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Teatro delle Moire

RESISTENZE ARTISTICHE: INCONTRO CON IL TEATRO DELLE MOIRE

Per l’ottavo appuntamento di Resistenze Artistiche si torna a Milano per incontrare Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, le due anime de Il Teatro delle Moire e di Danae Festival.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Lachesi Lab

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conducete in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Inizialmente ci siamo sentiti tramortiti: il nostro spazio di lavoro LachesiLab si è svuotato di tutte le attività, tranne quella relativa alle residenze artistiche; il nostro lavoro sulla formazione che ha come oggetto principale l’indagine sul corpo e sul movimento è stato interrotto e ad oggi non ha ancora ripreso; su Danae Festival 2020 che debuttava il 24 ottobre, si è abbattuta la mannaia dell’ennesimo decreto del 25 ottobre che ne ha impedito la prosecuzione.

In questa catastrofe che ha visto anche lo stop della produzione artistica, tuttavia la necessità di invenzione, di stare in un movimento di creazione e di studio ha trovato dei canali inediti attraverso cui esprimersi: nel dicembre 2020 abbiamo ideato Danae InOnda, un progetto digitale che non fosse la traduzione in streaming di quanto era venuto a mancare; abbiamo contribuito alla creazione di una comunità insieme ad altri soggetti non solo dell’ambiente teatrale, all’interno della quale è stato ideato un progetto radiofonico di podcast (RadioVisione) e sono state progettate pratiche performative innervate nel tessuto urbano (progetto (Non) è la fine del mondo)

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

In questo tempo abbiamo comunque sentito la necessità di fermarci e di stare in ascolto, non preoccupandoci nevroticamente di immaginare subito soluzioni in velocità. Abbiamo ritenuto importante trovare modi per contattare artisti e artiste a noi vicini e vicine, scambiare con loro sensazioni e riflessioni. Abbiamo cercato di concentrarci su pratiche corporee non solo per tenerci in esercizio ma anche per restare collegati a noi stessi.

L’atteggiamento è stato quello di guardare a ciò che stava accadendo, di entrarci dentro fino in fondo, senza fare finta di niente e di conseguenza cercare di capire che cosa in questo scenario avesse ed abbia ancora senso dire o fare. Non abbiamo le risposte, le domande sono ancora aperte.

Sicuramente la pandemia ha messo in evidenza tutte le falle e le incongruenze del nostro sistema di fronte alle quali non sembra esserci stata nessuna presa di coscienza collettiva. Ma crediamo che il sistema teatrale sia solo la punta dell’iceberg di un problema molto più vasto che è culturale, l’idea che questo paese ha e propone della cultura.

Proprio per questo, ciò che è ancora importante fare per noi è stare accanto a quelle esperienze eccezionali spesso poco visibili che noi amiamo definire come “sottobosco”.

Inoltre pensiamo sia necessario, ora più che mai, offrire l’opportunità di avvicinarsi alla “cosa artistica” in un modo differente, entrando nei processi, nella prassi confrontandosi con percorsi nei quali risiede la possibilità di apertura del pensiero, di riconoscimento nell’altro, nelle comuni domande e fragilità.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

La risposta delle Istituzioni non è stata univoca. Da una parte si è cercato di venire incontro all’emergenza attraverso ristori, qualche semplificazione burocratica, nuovi bandi per nuove progettualità legate alla pandemia, dall’altra, c’è stata una diminuzione dei contributi, se non addirittura l’azzeramento relativi alle attività storiche.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Avendo un pubblico piuttosto fidelizzato abbiamo cercato di raccontare attraverso newsletter e pubblicazioni sui social quanto ci stava accadendo. Questo ha permesso, in alcuni casi, di scambiare pensieri e riflessioni con molte persone che da sempre seguono le nostre attività, creando un legame più stretto.

Nonostante Danae Festival nel 2020 abbia dovuto sospendersi, abbiamo cercato di offrire una progettualità online che non avesse a che vedere però con lo streaming. Questa esperienza che abbiamo chiamato Danae InOnda è stata rinnovata nel 2021 e proseguirà nel prossimo triennio, intrecciandosi con altre esperienze nate durante la pandemia come ad esempio RadioVisione.

Sempre attraverso RadioVisione è stato possibile gettare un ponte tra noi e chi ci ha sempre seguito, invitando all’ascolto della trasmissione Cavalieri nella tempesta nella quale l’incontro di esperienze e scelte fuori dai sentieri più battuti, le riflessioni sul presente e su futuri possibili, ci hanno sicuramente permesso di sentirci vicini.

Violently Snow White

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Non abbiamo aspettative. Proseguiremo l’attività del Festival finanziata dal decreto, con le solite problematiche e difficoltà. Proviamo ancora a inventare modi per fare il nostro lavoro, creiamo alleanze, guardiamo ad altre esperienze possibili, ma è chiaro che bisognerà capire fino a che punto si potrà agire nella costante riduzione.

Contemporaneamente si sono fatte più urgenti delle riflessioni sulle modalità del nostro operare, sul precisare sempre di più il nostro campo di intervento, mantenendo saldi i principi che muovono le nostre azioni. Tuttavia le domande non possono più riguardare semplicemente la sorte del teatro o dei teatranti perché quanto sta accadendo pone interrogazioni più ampie sul nostro modo di stare al mondo, coinvolge le nostre esistenze in modo totale e mette in discussione la nostra relazione con il pianeta e con tutto il vivente. È necessaria una trasformazione. E sicuramente noi non siamo quelli di prima, qualcosa è già cambiato e non sappiamo dove tutto questo ci condurrà.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Quello che non si è fatto e che non si è voluto (non potuto) fare è mettere tutto il sistema in discussione, lanciandosi alla rincorsa di un’attività spasmodica, assumendo la pandemia come alibi. La ripresa! La ripresa!

La nostra impressione è che le grandi strutture teatrali, che già prima della pandemia godevano di alcuni privilegi e le realtà artistiche “sulla cresta dell’onda” abbiano paradossalmente, grazie alla pandemia, migliorato la propria condizione, accumulando talvolta delle risorse o moltiplicando esponenzialmente la propria attività. Lo scenario che si prospetta è che queste realtà avranno sempre più opportunità, a discapito di una serie di esperienze artistiche eccellenti e di spazi virtuosi più piccoli o meno visibili, ma non per questo meno importanti, che invece rischiano di sparire per sempre. Ma può un bosco sopravvivere senza il prezioso lavoro sotterraneo del sottobosco?

Chi siamo

Siamo Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani e nel 1999 fondiamo il Teatro delle Moire. Ci affiancano col tempo sulla parte organizzativa e amministrativa Anna Bollini e Barbara Rivoltella in modo continuativo e molte altre persone e professionalità a seconda dei progetti. Ci occupiamo di indagare nuove forme di linguaggio non solo con la produzione di nostri spettacoli per la sala, installazioni e performance per spazi urbani e luoghi non convenzionali, ma anche attraverso di Danae Festival, un progetto internazionale multidisciplinare nato nel 1999, che sostiene e presenta progetti di creazione contemporanea dai linguaggi “ibridi”. Da alcuni anni ci interroghiamo spesso sul senso del nostro fare e siamo piuttosto insofferenti al sistema teatrale, a maggior ragione adesso. Abbiamo sicuramente la necessità di coltivare una relazione di prossimità con gli artisti e le artiste, per conoscere il loro lavoro e creare talvolta assieme le condizioni per un intervento non necessariamente spettacolare. Dal 2008 abbiamo acquisito uno spazio di lavoro, LachesiLab, un luogo aperto a incontri e scambi, dove gli artisti e le artiste trovano le condizioni per conoscersi, imparare, creare, prendendosi il tempo per la ricerca.

Ci piace definirci agitatori culturali perché siamo stati anche motore di azioni artistiche e politiche realizzate su base comunitaria a partire da altre logiche rispetto a quelle che regolano il sistema e nella più completa gratuità.

Link:

teatrodellemoire.it

danaefestival.com

nelcuoredellanotte.it

Guerrilla

GUERRILLA di El Conde de Torrefiel

Guerrilla, così come le altre pièce de Il Conde de Torrefiel, appaiono sotto la stella del contrasto. La forte dissonanza tra testo e immagine è stridente come l’urto tra due zolle tettoniche. Quello che risulta da questo scontro è uno schiaffo, un pugno allo spettatore. Non c’è nessuna indulgenza. Una durezza adamantina che ferisce, come lo può essere solo una cosa vera, seppur immaginata. E questo contrasto si palesa tra la violenza del racconto e la serenità, tranquillità delle immagini.

Ieri sera come anteprima del Danae Festival di Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale è andato in scena Guerrilla. Il pubblico si siede, chiacchiera, c’è che si riconosce e si saluta calorosamente. Sul palco delle sedie rivolte verso la sala. Ecco che inizia lo spettacolo e la sala si fa silenziosa. Sul palco invece si replica la quanto avvenuto in platea. Ecco che le sedie si riempiono di gente che guarda verso noi pubblico, il palco si riempie, la gente chiacchiera del più e del meno, si accomoda sulle sedie, legge un programma. Dov’è lo spettacolo? Dov’è la verità?

E intanto scorrono le frasi proiettate che ci portano in un futuro prossimo venturo. A qualcosa che inizia nel 2019 e che si protrae verso la guerra mondiale del 2023. Ma se l’ambientazione di queste storie è in questo futuro possibile, le persone di cui si parla sono quelle sedute di fronte a noi. La ragazza con la canottiera gialla, il musicista con la maglietta verde. Sono le persone che hanno partecipato alla costruzione della pièce tramite call pubblica effettuata nell’estate. Il luogo è la città di Milano. Siamo immersi in un misto di reale e immaginario, così come la proiezione futura parla di questo presente. Questo è l’incipit.

Tre le situazioni in cui ci si trova: una conferenza di Angelica Liddell che in spagnolo parla di scena, del ruolo del teatro, del corpo tragico dell’uomo. E intanto scorrono le biografie di alcune delle persone sedute di fronte a noi. Si abbassa il sipario. Scena numero due: una lezione di Tai Chi. Sulla scena delle donne compiono gli esercizi con soave e concentrata tranquillità. Una musica per pianoforte accompagna il loro movimento. Intanto scorrono i testi feroci in cui queste biografie immaginarie si trovano ad operare in un futuro possibile e non lontano. Il tema è sempre la guerra, la violenza dell’economia, del convivere, della civiltà. Sipario e terza scena: Siamo in una discoteca. Persone ballano forsennate sotto una luce rossa, poi verde e infine strobo. La musica è assordante. E continuano a scorrere le frasi secche e taglienti come un bisturi.

Le domande ricorrente sono: come possiamo pensare che non si scateni una guerra se i nostri pensieri sono sempre rivolti ad essa? Questa pace che sempre invochiamo, la sicurezza che viene sempre e costantemente evocata, è forse un’inconsapevole richiesta di guerra? La natura umana è violenta? E se sì, la pace è un aspetto che riguarda la civiltà e non la natura e quindi ci è estranea? Domande terribili. A cui spesso non vogliamo rispondere. Vogliamo dimenticare che l’essere umano, non nato predatore ma preda, si è trasformato per imitazione in rapace cacciatore. Scontiamo questa nascita volontaria al sangue. Abbiamo scelto di essere assassini. E gli antichi lo sapevano bene. Sia i Veda che i Greci erano consci di questo fatale passaggio evolutivo.

E alla luce di queste domande, si definisce anche la natura della prossima guerra immaginata. Una guerra non ideologica né politica né religiosa. Un antagonismo armato per difendere solo gli interessi economici delle proprie nazioni. Un conflitto che i posteri chiameranno: la guerra onesta. Questa è la fine.

Uno spettacolo intenso, violento, per certi versi terribile. Lo specchio che si forma all’inizio di Guerrilla non riflette un’immagine edificante. Come il quadro di Dorian Gray, l’immagine riflessa cattura tutti i nostri peccati e ci dona una figura deforme e orribile. Non si scappa, tocca volgere gli occhi a questa fotografia impietosa.

In Guerrilla de il Conde de Torrefiel, così come nei testi di Thomas Ligotti, non c’è nessuna fiducia nell’umanità e nel suo futuro. La catastrofe è dietro l’angolo. Il nostro destino è funesto e funereo. Nessuna speranza all’orizzonte.

Forse questo è l’unico difetto di uno spettacolo potente e ben costruito: non c’è spazio per nient’altro che il male. Non c’è niente oltre l’abisso. Nessun volo verticale, solo caduta senza fine. E per fortuna il mondo, benché ferito da mali infiniti, conserva in piccola parte anche semi di speranza. Pochi è vero. Ma presenti. E non notarli, non farli trasparire, dona un’immagine monodimensionale, parziale. C’è una sorta di voluttà del male, un voler vedere solo quell’aspetto. E questa parzialità, che ho riscontrato anche nei lavori precedenti a Guerrilla (La possibilidad que desaparece frente al paesaje del 2015 e la versione precedente di Guerrilla presentata sempre nel 2015 al festival TNT di Terrassa Barcelona), alla fine stanca, fiacca lo sguardo. Non sto parlando di lieto finale, e nemmeno di favole consolatorie, ma di un mondo tridimensionale che come diceva Calvino veda nell’inferno ciò che inferno non è, e gli dia luce e gli dia spazio.