Archivi tag: Emmy Hennings-Ball

Emmy Hennings-Ball: un usignolo e un piccolo angelo

|ENRICO PASTORE

Nel manifesto inaugurale del Cabaret Voltaire del 5 febbraio 1916 Emmy Hennings-Ball, la compagna di Hugo Ball (si sposeranno nel 1920) è al centro del dipinto. Lo sguardo triste, i capelli biondi a caschetto, i lineamenti scavati da una vita di sofferenze e privazioni. Anche l’anonimo recensore del Zürcher Post ne riconosce la centralità: «però la stella di questo Cabaret è Emmy Hennings. Stella di mille notti e di mille poesie. Come anni fa stava in piedi dinanzi a un giallo sipario frusciante di un cabaret berlinese, con le braccia allargate sui fianchi, florida come un cespuglio in fiore, così anche oggi presta il suo corpo alle stesse canzoni con fronte sempre più altera, ma rispetto ad allora un po’ più scavata dal dolore». Richard Huelsenbeck ammetteva candidamente: «I suoi couplet ci hanno impedito di morire di fame».

Questa centralità di Emmy Hennings-Ball nel periodo zurighese di Dada è stata però negata dalla storia. L’unica donna fondatrice del Cabaret Voltaire, culla del dadaismo, diviene un ombra appena nominata. Lontana dalle speculazioni dei colleghi uomini, più radicata nella prassi performativa appresa sui palchi di tutta Europa, Emmy lascia la scena alle teorizzazioni e alle sperimentazioni poetiche di Hugo Ball e Tristan Tzara. Eppure la troviamo ancora al centro quando il 17 marzo 1917 al n.19 della Bahnhofstrasse di Zurigo si inaugura la Gallerie Dada. Insieme al Hugo Ball lascerà la gallerie solo dopo undici settimane il 25 giugno per il Canton Ticino dove risiederà fino alla morte.

La vita di Emmy Hennings-Ball fino al fatidico 5 febbraio del 1916 era stata lastricata di dolore, privazione, povertà e persino umiliazione. E in tanto aere bruno tanto amaro “che è poco più morte” sempre il suo cammino è stato illuminato dalla fiaccola d’amore per la scena.

Nata a Flensburgo il 17 gennaio del 1885, appena adolescente sente il richiamo del teatro, passione che sostiene passando da un lavoro all’altro. A soli diciotto anni sposa Joseph Paul Hennings con cui abbandona ogni remora e si concede interamente alla vita d’artista. In soli due anni di matrimonio Emmy partorirà due figli. Il primo morirà nei primi mesi, la secondogenita Annemarie fu affidata alla nonna, dopo la separazione o, più probabilmente l’abbandono, del marito. Annemarie si ricongiungerà alla madre solo a Zurigo quando finalmente riuscirà a guadagnarsi una seppur frugale e precaria stabilità.

Per Emmy comincerà una vita nomade in varie compagnie che la condurranno in tournée per tutta Europa. Dopo aver conosciuto lo scrittore John Höxter, collaboratore della rivista letteraria d’avanguardia Die Aktion (testata su cui Emmy pubblico articoli e poesie), si trasferisce a Berlino. La capitale tedesca degli anni precedenti il primo conflitto mondiale è animata da svariate correnti artistiche, dall’Espressionismo alla Secessione, e i luoghi eletti al dibattito e discussione delle nuove idee artistiche non sono ampollosi centri accademici, né i luoghi deputati all’alta cultura, ma in quei luoghi equivoci, liminali, che saranno i Cabaret, spazi vergini in cui potranno confluire geni e reietti, ricchi mecenati in cerca di trasgressione e poveri anarchici senza un marco in tasca.

Quando si dice Cabaret non dobbiamo pensare a un genere specifico o a un lontano parente di Zelig. Erano per lo più caffè, bettole scalcinate, osterie, birrerie in cui si esibivano artisti votati a un’arte leggera, a volte malinconica, colma di allusioni e fascinazioni di libertà sessuale, il cui repertorio era formato da canzoni, poesie, numeri di varietà, musica dal vivo. Erano soprattutto luoghi di ritrovo, discussione e sperimentazione. Solo durante la Repubblica di Weimar, con l’abolizione della censura, i Cabaret innalzeranno il livello delle prestazioni artistiche e si trasformeranno in luoghi di dibattito politico oltre che artistico, tanto da attirare la rabbia dei nazisti che si affretteranno a chiudere i più eversivi (anche perché molti degli artisti erano di origine ebraica).

A Berlino Emmy Hennigs lavorerà principalmente a Cafè des Westens e al Neue Club prendendo parte al Neopatetische Cabaret dai toni decisamente espressionisti. È questo per Emmy un periodo di disordine: frequenta molti uomini, diventa morfinomane e dipendente dall’assenzio. Nel 1911 si ammala gravemente di febbre tifoide e una volta guarita si converte al cattolicesimo. La svolta religiosa non la allontana però dai disordini. Il lavoro teatrale non le garantisce entrate stabili. È costretta a fare piccoli lavoretti, commettere furti, perfino darsi alla prostituzione. È più volte arrestata e racconterà queste sue esperienze in due romanzi Gefängnis (Prigione del 1919)e Das Brandmal (Il marchio del 1920).

Da Berlino si trasferisce a Monaco dove lavora al cabaret Simplicissimus, locale frequentato da artisti del calibro di Frank Wedekind, Karl Kraus, Alfred Döblin divenendo l’amante dello scrittore rivoluzionario Erich Mühsam. Continua la vita tra accattonaggi, arresti per l’aiuto fornito ai disertori, la prostituzione. È in questo ambiente che farà conoscenza con Hugo Ball, legandosi definitivamente a lui. Nel 1915 la situazione si fa sempre più difficile e i due decidono di trasferirsi a Zurigo.

La città svizzera all’epoca era un crogiuolo di fuoriusciti provenienti da tutta l’Europa belligerante: ricchi capitalisti, rivoluzionari anarchici e comunisti (Lenin si trovava spesso al Cafè Terrasse a giocare a scacchi), artisti pacifisti (per esempio Romain Rolland). Nonostante la vitalità di Zurigo per Emmy Hennigs e Hugo Ball sbarcare il lunario risulta impresa difficilissima. Senza mezzi e senza amici vengono registrati dalla polizia come prostituta e protettore. Così Emmy Hennigs descrive quel primo periodo nei suoi diari: «All’epoca la città era quanto di più internazionale si potesse immaginare. Lungo il molo si sentiva parlare in tutte le lingue. […] Non senza invidia guardavamo la gente che dava da mangiare ai gabbiani e ai cigni. Preferisco non dire di cosa ci nutrivamo noi».

Nonostante queste privazioni e umiliazioni Emmy e Hugo, dopo aver provato a esibirsi in un paio di cabaret di Zurigo, decidono di aprire al n. 1 della Spiegelgasse nel quartiere di Niedersdorf il Cabaret Voltaire. In questo luogo, destinato a cambiare la storia delle arti del Novecento, i due coniugi troveranno finalmente notorietà, rispetto e un poco di tranquillità tanto da arrischiarsi a far venire dalla Germania la figlia Annemarie. Ecco come Hugo Ball descrive la nascita del celebre locale: «Sono andato dal signor Ephraim, il proprietario del Meierei, e gli ho detto: “per cortesia, signor Ephraim, datemi la vostra sala. Desidero fare un cabaret”. Il signor Ephraim era d’accordo e mi ha dato la sala. Allora sono andato da un conoscente e l’ho pregato di darmi un quadro, un disegno, un incisione, poiché desideravo fare una piccola esposizione connessa al cabaret. Sono andato dagli amici giornalisti di Zurigo e li ho pregato: “Diffondete alcune notizie. Deve diventare un cabaret internazionale. Vogliamo fare le cose per bene”. Mi hanno dato dei quadri e hanno pubblicato le mie notizie. Il 5 febbraio abbiamo avuto un cabaret».

Le serate erano un susseguirsi di canzoni per lo più cantate da Emmy Hennigs (soprattutto quando la situazione si scaldava per le provocazioni di Tzara, Janco e gli altri) e da M.me Leconte, lettura di poesie simultanee (come ad esempio il famoso L’amiral cherche une maison à louer di Tzara, Janco e Huelsenbeck), musiche di Shönberg, orchestre di balalaike, pezzi danzati per lo più dalle allieve di Laban, il quale, dopo il debutto del 5 febbraio era a dir poco entusiasta dell’operazione.

Emmy Hennigs oltre a cantare canzoni, eseguiva numeri con le marionette e leggeva alcune sue poesie. Il 29 febbraio insieme a Hugo Ball lesse La vita dell’uomo di Andreev. Così descrive la serata Hugo Ball nei suoi diari: «una pièce leggendaria, dolorosa, che amo molto. Solo i due protagonisti principali appaiono in carne e ossa, tutti gli altri come marionette da incubo. La pièce inizia con un urlo da parto e termina con una danza selvaggia di ombre e di larve. Persino il quotidiano rasenta l’orrore». E in una lettera alla sorella Maria Hildebrand – Ball: «L’altro ieri ho letto (insieme a Emmy) La vita dell’uomo di Andreev. Ci siamo chiesti se saremmo piaciuti. Ma è stato un tale successo che adesso ripeteremo la lettura il prossimo giovedì».

Le serate avevano sempre più successo ma nonostante le stranezze dei versi simultanei, delle poesie fonetiche di Hugo Ball (per esempio Gadij Beri Bimba ripresa dai Talking Heads nel 1979), gli strani costumi, le risse, le danze con le maschere di Janco la regina della serata è sempre Emmy Hennigs Ball: «Il successo più grande lo ha Emmy. I suoi versi vengono tradotti a Bucarest dove lei ha una numerosa colonia di amici. I francesi le baciano le mani. È amata incondizionatamente. Legge brani dalle poesie che ti abbiamo mandato […] Infine canta le sue piccole tenere canzoni». I brutti momenti sembrano alle spalle. In una foto del 1918 si vedono Hugo Ball e Emmy Hennings ritratti insieme in quello che sembra un parco. Lui fuma un mozzicone di sigaretta e con le mani alla vita sembra aver lo sguardo soddisfatto. Emmy, nel suo vestito semplice a righe, è invece di tre quarti. Sembra essersi voltata perché chiamata all’ultimo istante. Il suo volto è scavato, il corpo gracile, e gli occhi hanno una profondità che solo la sofferenza può dare. Lei non sorride. Sembra averne perso la facoltà. Forse avverte che quello che stanno vivendo è solo un breve istante.

In breve tempo infatti Ball e Tzara si allontanano e dissentono sempre più su come portare avanti il movimento. Oltre a divergere sulle funzioni del movimento a cui avevano dato vita, Tzara ormai era proiettato verso Parigi e Ball invece, convertito al cattolicesimo, si stava ormai dedicando alla teologia. Il 9 aprile 1919 si concluse l’ambiziosa avventura di Dada a Zurigo. Le danze di Susanne Perrottet (danzatrice e collaboratrice di Laban) su musiche di Schönberg e quelle di Käthe Wulff (altra allieva di Laban e partecipante all’esperienza comunitaria di Monte Verità ad Ascona) su coreografie di Sophie Taeuber Arp, ci parlano ancora di una partecipazione femminile al movimento Dada poco studiata e documentata.

Per Emmy Hennings e Hugo ball si apre la strada verso il Ticino, mentre il baraccone dadaista si dirige verso la capitale francese. Nel 1920 i due si sposano. Emmy inizia a pubblicare i suoi romanzi e le poesie. Collabora su alcuni giornali con scritti e pubblicazioni. Hugo muore nel 1927 e Emmy non si risposerà. Negli anni ticinesi, anni poveri in cui è costretta a lavorare come governante, stringerà amicizia con Hermann Hesse che non solo l’aiutò economicamente più volte, ma la ricordò come: «un usignolo e un piccolo angelo». Fu lui a pagare le spese per funerale e sepoltura nel piccolo cimitero di Gentilino accanto a Hugo Ball nell’agosto del 1947. A parlare di Emmy Hennigs Ball restano i suoi libri, testimoni della sua vita dolorosa negli anni berlinesi e monacensi, le sue poesie malinconiche, e i ricordi teneri del marito contenuti nei suoi diari. Gli storici del dadaismo sembrano invece dimenticare l’apporto e il sostegno che questa donna solo apparentemente gracile diede al movimento più irriverente e anarchico tra le avanguardie storiche.

Valentine de Saint-Point

Valentine de Saint-Point: futurismo e lussuria

|ENRICO PASTORE

Entrata in scena di Valentine de Saint-Point secondo Severini: «Quella sera montò sul palcoscenico della Salle Gaveau per illustrare il suo manifesto (della Lussuria nrd.). Era una elegante e bella donna, non più giovanissima, ma ancora in gamba, capace di mettere in pratica il suo manifesto con una notte di lussuria, e fare un’ora di scherma alla mattina, Quella sera portava un enorme cappello, il cui diametro era come quello di un ombrello, non solo largo, ma alto, pieno di piume, brillantissime».

Marinetti è ancor più affascinato nonostante tutto il suo “disprezzo della donna”: «sensualissima bocca giovanile sotto due immensi occhi verdi le cui ciglia rimando coi riccioli d’oro a diadema di perle autentiche si richiamano alla sontuosità di un calzare d’argento a sinistra e all’anello pesante occhiuto e scintillante che invetrina il più bel piede di donna del mondo». Di sicuro Valentine de Saint Point sapeva attirare lo sguardo del pubblico. E sapeva rubare la scena, se dobbiamo stare alle parole della giovane moglie di Marinetti, Benedetta, la quale, dopo averla incontrata col marito al Cairo negli anni Trenta, disse ingelosita e senza mezzi termini: «Una donna che esalta la prostituzione e che canta la lussuria, non mi pare che stesse al suo posto in mezzo a noi!».

Il matrimonio cambiò Marinetti ma non Valentine de Saint-Point che dopo averlo ricercato per guadagnarsi l’indipendenza, se ne disfece in fretta per amor di libertà. Valentine de Saint-Point (il cui vero nome era Anne Jeanne Valentine Marianne Desgalns de Cassiat-Vercell) fu, fin da giovanissima ,uno spirito incapace di piegarsi alle gabbie della consuetudine, ai costumi prudenti e castigati, ritta come torre ferma di fronte al vento forte dei pettegolezzi e delle maldicenze della cosiddetta buona società.

Nata nel 1875 e orfana di padre in tenera età, si sposò a soli diciotto anni con un uomo ben più anziano di lei. Il professore di lettere ebbe il buon gusto di morire solo sei anni dopo e Valentine si risposò con un collega del marito, professore questa volta di Filosofia, da cui divorziò solo quattro anni dopo. Imparata la lezione si diede in libera unione con il critico italiano Ricciotto Canudo con cui divise gli anni accesi della sua vicinanza al futurismo.

Nel mondo artistico non entrò però nel 1912 con i suoi manifesti, futuristi solo a posteriori e per appropriazione marinettiana. Vi era entrata con tutti gli onori come poetessa di cui Apollinaire diceva, già nel 1908 all’uscita dei Poèmes d’Orgueil: «ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie» e ancor prima come romanziera con una Trilogia sull’Amore e sulla Morte e come musa di Rodin su cui scrisse un saggio ambiguo apparso sulla Nouvelle Revue dal titolo La doppia personalità di Auguste Rodin.

Innovativo per le visioni esposte e prova della vis polemica di Valentine è un articolo apparso su Les Tendances Nouvelles del 1913 dal titolo Il teatro della donna, Valentine afferma senza mezzi termini come nel teatro a lei contemporaneo la donna sia a dir poco annichilita: «evocata quasi esclusivamente come oggetto del desiderio». Esempio lampante è l’insistenza sul tema dell’adulterio attraverso cui; «la donna prende un amante perché è elegante, o semplicemente per curiosità di qualche nuovo divertimento […] e se la situazione si compromette, la donna si dà alle lacrime come un bambino sorpreso in una malefatta e di cui si limita a chiedere scusa». Nella drammaturgia teatrale secondo Valentine si manifesta tutto il dominio posto dall’uomo sulla donna ingabbiata e vittima di una visione maschile pregiudiziale. E la figura emblematica di tale visione di una donna prigioniera dei sentimentalismi svenevoli e passivi cari all’uomo è nientemeno che il vate Gabriele D’Annunzio. Per Valentine il teatro della donna era ancora tutto da scrivere.

Questo articolo sul teatro e la donna è il preambolo dell’incontro tra Valentine e il futurismo italiano. Se in linea di principio vi era certa aria comune tra Marinetti e Valentine de Saint-Point, (il mito della guerra, il sospetto verso le suffragette e il parlamentarismo femminile), tale similitudine regge solo a un primo sguardo. Le divergenze appaiono nette proprio rispetto al ruolo giocato dalla donna. E fu quindi in risposta al primo Manifesto del 1909, dove al punto nove si proclama appunto il “disprezzo della donna”, che Valentine scrisse il suo Manifesto della donna futurista in cui afferma senza mezzi termini: «La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Essi sono uguali. Tutti e due meritano lo stesso disprezzo. […] È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini, esso è composto soltanto di femminilità e mascolinità». Valentine orienta il proprio pensiero non verso una guerra dei sessi ma piuttosto verso la riscoperta del mito dell’androgino, caro a circoli teosofici e misterici parigini.

L’idea di donna proposto è lontano dalle svenevolezze o dalla fragilità. I suoi modelli sono: «Le Erinni, le Amazzoni, le Semiramide, le Giovanna D’Arco, […] le Giuditta e le Charlotte Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi». L’idea della donna forte deriva dalla convinzione della lotta impari posta di fronte all’universo femminile per far emergere il proprio talento nonostante gli ostacoli posti sul proprio cammino dagli uomini e dalla natura.

Una donna combattente quindi, per niente succube dei maschi e padrona dei propri desideri, soprattutto sessuali. Questa determinazione a illuminare la forza dell’eros dal punto di vista della donna era già ampiamente espressa nel suo romanzo La femme et le désir del 1910.

Valentine rimprovera agli attacchi misogini di Marinetti e compagni, contenuti nei vari manifesti futuristi, di aver dimenticato la potenza di Eros, il figlio di Poros e Penia, colui che nulla possiede se non i propri espedienti e la propria intelligenza, forza vitale primordiale, generatrice e innovatrice. Come nel Simposio platonico secondo l’opinione di Fedro: «nessuno è così vile cui amore in persona non accenda di fiamma divina. Così, quell’uomo diventerà eguale a chi è per natura valorosissimo», per Valentine de Saint-Point è la lussuria, non più intesa come vizio, lo stimolo per le grandi imprese delle anime forti al di là del sesso di appartenenza. E per questo :«si deve fare della lussuria un’opera d’arte fatta, come ogni opera d’arte, d’istinto e di coscienza». Non è dunque un peana all’imperio dei sensi ma padronanza composta di volontà cosciente e abbandono estatico.

Valentine aveva fatto apparire il suo Manifesto della Lussuria prima su Le Figaro e poi a Milano in forma di volantino quasi a ripercorrere i passi di Marinetti, il quale la ammise nel direttivo del Futurismo, movimento nel quale, oltre alla Marchesa Casati: «occhi di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata», non annoverava altre donne, se non fedeli servitrici e segretarie. Fan e difensore delle teorie di Valentine in Italia fu Italo Tavolato, il Karl Kraus di Trieste che nel 1913 sulle pagine di Lacerba difenderà a spada tratta il Manifesto della Lussuria nella sua Glossa e lo fece utilizzando gli stilemi del Credo cattolico: «Io credo nella comunione carnale che vivifica lo spirito, nella remissione delle virtù, nella vita terrena. Amen».

Valentine de Saint-Point però non si sentì mai pienamente parte del movimento futurista e presto le sue strade si dirigeranno verso altri lidi. Devota al Cerebrismo, teoria artistica propugnata dall’amante Ricciotto Canudo, si diede alla danza inventando la Métachorie, movimento astratto del corpo nello spazio senza accompagnamento musicale in contrappunto alla parola poetica. Nel Manifesto della danza Marinetti criticherà aspramente tali esperimenti: «Valentine de Saint-Point concepì una danza astratta e metafisica che doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua Métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente son poesie passatiste […] astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde, e senza emozioni». Nonostante la riprovazione di Marinetti, Valentine portò i suoi esperimenti in tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti.

La strada di Valentine, artista a tutto tondo e femminista sui generis, procedette verso orizzonti distanti dall’arte. Questo non prima di aver dato alle stampe una tragedia “L’anima Imperiale o l’Agonia di Messalina” che prova a dar forma a una delle donne modello del suo manifesto. Poi si spinse nei territori della spiritualità, dapprima cercò di fondare un tempio delle spirito in Corsica e poi, in seguito alla stretta amicizia con René Guenon, trasferendosi a Il Cairo dove si convertì all’Islam prendendo i nome di Rouhya Nour El Dine. Dimenticata da tutti visse i suoi ultimi anni libera ma indigente. Morì in Egitto, terra natale di Marinetti, sola e in povertà.

Il suo nome oggi è quasi del tutto dimenticato, relegato in poche righe e qualche citazione nelle opere dedicate al Futurismo, come se ne avesse fatto parte a tutti gli effetti o come fosse una semplice curiosità esotica. In realtà Valentine de Saint-Point condivide il destino di molte altre donne, affiancate ai movimenti di avanguardia dal mondo maschile più che dalle proprie opere o convinzioni. A volte venne loro affibbiato un ruolo passivo di mute muse, altre furono semplicemente considerate figure di sfondo, rarità poco influenti, non riconoscendo loro alcun originale apporto al pensiero dei fondatori maschi. In realtà Valentine de Saint-Point, così come Leonor Fini, Leonora Carrigton o Remedios Varo per il surrealismo, e come Emmy Ball-Hennigs per il dadaismo, non erano le vallette o le mascotte dei movimenti artistici, erano esse stesse grandi artiste, con proprie idee, e volontariamente rifiutarono di essere incasellate in modalità cui parteciparono ma non abbracciarono interamente. Tutte loro furono voci in contrappunto con le posizioni dominanti e cercarono di portare un punto di vista diverso alle questioni poste dai colleghi uomini. Solo in questi ultimi anni si sta compiendo una rivalutazione del loro ruolo, riportandone alla luce il valore e l’indipendenza di pensiero. Possiamo solo augurarci come Valentine de Saint-Point che:«i sentieri tracciati possano divenire larghi viali, grazie a coloro che ci seguiranno e che avranno tentato».