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The night writer

Forma e vuoto: The night writer di Jan Fabre

Il 15 marzo si è aperto al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano la seconda edizione del Festival FOG dedicato alle performing arts. Numerosi e importanti gli artisti in programma con alcune prime di assoluto interesse come Uncanny valley di Rimini Protokoll, Deposition di Michele Rizzo o La plaza de El conde de Torrefiel (l’intero programma si può consultare a questo link https://www.triennale.org/fog-19/).

Ad inaugurare la rassegna la prima assoluta di The night writer di Jan Fabre interpretato da Lino Musella, il volto di Rosario ‘o Nano nella serie Gomorra.

Un piccolo piano di legno montato su due semplici cavalletti formano una scrivania al centro della scena. Alle spalle una telo da proiezione. La scena coperta completamente da bianco sale su cui campeggiano quattro pietre sparse nello spazio quasi a ricordare un giardino zen.

In questo spazio appare Lino Musella a impersonare una sorta di incarnazione di Jan Fabre. Dopo essersi seduto al tavolino comincia a leggere e interpretare frammenti di diari e testi che coprono un periodo dell’attività dell’artista belga dalla fine degli anni ’70 agli inizi del Millennio. Frasi, pensieri, immagini che Jan Fabre vuole darci di sé e del suo lavoro, dei suoi rapporti con la famiglia, con l’arte, con il sesso, con il pubblico.

Fin dai primi minuti di questo strano spettacolo hanno cominciato a risuonarmi nella mente i primi versi del secondo canto del Paradiso, quei versi in cui Dante ci avvisa di stare attenti, noi desiderosi d’ascoltare, e di misurare bene le forze della nostra piccioletta barca, mica da perdersi nel vasto oceano che l’artista sta per solcare. The night writer è infatti un vasto mare aperto di pensieri sparpagliati nello spazio e nel tempo che vogliono dar conto di un percorso di ricerca artistica periglioso e accidentato, un sentiero petroso e difficile compiuto da un uomo di genio.

L’impressione che si forma man mano che si avanza è però quella di una maschera che vuole coprire più che evocare e rivelare. Un’immagine che si vuole dare di sé, della propria personalità d’artista soprattutto in un periodo in cui è messa in discussione da una serie di scandali e di accuse per molestie sessuali.

Con questa mia affermazione non voglio entrare assolutamente nel merito della questione e nemmeno intendo giudicare (per altro allo stato attuale dei fatti non possiamo che presumere l’innocenza). A lungo si potrebbe disquisire sul rapporto tra etica ed estetica e non è certo in una recensione che si può affrontare con completezza questa spinosa questione. Per chi volesse informarsi, invito a leggere la bella ed equilibrata intervista di Gaia Clotilde Chernetich a Ilse Ghekiere a questo link https://www.teatroecritica.net/2019/03/le-accuse-molestie-sessuali-nel-mondo-della-danza-intervista-ilse-ghekiere/ .

Quello che intendo dire è che questi fatti paiono influenzare The night writer e che esso sia una sorta di risposta di Jan Fabre a chi mette in discussione il suo lavoro, la sua persona e i suoi metodi, e che tale risposta suoni in gran parte inadeguata. È innegabile che i testi trasudino una poesia urticante e provocatoria, a volte incisiva come un bisturi, come è altrettanto indiscutibile la grande qualità attorica di Lino Musella che affronta il magmatico materiale testuale con un piglio aggressivo, a tratti violento e irruente, persino irritante, ma efficace perché controllato e misurato, senza trascendere o debordare mai. Nonostante questi indubbi pregi The night writer risulta però noioso e un tantino autocelebrativo, con alcune parti persino inutili. Due esempi su tutti: il pubblico invitato a fare il coro a Amandoti dei CCCP e a Volare, un coretto che non è vero coinvolgimento dello spettatore a un processo artistico ma semplice utilizzo strumentale della sua partecipazione; e penso soprattutto al giochino di parole con le quattro pietre -in tedesco stein -, che diventano quattro illustri rappresentanti nei vari rami del sapere del Novecento (Ein-stein, Wittgen-stein, etc.), momento spocchiosamente superfluo. The night writer pare quindi si sorregga più sulle qualità recitative di Lino Musella e sulla qualità dei singoli testi che sul significato profondo e sulla necessità o urgenza dell’opera nel suo complesso.

Come documento questo lavoro appare affetto soprattutto da unilateralità, mancano le voci degli altri, anzi sembra che si voglia respingerle e ci si voglia schermare da loro. Se pensiamo, per esempio a 20000 days in earth di Iain Forsyth e Jane Pollard su Nick Cave, in cui quest’ultimo racconta la sua ventimillessima giornata sulla terra e che paragono per la similitudine di un genio creatore grafomane che giornalmente scrive pensieri, canzoni, riflessioni, risulta evidente come l’immagine che l’artista ci dona di sé sia mediata, ridimensionata o amplificata dalle voci di chi lo circonda, dall’ambiente in cui vive e con cui si confronta in una qualsiasi giornata della sua vita. In The night writer invece vi sono mille voci ma che appartengono tutte alla stessa anima strabordante e che sembra non mettersi mai in discussione. Questo ritratto per frammenti, che ha per oggetto una creatività complicata, difficile, dolorosa e completamente chiusa in se stessa avrebbe dovuto e potuto diventare qualcosa di condivisibile, oggetto su cui riflettere insieme invece che semplice icona ostentata all’ammirazione delle genti.

L’ultima immagine dello spettacolo, quella di un video girato probabilmente nel porto di Anversa, ci presenta un Jan Fabre giovane, su una barca che abbandona alla corrente di un canale una scritta in vetro blu. Le parole vengono trascinate dalla corrente e scompaiono fuori campo. Forse il senso di questo lavoro è tutto in questa ultima immagine. L’artista belga ha affidato le parole del suo Giornale notturno alla corrente. Vadano dove credono, approdino dove vorranno il fato e gli dei. A lui non importa se verranno comprese, se genereranno scalpore, polemiche, oppure ammirazione, o semplicemente affonderanno dopo pochi istanti. Per lui era importante proferirle davanti a un pubblico. L’urgenza era forse solo questa. Decisamente troppo poco per un artista come Jan Fabre. Il teatro in questo momento storico richiede di condividere con lo spettatore qualcosa di più che una forma vuota.

Deflorian Tagliarini

QUASI NIENTE: di Deflorian Tagliarini

Stanno tutti male in Quasi niente del duo Deflorian Tagliarini. Il Quarantenne, la Trentenne, la Sessantenne. Tutti. Non un male evidente, lancinante. Piuttosto qualcosa di sordo, strisciante, banalmente comune. Non sono nemmeno personaggi, quelli che si aggirano sulla scena. Non raccontano una storia. Come dice la Quarantenne: «quanto sarebbe più facile se questo fosse quel teatro con una trama». Si naviga per piccoli aneddoti di vita. È tutto lacunoso, disarticolato e perciò condivisibile. Quasi come su un social, dove frammenti di vita, di racconti, di cose fatte o pensate, vengono postati in lunga lista e poi dimenticati.

Ma è solo un’impressione. Si è come di fronte a uno specchio rotto, andato in frantumi, in mille pezzi. Le particelle, i rimasugli, contengono ciascuno una parte di verità che si può ricostruire pazientemente, per scoprire, come nel romanzo di George Perec, che in questo puzzle manca sempre un frammento.

In questo deserto che è la scena il male che s’aggira ha un volto bonario e confortevole. Ci sorride, ci strappa delle risate. Non è qualcosa che spaventa o verso cui provare compassione. È un male che non presuppone alcuna ostilità. Si sente aria di famiglia in questa logorrea di pensiero e di frantumi di vite vissute. Ci sentiamo protetti da questo male strisciante senza il quale dovremmo fare lo sforzo di trovare una definizione per ciò che siamo. La Quarantenne lo afferma candidamente: «Quando non sono malata non so cosa farmene di me, mi sento poco interessante, senza sale».

Siamo incapaci di meraviglia, di entusiasmo nell’incontro con la realtà. Tutto ci lascia indifferenti. Siamo saturi di connessioni, di contenuti, di cose da fare, di stimoli. Ci obblighiamo a fare perché la pigrizia è bandita, l’otium non è contemplato. Come dice il filosofo coreano Byung Chul Han nel famoso saggio La società della stanchezza, siamo carnefici e vittime di noi stessi. Non c’è più un padrone che ci costringe, ma liberi di poter tutto fare ci costringiamo al dover fare e alla bulimia d’azione. Come dice la Sessantenne: «tutto questo vivere, sempre vivere, è pesante».

Gli attori sulla scena, oltre a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini Francesca Cuttica, Monica Piseddu e Benno Steinegger, sono estremamente efficaci nel farci percepire questo sfinimento confortevole, con le loro ossessioni e manie decisamente simpatiche, i loro gesti misurati, lontani da ogni eccesso (in questo nostro mondo tutto è lecito tranne l’essere in qualche modo sopra le righe, eccezionali o anormali). Una recitazione trappola che ti fa avvicinare senza avvertire il senso di pericolo, l’urgenza di una crisi e di uno stato irrisolto. Una volta nella trappola siamo obbligati a fare i conti con noi stessi e con quanto della nostra vita è comune alla scena.

Deflorian Tagliarini individuano in Giuliana, la protagonista di Deserto Rosso di Antonioni, il film del 1964 che vinse la Mostra del Cinema di Venezia e magnificamente interpretato da Monica Vitti, una sorta di icona che raffigura questo malessere che ci attanaglia. Non un mito, perché quest’ultimo dovrebbe spiegare il reale. È più una rete da pesca, che impiglia altre immagini che però si sottraggono. Bisogna immaginarle, costruirsele. Quasi niente si sostanzia quindi come una forma di pensiero complesso, dove tutto si mette in relazione e trasuda significati sempre diversi a seconda delle connessioni che riusciamo a creare durante e dopo lo spettacolo.

Nelle piccole ossessioni in dettaglio che vengono raccontate, come la pasticchetta della Sessantenne, o nel bottone che si stacca dalla poltrona e viene conservato dalla Quarantenne, traspare la trama delle cose. Sono proprio le minuzie, in quanto relitti di nessuna importanza, quasi rifiuti, realtà dal rango più basso, che possono far essudare il midollo di questo male generico e persistente: l’incapacità di sentirsi completi, l’aver bisogno sempre di qualcosa in più e quindi sempre deficitari, impotenti, incompleti.

Inadeguati alla completezza è peccato in questo mondo che invita a essere iperattivi, sempre impegnati in modo da non affrontare mai nulla, correndo all’impazzata verso nessun luogo. Come dice la Sessantenne la ginnastica diventa la panacea per tutti i mali: soffri? Vai in palestra! Vai a correre! In un mondo in cui non vi sono ideologie, fedi, utopie a cui dedicarsi, dove tutto è relativo, qualsiasi opinione accettabile, dove i sentimenti sono sempre riferiti e mai provati, dove l’esperienza è quasi sempre mediata non riusciamo a trovare un centro. Ci abbandoniamo al vortice delle sollecitazioni con il senso di colpa che se non riusciremo a farcela sarà solo mancanza nostra perché tutti gli strumenti per riuscire sono lì a portata di mano.

Deflorian Tagliarini costruiscono un grande mosaico dove ogni tassello apre una finestra sul mondo in cui viviamo, sulla società che abbiamo costruito. Una coreografia di gesti minimi, di movimenti del corpo nello spazio che danza il senso del mondo pur senza parlar del mondo. Nessuna magniloquenza né vengono enunciati grandi temi, eppure tutti gli aneddoti diventano una sorta di teatro politico, un atto di accusa in minore di una società basata esclusivamente sul consumo e dove tutto si corrode inesorabilmente a breve scadenza.

In Deserto rosso Giuliana si chiede: «Che cosa devono guardare i miei occhi?» e Corrado rispondeva: «Tu chiedi cosa devono guardare i tuoi occhi, io mi chiedo come devo vivere. È la stessa cosa» . Intorno a queste domande ci dibattiamo senza trovare una risposta, frammentati come i personaggi sulla scena, in perpetua discussione con i nostri diversi io.

Siamo cronicamente depressi, felicemente malati perché la battaglia sempre rinnovata con questo male sottile ci fornisce uno scopo. Paurosi della completezza che invece affascinava i greci. Meglio un amore da una notte, senza neanche quasi toglierci i vestiti, piuttosto che qualcosa di sconvolgente che ci faccia sentire veramente vivi. Amicizie fugaci, esperienze brevi che non scuotono più di tanto, emozioni a buon mercato che per un istante facciano tacere il vuoto assordante delle nostre vite. Siamo quasi niente, ci sentiamo quasi niente: «felici in questo, di non essere troppo felici».

Visto al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano il 24 febbraio 2019

Ph. @Claudia Pajewski

Guerrilla

GUERRILLA di El Conde de Torrefiel

Guerrilla, così come le altre pièce de Il Conde de Torrefiel, appaiono sotto la stella del contrasto. La forte dissonanza tra testo e immagine è stridente come l’urto tra due zolle tettoniche. Quello che risulta da questo scontro è uno schiaffo, un pugno allo spettatore. Non c’è nessuna indulgenza. Una durezza adamantina che ferisce, come lo può essere solo una cosa vera, seppur immaginata. E questo contrasto si palesa tra la violenza del racconto e la serenità, tranquillità delle immagini.

Ieri sera come anteprima del Danae Festival di Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale è andato in scena Guerrilla. Il pubblico si siede, chiacchiera, c’è che si riconosce e si saluta calorosamente. Sul palco delle sedie rivolte verso la sala. Ecco che inizia lo spettacolo e la sala si fa silenziosa. Sul palco invece si replica la quanto avvenuto in platea. Ecco che le sedie si riempiono di gente che guarda verso noi pubblico, il palco si riempie, la gente chiacchiera del più e del meno, si accomoda sulle sedie, legge un programma. Dov’è lo spettacolo? Dov’è la verità?

E intanto scorrono le frasi proiettate che ci portano in un futuro prossimo venturo. A qualcosa che inizia nel 2019 e che si protrae verso la guerra mondiale del 2023. Ma se l’ambientazione di queste storie è in questo futuro possibile, le persone di cui si parla sono quelle sedute di fronte a noi. La ragazza con la canottiera gialla, il musicista con la maglietta verde. Sono le persone che hanno partecipato alla costruzione della pièce tramite call pubblica effettuata nell’estate. Il luogo è la città di Milano. Siamo immersi in un misto di reale e immaginario, così come la proiezione futura parla di questo presente. Questo è l’incipit.

Tre le situazioni in cui ci si trova: una conferenza di Angelica Liddell che in spagnolo parla di scena, del ruolo del teatro, del corpo tragico dell’uomo. E intanto scorrono le biografie di alcune delle persone sedute di fronte a noi. Si abbassa il sipario. Scena numero due: una lezione di Tai Chi. Sulla scena delle donne compiono gli esercizi con soave e concentrata tranquillità. Una musica per pianoforte accompagna il loro movimento. Intanto scorrono i testi feroci in cui queste biografie immaginarie si trovano ad operare in un futuro possibile e non lontano. Il tema è sempre la guerra, la violenza dell’economia, del convivere, della civiltà. Sipario e terza scena: Siamo in una discoteca. Persone ballano forsennate sotto una luce rossa, poi verde e infine strobo. La musica è assordante. E continuano a scorrere le frasi secche e taglienti come un bisturi.

Le domande ricorrente sono: come possiamo pensare che non si scateni una guerra se i nostri pensieri sono sempre rivolti ad essa? Questa pace che sempre invochiamo, la sicurezza che viene sempre e costantemente evocata, è forse un’inconsapevole richiesta di guerra? La natura umana è violenta? E se sì, la pace è un aspetto che riguarda la civiltà e non la natura e quindi ci è estranea? Domande terribili. A cui spesso non vogliamo rispondere. Vogliamo dimenticare che l’essere umano, non nato predatore ma preda, si è trasformato per imitazione in rapace cacciatore. Scontiamo questa nascita volontaria al sangue. Abbiamo scelto di essere assassini. E gli antichi lo sapevano bene. Sia i Veda che i Greci erano consci di questo fatale passaggio evolutivo.

E alla luce di queste domande, si definisce anche la natura della prossima guerra immaginata. Una guerra non ideologica né politica né religiosa. Un antagonismo armato per difendere solo gli interessi economici delle proprie nazioni. Un conflitto che i posteri chiameranno: la guerra onesta. Questa è la fine.

Uno spettacolo intenso, violento, per certi versi terribile. Lo specchio che si forma all’inizio di Guerrilla non riflette un’immagine edificante. Come il quadro di Dorian Gray, l’immagine riflessa cattura tutti i nostri peccati e ci dona una figura deforme e orribile. Non si scappa, tocca volgere gli occhi a questa fotografia impietosa.

In Guerrilla de il Conde de Torrefiel, così come nei testi di Thomas Ligotti, non c’è nessuna fiducia nell’umanità e nel suo futuro. La catastrofe è dietro l’angolo. Il nostro destino è funesto e funereo. Nessuna speranza all’orizzonte.

Forse questo è l’unico difetto di uno spettacolo potente e ben costruito: non c’è spazio per nient’altro che il male. Non c’è niente oltre l’abisso. Nessun volo verticale, solo caduta senza fine. E per fortuna il mondo, benché ferito da mali infiniti, conserva in piccola parte anche semi di speranza. Pochi è vero. Ma presenti. E non notarli, non farli trasparire, dona un’immagine monodimensionale, parziale. C’è una sorta di voluttà del male, un voler vedere solo quell’aspetto. E questa parzialità, che ho riscontrato anche nei lavori precedenti a Guerrilla (La possibilidad que desaparece frente al paesaje del 2015 e la versione precedente di Guerrilla presentata sempre nel 2015 al festival TNT di Terrassa Barcelona), alla fine stanca, fiacca lo sguardo. Non sto parlando di lieto finale, e nemmeno di favole consolatorie, ma di un mondo tridimensionale che come diceva Calvino veda nell’inferno ciò che inferno non è, e gli dia luce e gli dia spazio.