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Leonor Fini: la teatralità inevitabile della vita

|ENRICO PASTORE

Leonor Fini nacque a Buenos Aires nel 1907 ma l’Argentina non sarà nella sua vita che una vaga reminiscenza di un incubo. Dall’Argentina sua madre Malvina fugge da un marito violento e autoritario e torna con Leonor bambina nella sua Trieste. Già da bambina Leonor rivela le doti d’artista che la caratterizzeranno tutta la vita: la creazione di doppi immaginari, il travestitismo, l’amore per la pittura, la curiosità morbosa che la porterà persino in obitorio per vedere i cadaveri. Nella città giuliana formerà e svilupperà le sue incredibili attitudini in un contesto vivo, cosmopolita, colto che la portò, a soli ventinove anni, ad essere già pienamente inserita nella pittura d’avanguardia europea esponendo i suoi quadri nell’alveo del surrealismo sia a Parigi che a New York. Aveva avuto numerosi amanti tra cui Max Ernst e i suoi travestimenti (famoso quello da cardinale), facevano già discutere la capitale francese avvezza a ogni stranezza.

Per raccontare però la vita e l’opera di Leonor Fini, definita dal Premuda come :«maestra di metamorfosi, misteriosa e inclassificabile», al di là dei dati puramente biografici, bisogna spingersi in territori inconsueti. Leonor, o Lolò come fu sempre chiamata, è un tipo d’artista visiva non inquadrabile in alcuna scuola (fosse Novecento o il Surealismo) per quanto i critici ci abbiano provato, tanto che per lei coniarono il termine sur-raffaellita tanto vago quanto inutile. Lei stessa era insofferente a qualsiasi affiliazione. Bisogna dunque inoltrarsi giocoforza nel Giardino di Armida da lei stessa costruito, affrontando i suoi labirinti e il suo specchio magico perché: «ella del vetro a sé fa specchio,/ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli». La figura di Leonor è assimilabile a quella di una una maga (mito che alimenterà per tutta la sua vita) capace, tramite la pittura, di evocare forze oscure, mostri custodi e pericolosi, specchi in cui trovare o perdere se stessi, in un gioco in cui al centro resta il mistero della rappresentazione.

Siamo inoltre in un luogo liminale, su un confine sottile tra più universi paralleli, dove il teatro ha un ruolo allo stesso tempo diverso e consueto in un continuo scambio tra vita e arte, e dove i due ambiti si confondono e si compenetrano. Leonor Fini amava dire: «mi interessa solo la teatralità della vita». E di questa esistenza terrena fece un teatro in cui difficile è distinguere il reale dall’immaginario. Alessandra Scappini con grande acume scrive: «La fantasia le permette di dare forma ad una molteplicità di immagini che riflettono le sue inquietudini, i moti che provengono dagli abissi, ma anche le sue concezioni che si manifestano nell’opera pittorica come teatro della vita “ulteriore” e “altra” rispetto al quotidiano. […] Per Leonor campeggiano fantasmatiche su un palco allestito proprio al limite tra conscio e inconscio, fra fantasia e storia personale».

Questo aspetto teatrale non è presente solo nella pittura ma in ogni aspetto del suo quotidiano. La sua casa di Parigi in rue Payenne al numero 11 per esempio, come notano Montesarchio e Varriale: «è un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».

A stabilire un rapporto stretto tra teatralità e agire artistico è ancora una volta la stessa Leonor: «fra il teatro e me, c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale […]. Attraverso il misterioso processo di questi rituali dimenticati, chiunque trova se stesso». Leonor stabilisce un nesso tra la performance e la conoscenza di sé e del mondo. Un lavoro su se stessi e sul personaggio che attraverso il velame della maschera rivela l’essenza della vita. Leonor dunque fu di se stessa una continua performance, quasi un processo filosofico alchemico in cui attraverso il mutare della maschera e attraverso l’azione scenica pubblica sonda le possibilità e le leggi del mondo e della vita. Come una sciamana vive la sua esistenza terrena in una continua ritualità costituita da elementi legati alla rappresentazione.

Questa fascinazione teatrale inizia, come da lei stessa evidenziato, nell’infanzia nella sua Trieste dove, per sfuggire ai ripetuti tentativi di rapimento operati dal padre rimasto in Argentina, è costretta a travestirsi da maschio per non farsi riconoscere. Inoltre fin dalla scuola alimenta la leggenda di essere il doppio di se stessa. Alle compagne di classe e di giochi racconta infatti di essere stata scambiata bambina nella culla. In realtà la vera Leonor è stata rapita, lei è una sostituita. Non solo. Afferma di esser figlia di un gatto e di avere le pupille verticali come i felini, specie animale con cui avrà sempre uno stretto rapporto d’amore.

Leonor Fini è un’artista che inscena se stessa in mille possibili varianti tutte plausibili e tutte rivelanti un frammento di verità. Si nasconde per rivelarsi a sé e agli altri. O per lo meno a coloro che hanno occhi per vedere al di là della maschera e della rappresentazione. L’azione teatrale di Leonor Fini è un incantamento nel senso indicato da Massimo Bontempelli quando definisce il realismo magico: «Forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo: e dell’incantesimo possiede tutti i caratteri e tutte le specie: esso è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezie di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione». In questo passo vi sono tutti gli elementi caratterizzanti Leonor Fini: la maga, la veggente, l’evocatrice.

Tutti temi cari al surrealismo e sono da lei incarnati in modo del tutto personale garantendole una libertà di pensiero e una distanza dagli adepti di Breton, distanza che il fondatore del surrealismo mai le perdonerà. Leonor ha chiarito questo punto con molta chiarezza: «le appartenenze mi hanno sempre infastidito e vedevo più la mia differenza che l’eventuale affinità con la tendenza surrealista. Essi erano avidi di nuovi giovani per farne degli adepti […], Essi amavano fare dei processi, comunicare, condannare, stilare delle liste di libri che non bisognava leggere, erigere dei tribunali».

La sua distanza con il movimento, benché per molti versi ne condivida le pratiche pittoriche e di vita, si misura soprattutto nel ruolo ambiguo conferito alla donna. Se all’inizio del Surrealismo i padri fondatori conferiscono alla donna un ruolo subalterno di musa ispiratrice, oggetto del desiderio, femme fatale o angelo protettore, con il passare del tempo tale concezione si modifica verso la veggente, la maga, la strega, colei insomma che privilegiando la parte irrazionale e inconscia, vede ciò che la razionalità maschile non riesce a cogliere. André Breton arriverà a fine anni Trenta a concepirla infine come vertice di una rivoluzione: «la donna è la pietra angolare del mondo materiale/amata ed esaltata come la grande promessa e può salvare la terra». A questo proposito Jack J. Spector afferma: «L’attitudine dei surrealisti nei riguardi della donna riflette in larga misura il punto di vista di una società patriarcale – per questi scrittori e artisti maschi, la donna può essere utile come strumento di immaginazione o di piacere, ma non può facilmente trapassare questi confini a fornire contributi indipendenti, ed è per questo che dobbiamo rigettare la posizione recente che afferma i Surrealisti non essere antifemministi». Anche se Robert Short nota che: «non esiste altro movimento, a parte quelli specificamente femministi, in cui vi fosse una tale alta proporzione di donne attive e partecipanti». Se per gli storici la questione ha degli aspetti di ambiguità, per Leonor non vi è dubbio alcuno affermando senza mezzi termini che i surrealisti erano dei maschilisti.

Quella di Leonor però non è una lotta specificatamente femminista. Le sue attenzioni si rivolgono principalmente al matriarcato originario. Come dichiara il suo amico Jelenski: «la società immaginaria creata dalla Fini è dichiaratamente matriarcale, nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale della società primitiva di natura, appunto, matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale a una cultura antichissima». Anche il questo Leonor misura una differenza e un’alterità.

Tornando alla sua opera pittorica e ai rapporti con la teatralità, essa è una pratica fondamentale per creare le condizioni di apparizione di un teatro immaginario. Le donne, le sfingi, i manichini, gli oggetti, le piante, sono tutti elementi di una scena in cui si nasconde e rivela l’io in cerca di se stesso. Un esempio può essere il Narciso di Leonor dove l’eroe non guarda l’acqua ma davanti a sé. E vicino a lui, quasi svanita c’è la ninfa Eco somigliante come una gemella a formare un dittico androgino. I loro riflessi nell’acqua guardano a propria volta lo spettatore, chiamato in causa per scandagliare dentro di sé l’inquietante somiglianza dei principi maschili e femminili incarnata dai due protagonisti del quadro. Non siamo quindi di fronte all’ostentazione di sé come manifestazione egotica ma come pratica di conoscenza non solo del proprio io nascosto ma delle regole che governano il mondo. Il rapporto tra immagini pittorica, immagine di sé en travesti, immagine fotografica, è sempre con il proprio doppio. Leonor velandosi si svela soprattutto a se stessa, permettendo il transfert allo spettatore tramite lo sguardo. Si osserva nello specchio tramite i suoi multipli, come in un caleidoscopio sempre mutevole.

Questa pratica è stata quasi sempre fraintesa soprattutto dalla critica italiana coeva incapace di concepire una donna fuori dalle righe e lontana mille miglia dall’angelo del focolare. Un esempio palese di malinteso è il famoso ballo in maschera a Palazzo Labia a Venezia del 1951 dove Leonor Fini partecipa con un vestito da lei stessa creato di angelo nero con tanto di ali. Al ballo ci sarà molta della illustre società con costumi creati da Christian Dior, nonché numerosi artisti come Dalì accompagnato da Gala. Il periodo storico vede un’Italia alle prese con la ricostruzione e la povertà e tale sfarzo ed eccentricità non viene digerito dalla stampa. A farne le spese sarà proprio la Fini per la quale da quel momento si farà strada, come afferma Di Santo: «una percezione maligna che si focalizza più sulla vita dell’artista che sul suo talento. Nascono leggende sulla sua persona e sul circolo di amicizie che la circonda. Una fama becera e bacchettona, pronta al facile giudizio di condanna verso una donna troppo libera».

La teatralità non resta confinata nella pittura, nella fotografia o nelle infinite maschere indossate nella vita quotidiana. Essa si misura direttamente con la pratica artistica focalizzata sul disegno di scene, costumi e maschere per l’opera, il teatro e la danza. Innumerevoli sono le collaborazioni: Balanchine, Barrault, Giorgio Strehler, Roland Petit (di cui sarà anche mecenate aiutando il coreografo a mantenere la compagnia con i propri donativi), Michele Galdieri e la compagnia di Anna Magnani, Jean Genet. Anche in queste collaborazioni Leonor porterà la sua modalità di rapporto con il pubblico, il suo travestirsi per rivelare, come nella famosa maschera da gatto ne le Demoisselles de la nuit che scatenerà le ire della prima ballerina Margot Fontayn, stella del Sadler Wells Ballet di Londra. Quasi a rivelare le sue doti di strega, dopo il litigio sulla maschera, alla seconda rappresentazione, la scenografia di Leonor crollerà in testa alla Fontayn, la quale, nonostante l’incidente, continuerà la propria performance.

Leonor Fini fa dunque parte di una specie d’artista che non relega la performance nello spazio angusto dell’arte, ma coinvolge tutta la quotidianità. La performance è prassi di una conoscenza antica, un comprendere il mondo tramite l’agire. E tale scandaglio del mondo e di se stessi è pratica crudele, feroce, frutto di grande disciplina in un connubio difficilmente ottenibile di abbandono e controllo. Su questo piano si misura l’alterità di Leonor Fini, una delle grandi artiste dimenticate o messe in ombra proprio perché lontane da una consuetudine tranquillizzante dell’arte come oggetto e prodotto culturale. L’arte come ricerca di sé, la teatralità utilizzata come metodo di conoscenza e non come mero spettacolo inquieta un sistema volto specificatamente all’intrattenimento e al consumo culturale. Leonor Fini mette in gioco valori antichi dove teatro è luogo da cui si guarda il mistero e se ne fa esperienza.

Valentine de Saint-Point

Valentine de Saint-Point: futurismo e lussuria

|ENRICO PASTORE

Entrata in scena di Valentine de Saint-Point secondo Severini: «Quella sera montò sul palcoscenico della Salle Gaveau per illustrare il suo manifesto (della Lussuria nrd.). Era una elegante e bella donna, non più giovanissima, ma ancora in gamba, capace di mettere in pratica il suo manifesto con una notte di lussuria, e fare un’ora di scherma alla mattina, Quella sera portava un enorme cappello, il cui diametro era come quello di un ombrello, non solo largo, ma alto, pieno di piume, brillantissime».

Marinetti è ancor più affascinato nonostante tutto il suo “disprezzo della donna”: «sensualissima bocca giovanile sotto due immensi occhi verdi le cui ciglia rimando coi riccioli d’oro a diadema di perle autentiche si richiamano alla sontuosità di un calzare d’argento a sinistra e all’anello pesante occhiuto e scintillante che invetrina il più bel piede di donna del mondo». Di sicuro Valentine de Saint Point sapeva attirare lo sguardo del pubblico. E sapeva rubare la scena, se dobbiamo stare alle parole della giovane moglie di Marinetti, Benedetta, la quale, dopo averla incontrata col marito al Cairo negli anni Trenta, disse ingelosita e senza mezzi termini: «Una donna che esalta la prostituzione e che canta la lussuria, non mi pare che stesse al suo posto in mezzo a noi!».

Il matrimonio cambiò Marinetti ma non Valentine de Saint-Point che dopo averlo ricercato per guadagnarsi l’indipendenza, se ne disfece in fretta per amor di libertà. Valentine de Saint-Point (il cui vero nome era Anne Jeanne Valentine Marianne Desgalns de Cassiat-Vercell) fu, fin da giovanissima ,uno spirito incapace di piegarsi alle gabbie della consuetudine, ai costumi prudenti e castigati, ritta come torre ferma di fronte al vento forte dei pettegolezzi e delle maldicenze della cosiddetta buona società.

Nata nel 1875 e orfana di padre in tenera età, si sposò a soli diciotto anni con un uomo ben più anziano di lei. Il professore di lettere ebbe il buon gusto di morire solo sei anni dopo e Valentine si risposò con un collega del marito, professore questa volta di Filosofia, da cui divorziò solo quattro anni dopo. Imparata la lezione si diede in libera unione con il critico italiano Ricciotto Canudo con cui divise gli anni accesi della sua vicinanza al futurismo.

Nel mondo artistico non entrò però nel 1912 con i suoi manifesti, futuristi solo a posteriori e per appropriazione marinettiana. Vi era entrata con tutti gli onori come poetessa di cui Apollinaire diceva, già nel 1908 all’uscita dei Poèmes d’Orgueil: «ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie» e ancor prima come romanziera con una Trilogia sull’Amore e sulla Morte e come musa di Rodin su cui scrisse un saggio ambiguo apparso sulla Nouvelle Revue dal titolo La doppia personalità di Auguste Rodin.

Innovativo per le visioni esposte e prova della vis polemica di Valentine è un articolo apparso su Les Tendances Nouvelles del 1913 dal titolo Il teatro della donna, Valentine afferma senza mezzi termini come nel teatro a lei contemporaneo la donna sia a dir poco annichilita: «evocata quasi esclusivamente come oggetto del desiderio». Esempio lampante è l’insistenza sul tema dell’adulterio attraverso cui; «la donna prende un amante perché è elegante, o semplicemente per curiosità di qualche nuovo divertimento […] e se la situazione si compromette, la donna si dà alle lacrime come un bambino sorpreso in una malefatta e di cui si limita a chiedere scusa». Nella drammaturgia teatrale secondo Valentine si manifesta tutto il dominio posto dall’uomo sulla donna ingabbiata e vittima di una visione maschile pregiudiziale. E la figura emblematica di tale visione di una donna prigioniera dei sentimentalismi svenevoli e passivi cari all’uomo è nientemeno che il vate Gabriele D’Annunzio. Per Valentine il teatro della donna era ancora tutto da scrivere.

Questo articolo sul teatro e la donna è il preambolo dell’incontro tra Valentine e il futurismo italiano. Se in linea di principio vi era certa aria comune tra Marinetti e Valentine de Saint-Point, (il mito della guerra, il sospetto verso le suffragette e il parlamentarismo femminile), tale similitudine regge solo a un primo sguardo. Le divergenze appaiono nette proprio rispetto al ruolo giocato dalla donna. E fu quindi in risposta al primo Manifesto del 1909, dove al punto nove si proclama appunto il “disprezzo della donna”, che Valentine scrisse il suo Manifesto della donna futurista in cui afferma senza mezzi termini: «La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Essi sono uguali. Tutti e due meritano lo stesso disprezzo. […] È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini, esso è composto soltanto di femminilità e mascolinità». Valentine orienta il proprio pensiero non verso una guerra dei sessi ma piuttosto verso la riscoperta del mito dell’androgino, caro a circoli teosofici e misterici parigini.

L’idea di donna proposto è lontano dalle svenevolezze o dalla fragilità. I suoi modelli sono: «Le Erinni, le Amazzoni, le Semiramide, le Giovanna D’Arco, […] le Giuditta e le Charlotte Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi». L’idea della donna forte deriva dalla convinzione della lotta impari posta di fronte all’universo femminile per far emergere il proprio talento nonostante gli ostacoli posti sul proprio cammino dagli uomini e dalla natura.

Una donna combattente quindi, per niente succube dei maschi e padrona dei propri desideri, soprattutto sessuali. Questa determinazione a illuminare la forza dell’eros dal punto di vista della donna era già ampiamente espressa nel suo romanzo La femme et le désir del 1910.

Valentine rimprovera agli attacchi misogini di Marinetti e compagni, contenuti nei vari manifesti futuristi, di aver dimenticato la potenza di Eros, il figlio di Poros e Penia, colui che nulla possiede se non i propri espedienti e la propria intelligenza, forza vitale primordiale, generatrice e innovatrice. Come nel Simposio platonico secondo l’opinione di Fedro: «nessuno è così vile cui amore in persona non accenda di fiamma divina. Così, quell’uomo diventerà eguale a chi è per natura valorosissimo», per Valentine de Saint-Point è la lussuria, non più intesa come vizio, lo stimolo per le grandi imprese delle anime forti al di là del sesso di appartenenza. E per questo :«si deve fare della lussuria un’opera d’arte fatta, come ogni opera d’arte, d’istinto e di coscienza». Non è dunque un peana all’imperio dei sensi ma padronanza composta di volontà cosciente e abbandono estatico.

Valentine aveva fatto apparire il suo Manifesto della Lussuria prima su Le Figaro e poi a Milano in forma di volantino quasi a ripercorrere i passi di Marinetti, il quale la ammise nel direttivo del Futurismo, movimento nel quale, oltre alla Marchesa Casati: «occhi di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata», non annoverava altre donne, se non fedeli servitrici e segretarie. Fan e difensore delle teorie di Valentine in Italia fu Italo Tavolato, il Karl Kraus di Trieste che nel 1913 sulle pagine di Lacerba difenderà a spada tratta il Manifesto della Lussuria nella sua Glossa e lo fece utilizzando gli stilemi del Credo cattolico: «Io credo nella comunione carnale che vivifica lo spirito, nella remissione delle virtù, nella vita terrena. Amen».

Valentine de Saint-Point però non si sentì mai pienamente parte del movimento futurista e presto le sue strade si dirigeranno verso altri lidi. Devota al Cerebrismo, teoria artistica propugnata dall’amante Ricciotto Canudo, si diede alla danza inventando la Métachorie, movimento astratto del corpo nello spazio senza accompagnamento musicale in contrappunto alla parola poetica. Nel Manifesto della danza Marinetti criticherà aspramente tali esperimenti: «Valentine de Saint-Point concepì una danza astratta e metafisica che doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua Métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente son poesie passatiste […] astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde, e senza emozioni». Nonostante la riprovazione di Marinetti, Valentine portò i suoi esperimenti in tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti.

La strada di Valentine, artista a tutto tondo e femminista sui generis, procedette verso orizzonti distanti dall’arte. Questo non prima di aver dato alle stampe una tragedia “L’anima Imperiale o l’Agonia di Messalina” che prova a dar forma a una delle donne modello del suo manifesto. Poi si spinse nei territori della spiritualità, dapprima cercò di fondare un tempio delle spirito in Corsica e poi, in seguito alla stretta amicizia con René Guenon, trasferendosi a Il Cairo dove si convertì all’Islam prendendo i nome di Rouhya Nour El Dine. Dimenticata da tutti visse i suoi ultimi anni libera ma indigente. Morì in Egitto, terra natale di Marinetti, sola e in povertà.

Il suo nome oggi è quasi del tutto dimenticato, relegato in poche righe e qualche citazione nelle opere dedicate al Futurismo, come se ne avesse fatto parte a tutti gli effetti o come fosse una semplice curiosità esotica. In realtà Valentine de Saint-Point condivide il destino di molte altre donne, affiancate ai movimenti di avanguardia dal mondo maschile più che dalle proprie opere o convinzioni. A volte venne loro affibbiato un ruolo passivo di mute muse, altre furono semplicemente considerate figure di sfondo, rarità poco influenti, non riconoscendo loro alcun originale apporto al pensiero dei fondatori maschi. In realtà Valentine de Saint-Point, così come Leonor Fini, Leonora Carrigton o Remedios Varo per il surrealismo, e come Emmy Ball-Hennigs per il dadaismo, non erano le vallette o le mascotte dei movimenti artistici, erano esse stesse grandi artiste, con proprie idee, e volontariamente rifiutarono di essere incasellate in modalità cui parteciparono ma non abbracciarono interamente. Tutte loro furono voci in contrappunto con le posizioni dominanti e cercarono di portare un punto di vista diverso alle questioni poste dai colleghi uomini. Solo in questi ultimi anni si sta compiendo una rivalutazione del loro ruolo, riportandone alla luce il valore e l’indipendenza di pensiero. Possiamo solo augurarci come Valentine de Saint-Point che:«i sentieri tracciati possano divenire larghi viali, grazie a coloro che ci seguiranno e che avranno tentato».

Madeleine G

Madamigella Luisa e Madeleine G: le sonnambule danzanti

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|ENRICO PASTORE

Quando Franz Anton Mesmer, verso la fine del Settecento, divulgò la sua teoria sul magnetismo animale, mai avrebbe pensato alle influenze e ricadute nel campo dell’arte e della danza in particolare.

L’ipnosi, da lui pensata come effetto magnetico di un fluido universale, era da lui concepita come utile solo in campo medico come cura alternativa. E se tra i medici lo scetticismo prevalse all’entusiasmo, in campo artistico lentamente la sua teoria fece strada riportando al centro la questione del corpo espressivo.

Mozart, amico di Mesmer, ne Le nozze di Figaro, fa un breve accenno ironico al magnetismo, ma ancora non si rivela l’aspetto più inquietante e affascinante del fenomeno. Sarà Bellini nel 1831 con La Sonnambula a introdurre, seppur inconsciamente, la questione: Amina sonnambula è responsabile delle sue azioni? Quanto dell’anima si rivela in uno stato incosciente?

A palesare uno stato ancora più allarmante e perturbante sarà Edgar Allan Poe con due racconti che indagano la soglia della morte in stato ipnotico: se il corpo è morto, l’anima o la coscienza parlante dove sono? Corpo e anima sono una cosa sola? O come affermavano i meccanicisti da più di due secoli il corpo non è nient’altro che un orologio? Descartes diceva senza mezzi termini: «io non sono questo corpo». Ma non era l’unico: partendo da Vesalio autore del De humani corporis fabrica nel 1543, passando da Lutero a Pascal, da Hobbes a Newton, i grandi filosofi e scienziati dei secoli XVI, XVII e XVIII si prodigarono nella dimostrazione che nella coscienza risiedeva la natura umana e non nel corpo, semplice strumento la cui rottura non doveva commuovere più che quella di un aratro. Descartes per dimostrare il suo assunto si diede alla vivisezione di animali vivi asserendo che non avvertivano dolore non avendo coscienza.

Quello che filosofia e scienza volevano mettere in soffitta erano le credenze magiche, la possibilità di influsso dell’anima sul corpo, l’idea insomma che tra cielo e terra ci fosse molto di più. La natura e il corpo umano erano macchine prevedibili, comprensibili, studiabili, quantificabili. L’irrazionale e l’incomprensibile venivano banditi, per lo meno nell’alta società colta, mentre nei ceti bassi e rurali resisteva quello che potremmo chiamare, citando De Martino, il pensiero magico.

Mesmer e la sua teoria aprirono improvvisamente una porticina in questa fortezza inespugnabile di certezze, un pertugio di cui approfittarono prima i medici e poi gli artisti. Nell’Ottocento prima in Francia, poi in Italia e Germania, cominciarono ad apparire, nei salotti e in seguito nei teatri, strani spettacoli nati dalla giunzione di scienza e arte che furono causa di accesi dibattiti.

Un caso fu la coppia formata da Auguste Lassagne, ex-prestidigitatore, e la moglie sonnambula Prudence Bernard. Si esibirono in Italia nel 1850 prima creando scandalo in Torino, dove numerosi scienziati e medici, proposero con una scommessa di smascherare gli imbroglioni. Ovviamente la sfida andò a monte, ma in Milano, al Ridotto della Scala, lo spettacolo interessò nientemeno che il Manzoni, il quale ne fu così impressionato da tentare esperimenti in prima persona su una sua serviente ventenne nella sua villa di Lesa a cui assistette anche il Rosmini. Non solo: nella sua casa di Milano invitò a esibirsi la coppia Italiana formata dallo Zanardelli con la figlia Elisa.

Dai salotti fu breve il salto sui palcoscenici dei teatri. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento Francesco Guidi e Madamigella Luisa di esibirono in lunghe tournée tanto da approdare al Valle di Roma nel 1872. La loro esibizione constava di tre sezioni (modello desunto dai francesi e poi mantenuto dai successori): esperimenti fisiologici (catalessi, anestesia, abolizione dei sensi, etc.), esperimenti psicologici (chiaroveggenza) e un’ultima parte, la più importante per il nostro discorso, chiamata estasi musicale in cui Madamigella Luisa, accompagnata da musica eseguita dal vivo al pianoforte, si tramutava in statua offrendo al pubblico immagini di rara potenza emotiva. Si aprivano le porte al meraviglioso e a tutta una serie di interrogativi e questioni tutt’ora al centro del dibattito.

Prima di passare tali questioni in sommario esame, dobbiamo fare una necessaria premessa. Quello che emerge da queste esibizioni non importa fosse vero o fosse illusione premeditata. Per il pubblico e per gli osservatori l’effetto ammaliante era indiscusso e fortemente presente. Solo gli scienziati si affannavano a screditare tali spettacoli in quanto mettevano in crisi secoli di concezione meccanicista e razionalista del corpo e della medicina, anche se in effetti ci furono numerosi ciarlatani finiti sotto processo e di costoro se ne fecce beffe persino Petrolini.

Proviamo dunque a elencare i motivi di attrazione e di discussione, alcuni dei quali ritornano nei dibattiti odierni sul ruolo della donna. Innanzitutto il tema della bambola animata o dell’automa. La donna danzante sotto ipnosi suscita nel pubblico una fascinazione ambigua verso un corpo animato da fili invisibili in uno stato comatoso che ricorda la marionetta. Uno stato artificiale tra la vita e la morte di cui oggi troviamo traccia nelle IA o nei robot della nuova fantascienza in cui la vita sintetica è quasi sempre femminile, in quanto esempio di alterità fonte di inquietudine.

Secondo aspetto: la finta morte. Poe nei suoi racconti del mistero e dell’orrore esprime proprio questo aspetto nel ritrarre il signor Valdemar o in Rivelazione mesmerica. Se il corpo è morto la coscienza è viva? Cosa anima il corpo? Sembrano questioni dei massimi sistemi ma pensiamo alla temperie culturale della seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dove movimenti occulti, spiritisti, antroposofici si interessavano morbosamente di questi temi.

Ultimo: una danza o delle pose plastiche in cui l’anima, l’emotività si rivela nel corpo senza l’intervento di una ragione cosciente riportano alla memoria questioni che la scienza e la religione credevano aver sepolto per sempre. L’estasi musicale restituisce il ricordo dei culti misterici, delle pizie, delle baccanti, persino delle streghe. Un irrazionale magico in cui l’azione della psiche agisce sul corpo portatore del divino estatico. Il teatro, come scrive Clara Gallini, ridiventa il luogo del meraviglioso. Da sottolineare che tale emersione avviene, nella quasi totalità dei casi, attraverso il femminile. La donna e il suo corpo, pur se sotto la maschera imposta dell’isteria e della malattia mentale, torna a essere terreno fertile per l’immaginazione inconscia, la creazione istantanea del bello non razionalmente concepito. Purtroppo non dobbiamo dimenticare come in queste esibizioni vi fosse nel pubblico e nella critica un certo voyeurismo stimolato da una sessualità inibita soprattutto nel femminile.

La vera esplosione di interesse e le principali ricadute in campo artistico avvengono però nel Novecento quando sulle scene prima francesi e poi tedesche (dove esplode il fenomeno), fa la sua comparsa nei teatri il duo formato dal dottor Magnin e da Madeleine G., una giovane madre di due figli, di origine russa, con qualche rudimento di danza classica come ogni rampolla di famiglia borghese, e affetta da ricorrenti mal di testa. Magnin scoprì che sotto ipnosi Madeleine G. reagiva alla musica e alla poesia danzando in un modo spontaneo, ricco di emozioni, fuori da ogni canone estetico e tecnico allora praticato.

Proprio questa capacità coreutica estremamente emotiva, capace di esprimere l’inconscio con tale potenza, colpì come un maglio l’ambiente artistico mitteleuropeo dove già con il Simbolismo stava aprendo la porta verso il mondo del mistero, dell’irrazionale e dell’immaginazione. Quando Madeleine G. appare sulle scene di Monaco di Baviera nel 1904 si scatena l’ammirazione e la sorpresa. George Fuchs parla apertamente di ebbrezza dionisiaca, mentre molti critici affermano l’identità dello stato della giovane danzatrice inconsapevole con l’artista preso dal proprio mondo immaginativo e creativo.

Inoltre affascina il binomio, tanto caro a Thomas Mann, tra malattia e arte. Ma sarà soprattutto questa porta aperta verso l’inconscio a influenzare il nascente Espressionismo, per non parlare delle teorie della nuova danza, prima fra tutte quella di Rudolf von Laban e l’idea del Körperseele, del corpo vestito dell’anima. Nella comunità di Monte Verità ad Ascona, Laban, Charlotte Bara e Mary Wigman indagarono a lungo e profondamente questa emersione dell’irrazionale e dell’inconscio nella danza.

Una porta una volta aperta diventa un passaggio entro cui passeranno in molti. Pensiamo a Dada e al Surrealismo, dove l’inconscio e l’automatismo giocano un ruolo fondamentale nello scardinare gli accademismi imperanti. Nel Surrealismo poi la donna è protagonista, sia come musa ispiratrice (si pensi a Max Ernst) ma soprattutto ai contributi delle artiste portatrici di una visione magica, sciamanica, animale come Leonora Carrington, Leonor Fini, Frida Kahlo, Remedios Varo, giusto per fare qualche esempio.

Madamigella Luisa e Madeleine G. sono state pioniere inconsapevoli di un nuovo sentire, di un rapporto diverso con il corpo, di una visione innovativa dell’immaginario artistico nel secolo che stava iniziando. Dimenticarsi delle sonnambule danzanti significa rimuovere non solo un momento fondamentale nella storia delle arti, ma una scarto decisivo verso una liberazione della femminilità dai gioghi imposti dal maschilismo per secoli.

Probabilmente tutto questo non era nelle intenzioni di nessuno dei protagonisti di tali esibizioni. Illusione, meraviglia, mistero erano alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, parte di una nascente spettacolarità, certo relegata ai margini del milieu culturale, ma presenti ed influenti. Non sempre un cambio di prospettiva nasce da un progetto. A volte le cose accadono perché i tempi sono pronti e perché è necessario.

Ricordiamo dunque le sonnambule e il ruolo da esse giocato nel ridefinire i ruoli della donna nella nostra società non ancora liberata dai pregiudizi, e dove la femminilità è ancora considerata qualcosa di alieno da possedere e dominare.