaggi, e dalla naturale interazione delle varie opinioni e posizioni suscitate dallo sviluppo dell’intreccio drammaturgico.

La difficoltà per l’attore nell’interpretare questo dramma risiede nel sapere di essere ingannato e manipolato da Evelyn e nonostante questa conoscenza essere in grado di rendere credibile e manifesta la fragilità interiore e la spavalderia esteriore. L’arroganza iniziale di Philip, tipica del ragazzo di provincia re del proprio piccolo villaggio, per esempio si trasforma in una dolorosa incertezza per finire nella consapevolezza del tradimento dell’amico via via che la consapevolezza delle proprie insicurezze matura. In questo dosare emozioni e caratteri i quattro attori sono stati all’altezza della difficoltà interpretativa. Unico neo: l’abuso dei toni urlati nei litigi quando, a volte, un sussurro sarebbe risultato più efficace.

LA FORMA DELLE COSE durata 1h 15′

di Neil LaBute
traduzione Masolino D’Amico
con Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione.
regia Marta Cortellazzo Wiel
scene e costumi Anna Varaldo
luci Alessandro Verazzi
suono Filippo Conti
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

Teatro Gobetti – Torino | 14 gennaio 2025

FACCIAMOLA FINITA CON LA CRITICA TEATRALE

Questo scritto inizia con una confessione dolorosa e finisce con una scommessa. E viola fin dal principio la regola non scritta secondo cui è meglio in un articolo non parlare di sé. La questione però è sia personale sia generale e, secondo me, non si poteva affrontare che in questo modo. Portate pazienza e seguitemi.

Ho passato gli ultimi mesi a chiedermi incessantemente se non fosse il caso di finirla con la critica. Questo disagio, o necessità, si faceva giorno dopo giorno più urgente e molesto, pretendendo che smettessi di rimandare la sua risoluzione. E più differivo, più calava il desiderio di seguire festival e spettacoli. Per qualche tempo mi sono nascosto dietro le ricerche per il mio ultimo libro, cercando di convincermi che quella fosse la causa, che non avessi il tempo di scrivere altro, che ero completamente assorbito in un mondo affascinante, lontano e poco conosciuto, ma sapevo che erano misere scuse proprio perché trovavo più ammaliante il passato e non il presente.

La verità è che non avevo e non ho più fiducia nella critica in sé e nei modi in cui viene esercitata. Lasciamo perdere per un momento la spinosa questione dei conflitti di interesse perché sono purtroppo sistemici, anche se, bisogna dirlo, limitano, e di molto, la libertà e sono un vulnus all’autorevolezza della critica in sé. Bisogna però riconoscere che se festival e teatri non contribuissero alle spese della critica, attività dello spirito non più paragonabile a un vero lavoro e per lo più manifestazione di volontariato culturale, la questione sarebbe già risolta da molto tempo.

Una recensione, dobbiamo riconoscerlo, oggi è un atto futile, diretto per lo più al piccolo mondo antico dei teatranti e degli uffici stampa. Il pubblico non le legge o, se lo fa, non ne è minimamente influenzato, perché per la maggior parte escono post eventum, dopo che lo spettacolo di cui si parla si è già spostato in un altro territorio, e questo spesso non per la pigrizia del recensore, ma perché stanno scomparendo le teniture, a parte nei Teatri Nazionali e Tric, unici soggetti ad avere un budget che le permette. Inoltre il pubblico non legge in generale, lo dicono i dati sempre più allarmanti che vengono pubblicati e questo senza considerare il fenomeno di analfabetismo funzionale che tocca il trenta per cento degli adulti, percentuale che secondo l’OCSE, ci pone all’ultimo posto tra i paesi industrializzati.

La recensione è inutile non solo perché si rivolge alla ristretta popolazione di quella riserva indiana chiamata teatro, ma anche in quanto genere malato di aridità. Non vuole generare curiosità, moto d’animo bizzarro e ormai raro, né accendere il desiderio. Si accontenta di informare e spiegare, asetticamente, imparzialmente, senza trasporto. La recensione deve essere scientifica come la diagnosi di un medico.

La recensione poi nasconde un desiderio egoistico: mostrare ai propri lettori e alla concorrenza di essere sul pezzo, di svariare da Nord a Sud nel territorio nazionale, di essere quindi ricercati e autorevoli. Le testate ovviamente sono affette dalla stessa mania di presenzialismo. Ciò che conta sono i numeri e non la qualità di visione e il tempo dedicato allo studio e al dialogo con l’artista. Più che critici ci stiamo tutti trasformando in influencer senza però aver la capacità di influenzare massivamente, anche perché per quanto si voglia passar per inclusivi, di fatto si è altamente elitari, persino all’interno del proprio settore dove circoli e circolini si sentono investiti dalla divinità del ruolo di custodi del sapere. E non sto parlando solo di accademici e giornalisti, ma anche di referendari o non referendari, etc. Chi è fuori da queste categorie è anomalia da ignorare nella convinzione che un tesserino, un lavoro all’Università o l’appartenenza a una giuria siano un certificato di competenza.

Questo è il triste panorama entro cui si segue l’amato teatro. Inoltre si è sempre meno liberi di dire la propria opinione senza incorrere nelle ire di organizzatori, direttori e uffici stampa che si sono sobbarcati la spesa della tua venuta, per non parlare degli artisti risentiti per quello che hai scritto come fosse un’offesa personale e non un parere tecnico e personalissimo volto a essere utile.

E qui si arriva al secondo punto: la forma è anch’essa costrittiva come uno strumento di tortura medievale. Innanzitutto non si deve portar via a chi legge più di cinque o sei minuti. Frasi brevi, sintassi semplice. Si deve cominciare con il come, dove e quando senza tralasciare nessuno e riassumere la trama per includere anche quelli che a teatro vanno per la storiella, possibilmente con qualche riferimento dotto per far vedere di essere competenti ma senza esagerare per non turbare il lettore. Se la trama è mancante si descrivono scene e movimenti riferendoli a fenomeni sociali o artistici del presente, o a immagini pittoriche e/o letterarie. Infine si chiude con qualche commento riassuntivo che, senza giudicare del bene e del male, inquadri lo spettacolo nel suo presente e, per quanto possibile, ne spieghi l’intenzione. La parte del leone la fa la drammaturgia e il testo. Raramente si parla di tecnica dell’attore o di composizione registica o coreografica, giudicando queste questioni troppo specialistiche per il lettore medio, disinteressato, a quanto pare, a comprendere i meccanismi dell’arte di cui, si suppone, sia appassionato.

Un mantra ricorrente è: la critica non deve essere giudicante. Quindi per non sembrar di quelli che tranciano giudizi, si fanno giri di parole e acrobazie per dire senza dire. Ma tutto questo è una grande ipocrisia perché abbondano e crescono tutto l’anno premi e premietti, si esibiscano liste di preferenze e best off, come se questi non fossero giudizi di merito. Soprattutto però è grave il calare un velo di silenzio su quello che non si approva, che è scomodo da raggiungere o, peggio ancora, sconosciuto. Geografia e visibilità vanno a braccetto e qualche volta, talento, resta escluso e negletto.

Tutti questi lacci e laccioli che richiamano alla mente gli affatturamenti di Artaud, sono all’origine del mio disagio, sentimento in conflitto perenne con l’amore verso un’arte a cui ho dedicato più di trent’anni della mia vita. E questo scontro richiama altre emozioni disturbanti: rabbia e frustrazione. Non sorprende quindi che alla fine uno si chieda: ma chi me lo fa fare? E sono sicuro di non essere il solo a vivere questa lotta interiore tra passione e avvilente realtà.

Perciò non resta che decidere: smettere? Continuare a ripetersi: «Finita. È finita. Sta per finire. Sta forse per finire» differendo l’inevitabile come Clov in Finale di Partita? Oppure cercare di recuperare il piacere di andare a teatro e scrivere di e per il teatro?

Il punto è che non voglio rassegnarmi al sistema, a quello che Fisher chiama realismo capitalista, fenomeno capace di inaridire qualsiasi velleità di cambiamento, ma mancando il piacere e il desiderio scema. E non parlo di volgare soddisfazione, ma di ardore, di fiamma d’amore che muove alla conoscenza, alla curiosità, a voler porgersi domande le cui soluzione è altamente improbabile. «Amor mi mosse che mi fa parlare» così dice Beatrice a Virgilio, perché è «Amor che muove il sole e l’altre stelle». Artaud scriveva: «Se noi potessimo amare, amare subito, la scienza sarebbe inutile, ma noi abbiamo disimparato ad amare» e senza questo Amore che è desiderio dell’Alieno da sé, non c’è piacere, ma solo mestiere. Uso la parola Alieno inteso come sconosciuto, straniero, anomalo, come ciò è allo stesso tempo perturbante e affascinante, che attrae e respinge, quello a cui se tu fossi sano di mente non ti avvicineresti perché prudenza e senso comune ti direbbero che è sconveniente ed equivoco. E il desiderio che spinge a immaginare mondi diversi, a richiedere di cambiare pelle, di trasformarsi, mutare, evolversi. È il desiderio di volare che determina la necessità delle ali.

E per provare piacere devo, in primis, recuperare la libertà di trovare una forma, di sperimentare un modo diverso di parlare di danza e di teatro, opere d’arte in movimento. E per farlo desidero essere libero dal dover spiegare alcunché. Philippe Daverio diceva che non c’è niente al mondo di più facile da capire dell’arte: basta guardare. Ma aggiungeva che bisognava: «avere il coraggio di dire perché e di indagare». Questa ricerca deve potersi spingere in ogni direzione, come nel gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dove un’equazione richiamava un frase musicale e questa un poesia da cui si sviluppava un nesso alla vita biologica e così via.

Lessing scriveva: «Guardato isolatamente, un pensiero può essere molto insignificante o davvero avventato; ma può essere reso importante da un pensiero che lo segue e, insieme ad altri pensieri che possono sembrare egualmente assurdi, può rivelarsi un utile anello di congiunzione». È nella catena di immagini che evocano altre immagini, ghirlanda per ognuno diversa, che si ricompone ciò che è frantumato riunendo, come in un puzzle, l’infranto specchio di Dioniso ben sapendo che ogni soluzione è provvisoria come un mandala di sabbia. Vorrei che a un testo critico venisse sottratta ogni illusione di risultato per restituire, qualora se ne fosse capaci, una visione, per quanto precaria, di teatro-mondo.

Per questo desidero lasciarmi trasportare dal flusso delle immagini non più opposta al logos, stabilirmi in quella regione dove, come dice Lessing: «la ragione ritira la sua guardia dalla porta e le idee irrompono alla rinfusa». L’opacità dell’opera d’arte non deve entrare in conflitto con la supposta chiarezza dello scritto. L’arte, soprattutto quella dei corpi, è ambigua ed equivoca proprio perché moltiplica i possibili significanti e così dovrebbe restituirla una recensione. E questo non vuol dire votarsi all’inintelligibile, ma saper suscitare con le proprie emozioni quelle altrui, significa saper evocare immagine da immagine senza pretendere di riferire, educare o, peggio ancora, spiegare qualcosa a qualcuno.

La critica non ha niente a che vedere con l’informazione. È l’opposto complementare dell’arte. Non la rispecchia, non la descrive, non la risolve, la problematizza, la rende un oggetto su cui riflettere e nel farlo stimola a conoscerla, a frequentarla, o osservarla traendone piacere o disgusto, attrazione o repulsione e questo senza descrivere o illustrare il semplice atto d’esecuzione, bensì suscitando le possibili implicazioni che quello strano rito ci propone sempre nuovo e sempre uguale da migliaia di anni.

Finirla con la critica diventa così non un gesto definitivo e personale, ma un atto pubblico. Provare a cambiare i modi attraverso cui raccontare un’opera d’arte di teatro, con la certezza quasi matematica di fallire nell’intento, ma tentare infischiandosene delle regole e delle leggi non scritte. Visto che la critica non è un lavoro, ma una passione che si esercita nella volontà, che sia per lo meno divertente, gioiosa, libera di cercare strade impervie e stimolanti. Per combattere l’avvilimento non resta che ritrovare il desiderio spasmodicamente, senza compromessi, senza curarsi delle conseguenze, dei pareri, dei giudizi, dei consigli perché tanto, come cantavano i CCCP: “verranno al contrattacco, ma intanto adesso…”

Lo specchio di Dioniso: Carmelo Bene secondo Clemente Tafuri

Durante l’edizione 2024 di Testimonianze, ricerca, azioni, il festival di Teatro Akropolis in quel di Genova, è stato proiettato l’ultimo traguardo del viaggio di Clemente Tafuri nella parte maledetta del teatro. Un lungo pellegrinaggio alle radici dell’arte scenica che ha illuminato le figure di Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini, e ora in quest’ultima stazione dedicata a Carmelo Bene, ci conduce in una terra nebbiosa, mitica e ancestrale, dove mirabili miraggi prendono corpo dal fumo che nasconde gli scogli pericolosi che ci attendono dietro e al di là della meraviglia.

Carmelo Bene si rifrange in infiniti specchi, e viene riflesso dal suo teatro. Come Rinaldo e Armida, dove la maga si specchia nella propria immagine e il guerriero cristiano, ormai dimentico dei suoi eroismi, viene riflesso dall’occhio della donna. Ma chi regge lo specchio? “ella del vetro a sé fa specchio, ed egli / gli occhi di lei sereni a sé fa spegli” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 7-8). Parrebbe che sia Rinaldo, sottomesso ad Armida, ma in una stampa del 1628 è la stessa Armida a reggere lo specchio mentre i due amanti sono avvinti in un intreccio di corpi e di sguardi. L’importante è che entrambi “mirano in vari oggetti un solo oggetto” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 6).

Nel mondo barocco, così vicino al quel Sud del Sud dei santi che tanto amava Carmelo Bene, lo specchio è metafora ricchissima della realtà scissa in immagine. Pensiamo agli specchi di Velasquez e di Vermeer: chi riflettono? Personaggi immaginari o noi pubblico attirati, come Alice nella tana del Bianconiglio, da questo precipitare di immagini riflesse. E non è di questo che si parla se si allude al teatro e non allo spettacolo?

Infatti lo specchio pertiene al dio della scena, al fanciullo Dioniso, prima che venisse fatto a pezzi dai Titani. Come racconta Carlo Sini, la storia dello specchio di Dioniso, ha molteplici significati. Il Dio-fanciullo, unico e indiviso, si specchia nel molteplice e, ammaliato dalle immagini, resta indifeso, vittima dei Titani, simboli dei desideri e degli appetiti, che lo sbranano in mille pezzi. L’uno si frantuma nel molteplice, Vi è una ulteriore accezione, più nascosta, che riguarda il mistero della conoscenza: lo specchio è il mondo racchiuso in un immagine, lo specchio è lo strumento che permette allo sguardo di vedere, ma soprattutto di ricordare. Lo dice Carmelo in uno stralcio di intervista: la conoscenza è sempre un rammentare.

Carlo Sini però ci parla di un terzo e più profondo significato: Dioniso vede nello specchio i Titani, vede le spade sguainate, e non si sottrae all’atto violento. Si lascia smembrare, perché solo nel frangersi in mille pezzi come uno specchio, può tornare unito. E questo atto di sacrificio è comune a Carmelo Bene, ben colto da Clemente Tafuri. Carmelo si è lasciato fare a pezzi dalle proprie immagini, si è abbandonato alla frammentazione nei tanti Amleto, Pinocchio, Otello, Lorenzaccio, etc. E questo farsi a pezzi, questo scomparire nel molteplice abbandonando l’ego, era sacrificio necessario per far apparire il teatro, arte che, vien più volte ricordato agli smemorati contemporanei, non ha mai a che fare con la letteratura e la storia, perché queste fanno famiglia con la rappresentazione e non con la conoscenza.

Per essere come Dioniso nello specchio, bisogna abbandonarsi, farsi ammaliare e perdersi come Rinaldo, dimenticare la propria identità. Bisogna insomma “complicarsi la vita” per usare le parole di Carmelo. Bisogna vaneggiare per non rappresentare. Bisogna dire senza riferire. Un mantico e maniaco delirare che “restituisca l’aria al suo vento insensato”. Questo per Carmelo Bene era il teatro.

E quanto è necessario oggi ricordare le sue parole, oggi dove tutto è racconto, dove si è obbligati a riferire schiavizzati dall’essere comprensibili a tutti i costi, invece di scegliere d’essere evocativi. Il significato è protagonista e non la selva dei significanti. Bisogna raccontare per filo e per segno, essere didascalici, spiegare tutto bene, quando non ci sarebbe nulla da spiegare. E tutto questo perché ci siamo dimenticati di cosa sia il teatro secondo Carmelo Bene: un non luogo in cui, a volte, si dà il miracolo dell’apparizione. Un non luogo che non ha tempo né spazio, come lo specchio di Dioniso.

Alla fine degli anni ’80, in una lunga intervista con Richard Kostellanetz, John Cage raccontò queste storielle Zen: Quando giunse il momento di scegliere il sesto patriarca del buddismo Zen, il quinto patriarca organizzò una gara di poesia in cui ognuno avrebbe dovuto esprimere la propria comprensione dell’illuminazione.
Il monaco più anziano nel monastero disse: “La mente è come uno specchio. Raccoglie polvere e il problema è rimuoverla”. C’era un giovane in cucina, Hui-Neng, che non sapeva né leggere né scrivere, ma al quale fu letta tale poesia e disse: “Oh, potrei scrivere una poesia migliore di questa, ma non so scrivere”. Allora gli domandarono di dirla e lui lo fece. La scrissero e diceva: “Dov’è lo specchio? Dov’è la polvere?”. Fu così che diventò il sesto patriarca. Qualche secolo più avanti in Giappone c’era un monaco che faceva sempre il bagno. Un giovane studente gli chiese: “Se non c’è polvere, perché fai sempre il bagno?” E l’anziano monaco rispose: “È solo un tuffo, nessun perché.” Carmelo Bene, avrebbe risposto, è la mia vanità.

Ovviamente qualcuno potrebbe dire, leggendo queste mie righe, che non ho parlato molto del film. La verità è che, come ogni forma di grande teatro o grande arte, non c’è racconto che possa restituirlo. Carmelo Bene diceva: non si dovrebbe dare un attore che riferisce e, chi scrive, lo pensa del critico. Se posso darti lettore solo il riassunto di ciò che ho visto ti farei perdere tempo. Per usare le parole di Carmelo Bene: “lo spettatore dovrebbe non poter mai riuscire a raccontare quel che ha udito”. Se ho fatto bene il mio lavoro, lettore, ti ho fatto venir voglia di vedere questo strano specchio di Dioniso.

Per questo ho parlato di specchi di cui il film è ennesima immagine, uno specchio esso stesso, dove possiamo vedere un mondo e un teatro di cui tutti ci siamo dimenticati.

La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro: Carmelo Bene – Durata 54’circa

Regia: Clemente Tafuri | Con: Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi | Fotografia e montaggio: Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi | Riprese e audio: Luca Donatiello, Alessandro Romi | Produzione: Teatro AkropolisAkropolisLibri

In comune di Ambra Senatore, variazione e sorpresa

L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i piccoli gesti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.

I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.

Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona, genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza. Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.

Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:

«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,

e aveva il volto della mia vecchiaia

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato

Sì, la saluterò,

la saluterò di nuovo».

Carcaça di Marco da Silva Ferreira

Nuovo appuntamento di Torinodanza con un doppio spettacolo, Carcaça di Marco da Silva Ferreira e Il combattimento di Tancredi e Clorinda per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz.

Carcaça è una messa in questione della comunità e della memoria collettiva che le appartiene attraverso la danza. Presente e passato si confrontano attraverso gli stili del ballo popolare (clubbing, house, street, breakdance, fandango, marce militari, techno, vaguing e trance) perché i corpi dei danzatori rendono manifesta la storia condivisa con la comunità degli spettatori. Riconoscere è appartenere, è condividere. E questo non avviene attraverso il linguaggio della cultura alta ma soprattutto grazie al pop, diffuso, pervasivo, persino rifiutato, ma comunque vissuto.

Pensiamo a quante canzonette estive dagli altoparlanti delle radio di un bar, o in macchina mentre si guida, ci restano nelle orecchie e colorano attimi della nostra vita, anche contro la nostra volontà. Marco da Silva Ferreira riproduce questo processo di acquisizione comune di linguaggi e stilemi attraverso la danza dei corpi. Questo rammemorare non è colorato di nostalgia, non è uno sguardo velato e sognante verso tempi lontani, ma è una domanda attiva e pressante rivolta al nostro presente. Cosa ricordiamo? E cosa significa ricordare?

Le marce militari così come la canzone rivoluzionaria delle lavoratrici (Cantiga sem maneiras – 1974) di Josè Mario Branco, il cantautore che sempre si oppose al regime fascista di Salazar, sopportò l’esilio in terra straniera e tornò in patria solo dopo la Rivoluzione dei garofani, porta in superficie il non lontano passato portoghese. Cosa di quelle lotte è rimasto? Quello spirito è ancora presente, o si è irrimediabilmente sopito? E questa domanda non è rivolta ovviamente solo ai portoghesi, perché a ciascun popolo, soprattutto oggi, quando in ogni stato d’Europa soffia un vento nero colmo di sussurri di un passato sconfitto con tante sofferenze, deve necessariamente chiedersi: sappiamo ancora ricordare da dove veniamo?

Ed è altrettanto ovvio che questa domanda non parta dalla testa o dalle parti superiori del corpo, ma scaturisca dai piedi di questi danzatori. L’accento di questa coreografia vitale e coinvolgente è sui passi e sul ritmo di questo marciare, comminare, correre. Da dove veniamo e verso dove siamo diretti? E non pensiamo neanche per un momento che con questo domandare ci si rivolga verso questioni filosofiche dei massimi sistemi, il quesito è concreto e terra-terra: dove stiamo andando ora in questo nostro presente? La memoria riguarda anche l’identità. Jason Bourne si risveglia senza un passato, non sa più chi è, non sa perché combatte e perché scappa. Trattiene solo abilità tecniche che nulla gli dicono su cosa fare nell’immediato futuro né perché sia quello che è. Senza passato saremmo simili al protagonista di Memento di Christopher Nolan, il cui agire perde significato ogni volta che la sua memoria non trattiene i ricordi. E come lui diventiamo manipolabili, inconsapevoli.

Una marcia militare porta i danzatori sulla scena e la sonata di Scarlatti (credo l’Allegro della Sonata K.01 in re minore, ma la memoria può ingannarmi) chiude questo percorso che tocca vari momenti: la danza del nostro presente (trance e clubbing), il vaguing degli anni ’80 e ’90, il ballo popolare dalle radici ataviche, la danza di strada delle comunità nere e sudamericane, la canzone rivoluzionaria di chi ha lottato per la libertà. Significativo il momento in cui le magliette rosse dei danzatori, sollevate in alto dalle braccia diventano una bocca che canta le parole di Branco. Il movimento stesso si fa verbo e ci ricorda il passato. È altrettanto significativo che quelle parole così urticanti contro la borghesia siano rivolte a un pubblico per lo più di estrazione borghese che alla fine applaude entusiasta. Quelle parole non sono più una sfida, sono diventate inoffensive. Carmelo Bene diceva che l’arte è tutta borghese, e probabilmente aveva ragione. L’arte ha forse perso la capacità di scuotere le coscienze anche quando ne ha tutta l’intenzione.

Anche Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz, riconnette il passato al presente in un ciclo interminabile di ripetizione dello stesso destino. Allestito per il quattrocentesimo anniversario della composizione dell’opera del “divino Claudio”, e a Torinodanza in anteprima prima del debutto ufficiale al Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi il prossimo 18 Ottobre, Cherstich e Kratz ci presentano una versione in cui due soldati, un uomo e una donna, sono legati da una nastro nero e sono costretti e combattere in un cerchio, simbolo dell’eterno ritorno dell’eguale.

La storia d’amore e morte tra la principessa etiope e il cavaliere cristiano perde i suoi connotati di travestimento dei ruoli sessuali che portano i due protagonisti a non riconoscersi. L’attrazione dei due amanti si trasforma in un involontario quanto inevitabile ferirsi a vicenda. L’ora fatale è giunta, come recita il testo del Tasso, o forse è costantemente presente, e così si ripete all’infinito la sconfitta di entrambi i contendenti. Se Clorinda muore, Tancredi è infatti mortalmente ferito nell’animo. Nessuno sfugge a questo inevitabile destino perché si è avvinti da questo nero cordame che ci spinge gli uni contro gli altri o, forse, come sostiene Philippe Kratz contro noi stessi. Tancredi e Clorinda sono due anime che si combattono, la loro lotta avviene dentro noi stessi. Per questo anziché impiegare un soprano e due tenori come da partitura, l’intero madrigale viene eseguito dal tenore Matteo Straffi, come se le diverse voci del narratore e dei due amanti combattenti siano un unico vociare dentro l’animo di ciascuno di noi.

Questa interpretazione tutta introspettiva della vicenda di Tancredi e Clorinda risulta però forzata, come se non fosse la loro storia. È Rinaldo che combatte con la propria immagine riflessa nello scudo, che viene ammaliato dallo specchio di Armida e dall’immagine che si riflette nei suoi occhi. Tancredi e Clorinda sono costretti al proprio destino dalle armature che impediscono di riconoscersi. I due soldati che si incontrano nel bianco cerchio sono chiaramente un uomo e una donna, non perdono i loro connotati sessuali. Per quanto mascherati non possono non riconoscersi. Combattono uno contro l’altro nelle loro identità. La maschera non li nasconde all’altro e al pubblico. Il combattimento, la lotta non sono inevitabili, si può fuggire dal cerchio. Quella corda che li unisce e li trattiene imbarazza anche il libero svolgimento della danza. É un impedimento ai danzatori che risultano a volte leggermente impacciati nel gestire l’attrezzo. Forse si dovrebbe dare lasciare libera la poesia del Tasso, lasciare da parte qualsiasi interpretazione e lasciare che quel combattimento avvenga, che i corpi ingannati dal travestimento si scontrino e al fine si rivelino pur con tutto il dolore che questo comporta. Lasciare che ogni volta la storia accada e non sia costretta a ripetersi. In fondo è il destino del teatro ogni sera trovare la forza di essere diverso pur nella ripetizione.

Tatiana Pavlova: dalla Russia con ardore

|ENRICO PASTORE

Tatiana Pavlova, esule russa (oggi diremmo ucraina essendo nata nel 1890 a Ekaterinoslav sulle rive del Dnepr), è stata la miccia che causò non pochi cambiamenti nel nostro teatro ancorato, negli anni’20, ai mattatori, ai grandi artisti solitari circondati da gregari, un teatro molto distante dalle rivoluzioni nel campo della messinscena e del lavoro sull’attore che avvenivano in altri paesi europei, Russia, Francia e Germania in testa. Ma prima di parlare delle riforme messe in moto da Tatiana Pavlova nel nostro paese, cominciamo con la sua formazione, passo fondamentale per capire la portata dei cambiamenti di cui fu fautrice.

Come lei tenne a specificare la sua famiglia: «non ha mai avuto a che fare con l’arte, mai nessuno degli avi più lontani, né da parte di mio padre, né da parte di mia madre». La sua fascinazione per il teatro nasce a scuola, dove vede i primi spettacoli, cui vuole partecipare ma viene sempre scartata perché considerata non all’altezza. Questi rifiuti anziché placare il suo desiderio, lo stimolano. Crea recite in casa con i suoi fratelli e poi all’età di otto anni comincia a frequentare il teatro cittadino e, dopo aver imparato i monologhi a memoria, li prova in casa per se stessa.

Raggiunta l’adolescenza, siamo nel 1905, anno chiave nella storia di Russia per lo scoppio dei primi moti rivoluzionari, avviene finalmente per lei l’incontro che le cambierà la vita. In città arriva la compagnia di Pavel Nikolaevič Orlenev, per recitare I fratelli Karamazov. Tatiana ne è così impressionata da chiedere un incontro con il grande attore. Quest’ultimo è un professionista di grande talento ma dal carattere difficile pronto a dissiparsi in continui eccessi eppure capace di adottare in modo autonomo un metodo simile a quello di Stanislavskij. Non bisogna dimenticare, e questo vale anche per la stessa Pavlova, che non necessariamente bisogna essere stati allievi del maestro per assaporare l’aroma del suo metodo. Le grandi idee si diffondono, si espandono dal centro di emanazione e senza paura di commettere un errore documentario e storico si può facilmente adottare il principio antropologico della diffusione di stimoli, secondo il quale appunto le idee e le pratiche viaggiano nelle parole e nei corpi degli attori a una velocità diversa e indefinibile, attraverso variazioni e differenze.

Orlenev mantiene la parola e parla con i genitori di Tatiana i quali però nicchiano e rimandano a un futuro da definirsi. La ragazza è impaziente e scappa di casa raggiungendo la successiva tappa della tournée della compagnia. Qui viene inseguita dalla madre che la riporta a casa, ma Tatiana scappa una seconda volta. La madre la raggiunge ancora ma lei parte con l’Orlenev per la Siberia. L’attore scriverà un telegramma ai genitori affermando che la ragazza ha del talento e ne varrà la pena.

Così comincia il suo duro apprendistato teatrale secondo i principi del metodo di Orlenev. Il sistema adottato prevedeva tre fasi denominate: cervello, cuore e bocca. Innanzitutto l’attore doveva studiare, non solo il copione, ma l’intera opera del drammaturgo e persino l’epoca storica e le usanze del paese d’origine (per mettere in scena Ibsen, Orlenev andò a vivere addirittura in Norvegia per comprendere l’ambiente dei drammi); a questo si aggiungeva un’analisi puntigliosa del personaggio da tutti i punti di vista. A questa fase ne seguiva una più profonda e ardua: entrare nella sensibilità del personaggio, trovare nel proprio animo gli ancoraggi dove fare aderire la personalità da interpretare. Ultima: la ricerca di gesti, modalità, intonazioni capaci di proiettare all’esterno verso lo spettatore tali sentimenti animando la parola scritta, facendola vivere. Tutto questo non passava necessariamente attraverso la verità. Tatiana Pavlova racconta su questo punto un aneddoto interessante: «Durante lo spettacolo, piansi finché potei, con lacrime vere perché quella era la mia parte, ma lui mi si avvicinò dicendo che le mie lacrime non arrivavano neanche alla ribalta. Erano lacrime vere, ma aveva ragione lui le lacrime vere non arrivavano, devono essere lacrime di artista capace di farle sentire e soprattutto di indirizzarle».

Nonostante questo per Orlenev l’interpretazione passava attraverso una riviviscenza, per: «un logorio dello spirito che si traduce in una vera e profonda sofferenza fisica». Queste parole di Tatiana fanno capire come l’Orlenev volesse dall’attore un recupero interiore dei sentimenti propri del personaggio e che tali dovessero coincidere con quelli dell’interprete, il quale doveva essere in grado di manovrarli con la tecnica affinché non venisse sommerso tanto da soccombere. Era una forma recitativa in cui si miscelavano, in un equilibrio sempre da riformulare, abbandono e controllo.

Un altro punto fondamentale del processo artistico e creativo di Pavel Orlenev era l’organicità dell’insieme degli attori i quali, condividendo un metodo, dovevano recitare insieme in un’atmosfera comune. Tale approccio era diffuso in Russia in tutti gli ambienti d’avanguardia, fosse il Teatro d’Arte di Mosca o il Teatro Drammatico di Vera Komissarievžskaija, oppure in seguito gli esperimenti di Vachtangov, Tairov o Mejerchol’d. Questa coerenza interna della compagnia sarà uno dei portati principali di Tatiana Pavlova al teatro italiano.

Il sodalizio con Orlenev dura fino al 1910 quando Tatiana decide che è il momento di fare altre esperienze anche se per il suo maestro nutrirà sempre grande ammirazione e rispetto. Nel 1911 la troviamo dunque attrice al Teatro Drammatico di Mosca. Allo scoppiò della rivoluzione, avendo un passaporto Montenegrino, come straniera riesce ad espatriare, prima a Istanbul, e in seguito a Parigi. Nella capitale francese non trova l’ambiente teatrale che si potesse adattare a lei e decide di trasferirsi in Italia giungendo a Torino nel 1919.

Non conoscendo la nostra lingua all’inizio lavora per i film muti. Torino all’epoca ospitava, sulle rive della Dora, gli studi della Ambrosio Film, la prima casa di produzione cinematografica italiana e una delle prime al mondo, in un bel edificio industriale liberty (oggi inspiegabilmente in totale abbandono dopo aver ospitato per decenni il Teatro Espace, diretto dalla famiglia Bergamasco). La Ambrosio film divenne famosa in Europa non solo per le comiche di Robinet e di Fricot, non solo per il lancio del genere Peplum di cui Gli ultimi giorni di Pompei (1908) sono il capolavoro indiscusso della casa di produzione, ma soprattutto per i film dannunziani come La Gioconda degli Olivi e La fiaccola sotto il moggio (1916), La nave (1921) e soprattutto per Cenere (1917), unica interpretazione di Eleonora Duse sulla sceneggiatura di Grazia Deledda. Per la Ambrosio Film Tatiana Pavlova girerà alcuni film muti diretti da Aleksandr Ural’ski tra cui L’orchidea fatale e La catena del 1920 e Nella morsa della colpa (1921).

Durante questa attività cinematografica Tatiana non smette di pensare al teatro ma prima di cimentarsi sulle scene italiane deve impararne la lingua. I suoi insegnati saranno Armando Falconi, Cesare Dondini, direttore del Santa Cecilia di Roma e l’attore Tullio Germinati il quale reciterà al cinema con Visconti, Rossellini e Renè Clair. Ad aiutarla in questa fase di adattamento e di lancio nel panorama teatrale italiano è affiancata da Jakov L’vov, un avvocato e impresario, che seppe prima presentarla a Giuseppe Paradossi, membro di uno dei più grandi consorzi di teatrali e di distribuzione, e poi affiancandola per limare le asprezze del carattere e l’incertezza nella lingua. L’vov sarà fondamentale anche per la venuta in Italia del Gruppo Praga, formato dai transfughi del Teatro D’arte di Mosca in esilio tra cui figurerà il regista Šestov di cui si parlerà in seguito.

Nonostante tutti gli sforzi Tatiana Pavlova non perderà mai l’accento russo che sempre la caratterizzerà nel bene e nel male (Pirandello non la sopportava mentre D’Annunzio ne lodava il fascino) e, forse, non volle mai perderlo, per mantenere un tratto caratteristico ed esotico. Nel 1923 si sente pronta quindi a fondare una propria compagnia che debutterà al Teatro Valle con Sogno d’amore di Korosotov.

Nel lavoro con la sua compagnia unisce in sé il doppio ruolo di attrice e regista benché la parola in Italia non solo non era usata, ma mal se ne comprendeva la funzione e l’utilizzo. Sarà solo nel 1931 che il critico Enrico Rocca della testata Il lavoro fascista utilizzerà il termine proprio in rapporto a un lavoro della Pavlova.

Tatiana apporta nel lavoro di compagnia le prassi imparate da Orlenev e nei teatri di Mosca spiazzando gli attori italiani abituati a ben altre pratiche. Innanzitutto il lavoro si svolgeva in tuta, studiando l’intero copione e analizzando i personaggi. Oltre allo studio collettivo si univa un training fisico con esercizi di respirazione. Tatiana applica con qualche modifica il metodo cervello-cuore-bocca di Orlenev insieme alla vulgata stanislavskiana probabilmente appresa a Mosca. Utilizza tutti i linguaggi scenici (le luci soprattutto a sottolineare i momenti chiave e i cambi di atmosfera) per dare profondità allo sviluppo attraverso una organica composizione scenica. Inoltre abolisce la buca del suggeritore e gli applausi a chiamata limitando i ringraziamenti, anch’essi comunitari, alla fine dello spettacolo e caratterizzati da un semplice chinare del capo.

La critica italiana, soprattutto Silvio D’Amico, si accorge della novità. La recitazione si fa più intensa, veritiera. Lo spettacolo risulta più organico e compatto, dove gli attori si amalgamano in un ascolto e tensione costanti. Il testo risulta più profondo e la vicenda più avvincente e commovente. Per la scena italiana è una vera rivoluzione ancora dominata dalle grandi figure di mattatori e da un lavoro concepito in solitaria, dove le prove servono solo per concertare l’azione comune, le entrate e le uscite. Così scrive Sandro Paparatti nel 1975: «Tatiana Pavlova è stata colei che ha dato nuova vita al teatro italiano, colei che ha portato una ventata di novità […], colei che diede all’attore non solo la parola, ma l’anima, il movimento, il cuore, la libertà di esprimere se stesso, pur mantenendo per il testo e per l’autore il massimo rispetto».

Ogni innovazione richiama su di sé gli strali dei detrattori e i peana dei fautori. Di certo Tatiana Pavlova fa rumore e riscuote successo. La sua compagnia alterna testi classici russi a contemporanei italiani privilegiando Bontempelli, Rosso di San Secondo, Ugo Betti, Sulla nuova drammaturgia mantiene una posizione che ancora oggi avrebbe qualcosa da insegnare ai direttori artistici dei teatri stabili: «Non è meno diffusa, né meno sbagliata, l’idea che un lavoro, per essere rappresentato, debba contare o sulla notorietà del nome dell’autore, o sull’importanza delle raccomandazioni o della posizione sociale: e sono persuasa che a un ingegno originale le porte del teatro sono assai facilmente aperte. E come siamo tutti felici allorché ci troviamo di fronte a un lavoro che appassiona e si impone, dovuto a un autore ancora ignoto, il quale è destinato a salire, un bel giorno, ad alta fama».

Tra i meriti di Tatiana Pavlova vi è anche l’umiltà di chiamare altri registi a dirigere la propria compagnia, allargando così gli strumenti a disposizione per sé e per i suoi attori. Prima collaborazione con il finnico Strenkowski che dirige il grande successo di Resurrezione di Tolstoj che riceve dal pubblico ben diciotto chiamate d’applausi ed è salutato dalla critica come il successo dell’anno. Poi è la volta di Šarov del Gruppo Praga, e poi di Evreinov. In seguito Tatiana Pavlova chiama in Italia Vladimir Nemirovič-Dančenko, fondatore insieme a Stanislavskij del Teatro D’Arte di Mosca il quale dirigerà tra il 1932 e il 1934 Il valore della vita, scritto da lui stesso, Il giardino dei ciliegi secondo il carteggio con Čechov e quindi riportando nell’opera l’atmosfera di commedia, contrariamente alla regia di Stanislavskij, e La gatta di Rino Alessi. In seguito Nemirovič-Dančenko preparerà la Pavlova per la parte di Mirandolina ne La locandiera diretta da Guido Salvini.

Questi inviti rafforzeranno l’influsso della scuola russa in Italia rivoluzionando completamente il modo di recitare e gestire uno spettacolo, oltre a consolidare l’istituto della regia il cui ruolo non è quello del dittatore che impone agli attori la propria visione ma, secondo le parole dello stesso Nemirovič-Dančenko, ripetute più volte da Pavlova, di colui che aspira a: «ottenere che gli attori siano convinti di aver fatto tutto da sé».

I meriti e le collaborazione di Tatiana Pavlova sono innumerevoli sia nel teatro, nel cinema, nell’opera (dove lavora con i cantanti come se fossero attori di prosa) e nelle prime regie teatrali televisive per la RAI. Tra questi contributi non dimenticheremo l’attenzione dedicata alla pedagogia. Tatiana Pavlova è stata infatti, insieme e su invito di Silvio D’Amico, fondatrice dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insegno dal 1935 al 1938 unendo le classi di recitazione e di regia in modo che gli allievi potessero provare quando avevano appreso. Per far questo rifiutava di stare agli orari e i suoi studenti, ammaliati dal suo sistema di insegnamento, disertavano le altre classi. Questo fu causa di attrito con Silvio D’Amico che nel 1938 la costrinse a dimettersi lanciandole accuse di anti-italianità.

Da questo momento inizia una sorta di declino scenico per Tatiana, nonostante avesse sposato Nino D’Aroma, biografo di Mussolini e direttore dell’Istituto Luce. La sua azione si dirigerà soprattutto verso l’opera lirica e il teatro televisivo. Una volta ritiratasi dalle scene continuerà a insegnare a Firenze al Piccolo Teatro.

Tatiana Pavlova fu un turbine nel sostanziale immobilismo delle scene italiane tra il 1920 e lo scoppio della Seconda Guerra. Certo c’erano le eccezioni: Petrolini, i Futuristi, Anton Giulio Bragaglia, i De Filippo, ma la consuetudine vinceva sulle novità che all’estero erano già comunemente indagate. Tatiana Pavlova ebbe però l’intelligenza di comprendere lo spirito di un paese ancora pieno di forze artistiche di grande livello e di cogliere l’aspetto più importante della cultura italiana: il connubio dello sperimentalismo con la tradizione. Certo questo si potrebbe dire di qualsiasi cultura ma forse in Italia tale aspetto è più accentuato a causa di un passato ingombrante e impossibile da ignorare. Tatiana Pavlova lo comprese e avviò una riforma percepita da pubblico e critica a volte come irruente a volte come gentile, ma di certo ferrea nella sua applicazione. In questo aspetto vanno forse ricercate le ragioni del suo successo oggi purtroppo parzialmente dimenticato nonostante le pubblicazioni anche recenti su di lei.

Ancora oggi la questione è costantemente dibattuta ma forse andrebbero mutati i termini: ogni sperimentazione si innesta in una tradizione. I due aspetti sono complementari e inscindibili. Tatiana Pavlova ne era consapevole e lo dimostra in questa sua dichiarazione: «nel cuore e nel genio di questi due artisti (Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko ndr.) il metodo è nato, o meglio rinato, dall’esperienza dei loro predecessori: e chi troviamo al posto di codesti predecessori? Lo ha dichiarato Stanislavskij in persona: un italiano, quello che l’Europa acclamò forse come il più grande attore dell’Ottocento, Tommaso Salvini».

Hanako

Hanako: il fascino della morte esotica

|ENRICO PASTORE

Hanako nacque con il nome di Hisa Ota in un piccolo villaggio nel Giappone centrale il primo anno dell’era Meiji ossia il 1868. La sua seconda nascita fu tenuta a battesimo da Loie Fuller in un albergo di Copenaghen nel 1901 dove era giunta rocambolescamente a seguito di una troupe di artisti nipponici senza aver mai prima calcato le scene.

Ecco come avvenne la sua seconda nascita raccontata dalla stessa Fuller: «Vennero tutti a salutarmi nel mio albergo e recitarono non so quale brano del loro repertorio. Scorsi allora, in mezzo agli attori, una dolce giapponesina che avrei volentieri consacrato prima attrice della compagnia. Ma per questi nipponici le donne non contavano e tutti i grandi ruoli erano realizzati da uomini. Tuttavia io avevo notato solo lei. Recitava un ruolo di terzo piano, è vero, ma con una intelligenza, con delle moine così divertenti, da topolino trotterellante. […] Quando la prova fu terminata riunii gli attori e dissi loro: se volete restare con me bisogna che mi obbediate. E se non prendete questa piccina come prima attrice non avrete alcun successo. E poiché ella aveva un nome impronunciabile, la battezzai seduta stante Hanako».

Il racconto della Fuller, allora impresaria di Sada Yacco, ci lascia intravedere alcuni aspetti interessanti: da una parte la grande abilità di impresaria di Loie Fuller nel saper fiutare il talento laddove nessuno era in grado di scorgerlo e, in secondo luogo, la sua capacità di spazzar via con un battito di ciglia l’intera tradizione giapponese che non conosceva, come la ignorava il pubblico e la critica. Loie vide in Hanako, così come aveva visto in Sada Yacco, la futura diva, la vedette esotica da mostrare allo spettatore europeo, e soprattutto francese, annoiato e sempre alla ricerca di succose novità ovunque queste provenissero. Da ultimo Loie sapeva che Hanako era portatrice di una femminilità e sensualità esotica che avrebbe elettrizzato il pubblico borghese.

Questi elementi furono fondamentali non solo per il successo di Hanako e Sada Yacco ma anche per Josephine Baker, la danzatrice nera che fece impazzire Parigi e la Francia. Il mondo dello spettacolo all’inizio del Ventesimo secolo scopriva il divismo e annesso a questo la potenza dei media di comunicazione, della stampa, della fotografia, che moltiplicavano le attese, le aspettative, i desideri. Tutto questo era amplificato dal mistero che aleggiava su tutto ciò che proveniva dall’Estremo Oriente di cui, allora, come per altri versi anche oggi, poco o nulla si sapeva.

Per comprendere appieno la capacità di Loie Fuller di spargere notizie ad arte (oggi le chiameremmo fake news) a fini pubblicitari e per aumentare le aspettative del suo potenziale pubblico ecco due episodi che ci aiutano a capire le strategie messe in atto dall’impresaria americana. Il primo riguarda Sada Yacco e su un suo presunto incontro a Buckingham Palace con la regina Vittoria al suo arrivo a Londra nel 1900. Secondo la stampa francese la Regina chiese se potesse fare qualcosa per l’attrice che l’aveva tanto impressionata e Sada Yacco rispose se potesse intercedere presso l’imperatore del Giappone pregandolo di concedere anche alle donne il diritto di andare in scena. Peccato la legge fosse già stata promulgata nel 1891! Quindi certamente la notizia arrivò ai mezzi di informazione da una fonte interessata a spargere una notizia falsa ma succosa.

Anche ad Hanako successe qualcosa di simile. Alla fine della prima tournée Hanako non tornò in Giappone ma si fermò ad Anversa. Qui la storia prende due strade diverse. La prima più veritiera racconta che Hanako non volendo tornare in Giappone dove da donna sola e abbandonata dal marito non avrebbe trovato una situazione stabile, cantò e danzò in un locale di cui in seguito acquistò la proprietà. Dopo questo passo cercò di costruire una compagnia con dei connazionali per sfruttare il successo ottenuto con la Fuller e ancora nelle menti degli spettatori. Dopo aver girato per l’Europa rimase senza soldi e chiese aiuto all’impresaria e amica americana che le offrì un secondo contratto.

La seconda storia raccontata dalla Fuller ci dipinge ben altro quadro. Hanako era stata presa in ostaggio da un connazionale che la sfruttava come ballerina e cantante per intrattenere rozzi marinai nel porto di Anversa. Hanako disperata chiese aiuto all’amica la quale inviò subito nelle Fiandre un connazionale che la liberò con sotterfugi dalle grinfie del losco oste e la riportò in treno a Parigi dove giunse povera e bisognosa. Ora il racconto è evidentemente fasullo e in realtà la Fuller pentita di aver lasciato andare troppo presto un’attrice di tanto talento, inviò al ristorante di Anversa la sua segretaria e Kaoru Yoshiwara, ex-attore e interprete. Kaoru non solo convinse Hanako a firmare nuovamente un contratto con la Fuller e a vendere il ristorante, ma divenne anche suo marito. Tutto questo ci racconta semplicemente come all’inizio del secolo le migliori menti dello spettacolo sapevano già sfruttare i media inventando notizie che potessero in qualche modo smuovere il pubblico. Tali strategie non solo le usò la Fuller, ma Marinetti, pubblicando il Primo Manifesto su Le Figaro e inventando forme di pubblicità occulta e ingannevole, e Tzara che per la sua prima serata dada parigina inviò alla stampa la notizia della certa presenza di Charlie Chaplin!

Dopo questa parentesi torniamo a Hisa Ota in arte Hanako. Come giunse in Europa? La sua infanzia e prima giovinezza è costellata di abbandoni. La sua famiglia la cedette a balia a Nagoya non potendo permettersi di mantenerla per i debiti del padre. In questa seconda famiglia fu addestrata alla danza e a suonare il Koto, una piccola arpa. Anche il secondo padre si indebitò per le scommesse e Hanako fu venduta a una compagnia di danzatrici girovaghe che attraversavano il Giappone centrale a piedi. Lasciò presto la compagnia e tornò a Nagoya dove si affiliò a una casa di geishe. Qui fu notata da un anziano costruttore che ne pagò il riscatto e la sposò. Era un uomo violento e autoritario e per Hanako non fu semplice. L’uomo però quando Hanako si innamorò di Azushima, un giovane intermediario di affari di Kyoto, la lasciò libera concedendole il divorzio, purché abbandonasse la città. La coppia partì per Yokohama, il porto aperto dagli americani al commercio con il Giappone nel 1859. Qui Azushima, finiti i soldi, fu richiamato dalla famiglia, e senza scrupolo abbandonò l’amante senza alcun sostegno. Hanako non potendo, e non volendo, tornare alla vecchia vita si imbarcò verso l’Europa con una compagnia di artisti, che dopo una tappa a Londra raggiunse la Danimarca dove fu scoperta da Loie Fuller.

Da questo momento in avanti la sua storia artistica non diverge molto da quella di Sada Yacco. Le sue performance, su testi giapponesi rivisti e riscritti secondo il gusto europeo da Loie Fuller, si basavano principalmente sulle sue famose morti in scena. A partire da La Martyre, passando Un drama au Yoshiwara, Poupèe Japonaise, La petit Japonaise e L’Ophélie japonaise, il sodalizio con la Fuller durò quasi ininterrottamente dal 1905 al 1914, attraversando tutte le migliori piazze europee e non solo. Fu ammirata da Isadora Duncan e Eleonora Duse, ma fu disprezzata da Gordon Craig, il quale non aveva risparmiato critiche nemmeno a Sada Yacco: «Hanako ci ha fatto credere a un mucchio di bugie, Lei e tutta la sua tribù ci hanno imbrogliato con l’orribile convinzione che tutto ciò che vogliamo sia il suicidio… Non lasciate che in Europa si pensi che lei e il suo modo di rappresentare in ogni più piccolo dettaglio riflettano l’arte del teatro d’Oriente. Non rappresenta il Giappone più di quanto il disegno sulle pagine centrali dell’Illustrated London News rappresenti l’antico spirito dell’India».

Una stroncatura senza appello. Gordon Craig pensava inoltre che le attrici giapponesi degradassero un’arte teatrale condotta ai massimi livelli per secoli dagli uomini, cosa per altro falsa, in quanto per secoli le donne ebbero una parte fondamentale in alcune forme spettacolari legate allo sciamanesimo e la danzatrice Okina fu la fondatrice leggendaria del teatro Kabuki. La questione però è quanto si intendesse Gordon Craig di teatro giapponese per esprimersi in questi toni. In verità non vide mai dal vivo uno spettacolo tradizionale nipponico. Tutto quello che sapeva veniva dai libri. E per questo gli sfuggì un tratto peculiare della cultura giapponese portato in scena sia da Sada Yacco sia da Hanako: la capacità di stratificare la propria tradizione con gli influssi provenienti da altre culture. Per secoli il Giappone è stato una fucina di reinvenzione di tradizioni importate dalla Cina o dalla Corea, a partire dalla scrittura, la religione, la pittura, il design. Il teatro non fece differenza. Il Nō, il Kabuki o le danze Buyo (quelle delle geishe per intendersi) incontrarono l’Occidente, utilizzarono tali elementi sovrapponendoli ai propri ma senza snaturarne i principi fondamentali.

Quello che non riusciva a comprendere Gordon Craig è che Hanako, inconsciamente e naturalmente, agì come fecero molti suoi connazionali usando le tecniche tradizionali adattandole al nuovo contesto. Non per questo erano meno giapponesi. Tutto questo è particolarmente evidente nell’incontro con Rodin, avvenuto a Marsiglia, sempre per tramite di Loie Fuller, durante l’Esposizione Coloniale del 1906, dove il grande scultore si era già innamorato delle danzatrici cambogiane. Da questa conoscenza scaturì una profonda amicizia durata negli anni.

Rodin in quel periodo era interessato a catturare il movimento nella danza. Di Hanako vide La Poupèe, la storia di una moglie gelosa dell’attenzione amore del marito verso le bambole da lui costruite. Dopo averlo scacciato di casa, un cliente entra nel negozio per cercare una bambola. L’unica che desidera è la più amata dal marito. La moglie la vende ma, pentita, si sostituisce alla bambola. Il marito tornato a casa e scoperta la vendita uccide la moglie. Rodin si innamorò dell’attrice Hanako e del suo modo straniante seppur iperrealistico di recitare e le chiese di posare per lui. Fu il soggetto più lavorato dal maestro in ben più di cinquanta maschere, oltre ai disegni e ai bozzetti. Da queste maschere, ottenute con ore e ore di posa estenuanti, per la difficoltà di mantenere le espressioni, si può intuire che ciò che per Rodin erano sentimenti ed espressioni reali impressi nel corpo, per Hanako erano i Mie, le pose tipiche del Kabuki. Un Mie, secondo la definizione che ne dà Savarese: «è un’espressione stilizzata dell’attore che culmina in una posa di tutto il corpo; enfatizza l’umore del personaggio in un dato momento del dramma, attraverso una particolare espressione del volto dopo aver mosso il torso e i fianchi».

Hanako dunque utilizzava le tecniche del Kabuki per rappresentare i sentimenti del proprio personaggio, e questo non stupisce perché nel cosiddetto mondo fluttuante, l’universo artistico giapponese, gli attori Kabuki e le geishe vivevano a stretto contatto. In origine addirittura condividevano la stessa arte. Tale vicinanza fu subito proibita dallo shogunato in quanto fautrice di disordini tra il pubblico.

Per gli Occidentali e per lo stesso Rodin, le espressioni di Hanako erano intese come l’affiorare di veri sentimenti attraverso il corpo. Niente di più lontano dal vero. Erano gesti stranianti ottenuti mediante lo studio del vero. Erano maschere in movimento. Ciò avviene in gran parte della cultura giapponese. Pensiamo ai bonsai: sono alberi veri ma non sono naturali, nel senso che sono opera dell’uomo sulla natura. E così l’Ikebana o l’arte dei giardini: per quanto si cerchi in natura non si troverà mai nulla di simile. Questa modalità era sconosciuta agli europei e Gordon Craig cercava dunque in Hanako qualcosa che non avrebbe potuto trovare perché giudicava e utilizzava parametri sbagliati. Per i giapponesi da sempre si è trattato di assimilare gli influssi e renderli nipponici e originali. La questione della verità non si è nemmeno mai posta. Essi arrivano all’essenza del dramma attraverso uno straniamento che parte del reale e lo trasformano facendo apparire il risultato a sua volta “naturale” benché non lo sia per niente. Ciò che importa è la verità del sentimento suscitato nell’osservatore.

Hanako rappresenta nella storia del teatro, in modo diverso da Sada Yacco, un suggestivo incontro con i teatri orientali proprio a causa del lavoro svolto con Rodin. Le maschere dello scultore francese ci fanno intuire un metodo di lavoro e come l’attrice giapponese utilizzasse la propria tradizione scenica pur in un contesto completamente differente. Lo sguardo occidentale, sia pro, sia contro, non seppe vedere il lavorio dell’attore su se stesso e sul personaggio perché non conosceva i fondamenti delle tradizioni estremo orientali. L’esotico non ci abbandona nemmeno oggi. Siamo sempre pronti a vedere nel diverso ciò che ci aspettiamo. La visione è qualcosa di complesso. Va coltivata e nutrita perché non sempre avere occhi significa vedere.

Leonor Fini: la teatralità inevitabile della vita

|ENRICO PASTORE

Leonor Fini nacque a Buenos Aires nel 1907 ma l’Argentina non sarà nella sua vita che una vaga reminiscenza di un incubo. Dall’Argentina sua madre Malvina fugge da un marito violento e autoritario e torna con Leonor bambina nella sua Trieste. Già da bambina Leonor rivela le doti d’artista che la caratterizzeranno tutta la vita: la creazione di doppi immaginari, il travestitismo, l’amore per la pittura, la curiosità morbosa che la porterà persino in obitorio per vedere i cadaveri. Nella città giuliana formerà e svilupperà le sue incredibili attitudini in un contesto vivo, cosmopolita, colto che la portò, a soli ventinove anni, ad essere già pienamente inserita nella pittura d’avanguardia europea esponendo i suoi quadri nell’alveo del surrealismo sia a Parigi che a New York. Aveva avuto numerosi amanti tra cui Max Ernst e i suoi travestimenti (famoso quello da cardinale), facevano già discutere la capitale francese avvezza a ogni stranezza.

Per raccontare però la vita e l’opera di Leonor Fini, definita dal Premuda come :«maestra di metamorfosi, misteriosa e inclassificabile», al di là dei dati puramente biografici, bisogna spingersi in territori inconsueti. Leonor, o Lolò come fu sempre chiamata, è un tipo d’artista visiva non inquadrabile in alcuna scuola (fosse Novecento o il Surealismo) per quanto i critici ci abbiano provato, tanto che per lei coniarono il termine sur-raffaellita tanto vago quanto inutile. Lei stessa era insofferente a qualsiasi affiliazione. Bisogna dunque inoltrarsi giocoforza nel Giardino di Armida da lei stessa costruito, affrontando i suoi labirinti e il suo specchio magico perché: «ella del vetro a sé fa specchio,/ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli». La figura di Leonor è assimilabile a quella di una una maga (mito che alimenterà per tutta la sua vita) capace, tramite la pittura, di evocare forze oscure, mostri custodi e pericolosi, specchi in cui trovare o perdere se stessi, in un gioco in cui al centro resta il mistero della rappresentazione.

Siamo inoltre in un luogo liminale, su un confine sottile tra più universi paralleli, dove il teatro ha un ruolo allo stesso tempo diverso e consueto in un continuo scambio tra vita e arte, e dove i due ambiti si confondono e si compenetrano. Leonor Fini amava dire: «mi interessa solo la teatralità della vita». E di questa esistenza terrena fece un teatro in cui difficile è distinguere il reale dall’immaginario. Alessandra Scappini con grande acume scrive: «La fantasia le permette di dare forma ad una molteplicità di immagini che riflettono le sue inquietudini, i moti che provengono dagli abissi, ma anche le sue concezioni che si manifestano nell’opera pittorica come teatro della vita “ulteriore” e “altra” rispetto al quotidiano. […] Per Leonor campeggiano fantasmatiche su un palco allestito proprio al limite tra conscio e inconscio, fra fantasia e storia personale».

Questo aspetto teatrale non è presente solo nella pittura ma in ogni aspetto del suo quotidiano. La sua casa di Parigi in rue Payenne al numero 11 per esempio, come notano Montesarchio e Varriale: «è un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».

A stabilire un rapporto stretto tra teatralità e agire artistico è ancora una volta la stessa Leonor: «fra il teatro e me, c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale […]. Attraverso il misterioso processo di questi rituali dimenticati, chiunque trova se stesso». Leonor stabilisce un nesso tra la performance e la conoscenza di sé e del mondo. Un lavoro su se stessi e sul personaggio che attraverso il velame della maschera rivela l’essenza della vita. Leonor dunque fu di se stessa una continua performance, quasi un processo filosofico alchemico in cui attraverso il mutare della maschera e attraverso l’azione scenica pubblica sonda le possibilità e le leggi del mondo e della vita. Come una sciamana vive la sua esistenza terrena in una continua ritualità costituita da elementi legati alla rappresentazione.

Questa fascinazione teatrale inizia, come da lei stessa evidenziato, nell’infanzia nella sua Trieste dove, per sfuggire ai ripetuti tentativi di rapimento operati dal padre rimasto in Argentina, è costretta a travestirsi da maschio per non farsi riconoscere. Inoltre fin dalla scuola alimenta la leggenda di essere il doppio di se stessa. Alle compagne di classe e di giochi racconta infatti di essere stata scambiata bambina nella culla. In realtà la vera Leonor è stata rapita, lei è una sostituita. Non solo. Afferma di esser figlia di un gatto e di avere le pupille verticali come i felini, specie animale con cui avrà sempre uno stretto rapporto d’amore.

Leonor Fini è un’artista che inscena se stessa in mille possibili varianti tutte plausibili e tutte rivelanti un frammento di verità. Si nasconde per rivelarsi a sé e agli altri. O per lo meno a coloro che hanno occhi per vedere al di là della maschera e della rappresentazione. L’azione teatrale di Leonor Fini è un incantamento nel senso indicato da Massimo Bontempelli quando definisce il realismo magico: «Forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo: e dell’incantesimo possiede tutti i caratteri e tutte le specie: esso è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezie di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione». In questo passo vi sono tutti gli elementi caratterizzanti Leonor Fini: la maga, la veggente, l’evocatrice.

Tutti temi cari al surrealismo e sono da lei incarnati in modo del tutto personale garantendole una libertà di pensiero e una distanza dagli adepti di Breton, distanza che il fondatore del surrealismo mai le perdonerà. Leonor ha chiarito questo punto con molta chiarezza: «le appartenenze mi hanno sempre infastidito e vedevo più la mia differenza che l’eventuale affinità con la tendenza surrealista. Essi erano avidi di nuovi giovani per farne degli adepti […], Essi amavano fare dei processi, comunicare, condannare, stilare delle liste di libri che non bisognava leggere, erigere dei tribunali».

La sua distanza con il movimento, benché per molti versi ne condivida le pratiche pittoriche e di vita, si misura soprattutto nel ruolo ambiguo conferito alla donna. Se all’inizio del Surrealismo i padri fondatori conferiscono alla donna un ruolo subalterno di musa ispiratrice, oggetto del desiderio, femme fatale o angelo protettore, con il passare del tempo tale concezione si modifica verso la veggente, la maga, la strega, colei insomma che privilegiando la parte irrazionale e inconscia, vede ciò che la razionalità maschile non riesce a cogliere. André Breton arriverà a fine anni Trenta a concepirla infine come vertice di una rivoluzione: «la donna è la pietra angolare del mondo materiale/amata ed esaltata come la grande promessa e può salvare la terra». A questo proposito Jack J. Spector afferma: «L’attitudine dei surrealisti nei riguardi della donna riflette in larga misura il punto di vista di una società patriarcale – per questi scrittori e artisti maschi, la donna può essere utile come strumento di immaginazione o di piacere, ma non può facilmente trapassare questi confini a fornire contributi indipendenti, ed è per questo che dobbiamo rigettare la posizione recente che afferma i Surrealisti non essere antifemministi». Anche se Robert Short nota che: «non esiste altro movimento, a parte quelli specificamente femministi, in cui vi fosse una tale alta proporzione di donne attive e partecipanti». Se per gli storici la questione ha degli aspetti di ambiguità, per Leonor non vi è dubbio alcuno affermando senza mezzi termini che i surrealisti erano dei maschilisti.

Quella di Leonor però non è una lotta specificatamente femminista. Le sue attenzioni si rivolgono principalmente al matriarcato originario. Come dichiara il suo amico Jelenski: «la società immaginaria creata dalla Fini è dichiaratamente matriarcale, nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale della società primitiva di natura, appunto, matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale a una cultura antichissima». Anche il questo Leonor misura una differenza e un’alterità.

Tornando alla sua opera pittorica e ai rapporti con la teatralità, essa è una pratica fondamentale per creare le condizioni di apparizione di un teatro immaginario. Le donne, le sfingi, i manichini, gli oggetti, le piante, sono tutti elementi di una scena in cui si nasconde e rivela l’io in cerca di se stesso. Un esempio può essere il Narciso di Leonor dove l’eroe non guarda l’acqua ma davanti a sé. E vicino a lui, quasi svanita c’è la ninfa Eco somigliante come una gemella a formare un dittico androgino. I loro riflessi nell’acqua guardano a propria volta lo spettatore, chiamato in causa per scandagliare dentro di sé l’inquietante somiglianza dei principi maschili e femminili incarnata dai due protagonisti del quadro. Non siamo quindi di fronte all’ostentazione di sé come manifestazione egotica ma come pratica di conoscenza non solo del proprio io nascosto ma delle regole che governano il mondo. Il rapporto tra immagini pittorica, immagine di sé en travesti, immagine fotografica, è sempre con il proprio doppio. Leonor velandosi si svela soprattutto a se stessa, permettendo il transfert allo spettatore tramite lo sguardo. Si osserva nello specchio tramite i suoi multipli, come in un caleidoscopio sempre mutevole.

Questa pratica è stata quasi sempre fraintesa soprattutto dalla critica italiana coeva incapace di concepire una donna fuori dalle righe e lontana mille miglia dall’angelo del focolare. Un esempio palese di malinteso è il famoso ballo in maschera a Palazzo Labia a Venezia del 1951 dove Leonor Fini partecipa con un vestito da lei stessa creato di angelo nero con tanto di ali. Al ballo ci sarà molta della illustre società con costumi creati da Christian Dior, nonché numerosi artisti come Dalì accompagnato da Gala. Il periodo storico vede un’Italia alle prese con la ricostruzione e la povertà e tale sfarzo ed eccentricità non viene digerito dalla stampa. A farne le spese sarà proprio la Fini per la quale da quel momento si farà strada, come afferma Di Santo: «una percezione maligna che si focalizza più sulla vita dell’artista che sul suo talento. Nascono leggende sulla sua persona e sul circolo di amicizie che la circonda. Una fama becera e bacchettona, pronta al facile giudizio di condanna verso una donna troppo libera».

La teatralità non resta confinata nella pittura, nella fotografia o nelle infinite maschere indossate nella vita quotidiana. Essa si misura direttamente con la pratica artistica focalizzata sul disegno di scene, costumi e maschere per l’opera, il teatro e la danza. Innumerevoli sono le collaborazioni: Balanchine, Barrault, Giorgio Strehler, Roland Petit (di cui sarà anche mecenate aiutando il coreografo a mantenere la compagnia con i propri donativi), Michele Galdieri e la compagnia di Anna Magnani, Jean Genet. Anche in queste collaborazioni Leonor porterà la sua modalità di rapporto con il pubblico, il suo travestirsi per rivelare, come nella famosa maschera da gatto ne le Demoisselles de la nuit che scatenerà le ire della prima ballerina Margot Fontayn, stella del Sadler Wells Ballet di Londra. Quasi a rivelare le sue doti di strega, dopo il litigio sulla maschera, alla seconda rappresentazione, la scenografia di Leonor crollerà in testa alla Fontayn, la quale, nonostante l’incidente, continuerà la propria performance.

Leonor Fini fa dunque parte di una specie d’artista che non relega la performance nello spazio angusto dell’arte, ma coinvolge tutta la quotidianità. La performance è prassi di una conoscenza antica, un comprendere il mondo tramite l’agire. E tale scandaglio del mondo e di se stessi è pratica crudele, feroce, frutto di grande disciplina in un connubio difficilmente ottenibile di abbandono e controllo. Su questo piano si misura l’alterità di Leonor Fini, una delle grandi artiste dimenticate o messe in ombra proprio perché lontane da una consuetudine tranquillizzante dell’arte come oggetto e prodotto culturale. L’arte come ricerca di sé, la teatralità utilizzata come metodo di conoscenza e non come mero spettacolo inquieta un sistema volto specificatamente all’intrattenimento e al consumo culturale. Leonor Fini mette in gioco valori antichi dove teatro è luogo da cui si guarda il mistero e se ne fa esperienza.