Se dei meriti si possono attribuire alla compagnia irlandese Dead Centre (attiva dal 2012 fra Dublino e Londra e alla loro prima nazionale italiana grazie all’ospitalità di VIE Festival), essi sono, in maniera evidente e lampante, la lucida vena dissacratoria e il forte senso dello humor. Ovviamente, tutto in tinta black, come da miglior tradizione anglofona pop.
Il Teatro Comunale Pavarotti di Modena, una fra le molte location in cui prende corpo il Festival, mette a disposizione del pubblico delle cuffie attraverso le quali ascoltare la viva voce del regista Bush Moukarzel – coautore del testo con Ben Kidd e nientemeno che Anton Chekhov, tagliuzzato, riscritto, preso a calci in ogni modo – il quale con una introduzione dal gusto di stand-up comedy si presenta nelle vesti di bussola vocale, commentario minuto per minuto dell’ostico testo chekhoviano sparato direttamente nella testa dello spettatore, per aiutarlo a orientarsi nelle fitte trame di relazioni, gerarchie sociali, interessi economici che sono il sottotesto immancabile delle pièces del drammaturgo russo. Platonov, uno dei suoi primi lavori, fu in effetti giudicata un’opera “irrappresentabile”: troppi i personaggi, troppo contorti gli intrecci fra l’uno e l’altro, staticità eccessiva, un protagonista che non parlerà mai ma attorno al quale ruota tutta l’azione. Del resto, in vita dell’autore, questa fu rifiutata e non vide mai la scena. Ma quello che ci tiene a introdurre da subito Moukazel è che invece due elementi in particolare sopravviveranno a tutti i drammi successivi e più famosi, tanto da fare scuola ed essere anche diventati citazione d’autore: l’armonia della composizione e la presenza di una pistola. Che ormai lo si sa, se è in scena dal primo atto, arrivati al terzo sarà meglio che faccia fuoco.
Si allude spesso, in gergo, a un’azione scenica “telefonata”: posto che in Chekhov’s First Play la scelta della compagnia, all’apertura definitiva del sipario, è quella di presentare l’incastro fra il dramma iper-classico (persino a livello di scenografia e costumi, il che ha sicuramente il suo grado di ironia intrinseca) e il commento fuori campo, il rapido declino di pazienza e fiducia del regista nei confronti dei suoi attori (macchiette grossolane che continuano a perdere battute e ritmo) sicuramente evidenzia l’interesse nutrito dalla compagnia irlandese per il meccanismo metateatrale e per una dinamica di relazione dell’attore con l’altro-da-sè, dinamica in sé interessante ma che, bisogna dirlo, si traduce qui spesso in un tipo di comicità studiata: infatti quando l’esplosione deflagra attraverso le cuffie questa non sorprende, arriva troppo rapidamente, e senza un reale crescendo.
If the gun shoot at the first act, you’re fucked.
E qui sta il bello. Il pensiero di essere effettivamente fottuti.
I’m not feeling very well. I’ve not been much myself lately.
Arriva il rovesciamento: la pistola spara e non ci sarà più né commento né “spiegone”. Una grossa palla nera cade dall’alto e abbatte la scenografia. Basta col classico, basta con la bussola, la finzione già smentita in quello che idealmente è stato il primo atto cade man mano che gli attori si spogliano dei panni chekhoviani, l’ultima traccia del dramma ottocentesco resta l’emblema del protagonista stesso: Plàtonov, l’eroe, l’anima della festa, il bugiardo, il fallito, il ricco, il povero, quello che non è mai arrivato sulla scena, di cui tutti parlano e che tutti aspettano fin dall’inizio, e che, in absentiam, viene preso dalla compagnia direttamente dalla platea. In un attimo torniamo all’oggi e al contemporaneo, uno dopo l’altro i personaggi assumono il linguaggio e le vesti di avventori di un party qualunque, decisamente credibile: alcool, droghe, tutti che ambiscono allo status di protagonista (“voglio essere come te, Platonov”, si continua a ripetere); una fiera di adolescenti in crisi. Credibile tanto più che la proposta scenica replica una situazione valida tanto che ci si trovi a Temple Bar (e in questa piccola Dublino niente a che vedere con le megalopoli alienanti, quanto ci si può sentire invincibili, i migliori) quanto in una delle tante “Italiette” di provincia che provano a travestirsi da centro nevralgico di una boheme un po’ anacronistica che zittisce le domande sotto una maschera sorridente e allegra.
In ambito teatrale, si dirà che in questo non c’è decisamente troppa originalità, ci muoviamo probabilmente nell’ambito di un già visto e un già sentito. Ma qualche domanda in più forse è opportuno farsela, se non altro perché, in definitiva, questo è uno spettacolo che funziona e arriva.
Che cosa, abbiamo già visto e sentito? Il topos dello smettere in scena un certo tipo di finzione, del teatro che affronta il tema della crisi artistica, umana e soprattutto sociale, di un materiale tradizionale che non si sa più da che parte prendere, in una mancanza di originalità connaturata al tempo presente e nella quale – e forse è qui uno dei punti più importanti della questione – una certa data categoria fa i conti quotidianamente. In rumoroso dialogo (tecnico oltre che semantico, la compagnia si aggiudica con questo spettacolo il premio Best Sound Design nel 2015, meritatissimo, si aggiunga) con tantissime e molto scomode vocine. Siamo effettivamente fottuti nel momento in cui bisogna riconoscere che Chekhov’s First Play dei Dead Centre è uno spettacolo “giovane”.
Giovane è sicuramente la compagnia, che pure in scena presenta qualche ingenuità. E tuttavia questo tipo di categorizzazione è decisamente pruriginosa, oltre che problematica.
In una struttura che abbiamo voluto nella sua prima parte rasentante “il telefono”, accade che il regista dica: oh, that’s so realistic! Il rumore di voci che sostituisce questa sequela di commenti presuntuosamente autorevoli nella seconda parte è in effetti una mescolanza di rumori ambientali e voci registrate direttamente dalla strada sparati a tutto volume nelle cuffie (il pubblico che si volta incerto se provengano da un intorno ben riconoscibile o sia effettivamente parte dello spettacolo è un dettaglio decisamente gustoso, in questo senso); e un modernissimo tappeto sonoro tecno lascia sovrapporsi commenti, auto-proclamazioni di stanchezza, turbamento, insofferenza e frustrazione personale e sociale, velleità di fuga che si risolvono in caduta e nuova maschera da parte di attori che evidentemente nel mondo “reale” – quale che questo sia – ci passano del tempo vero. Un determinato panorama europeo fatto di palliativi e dilazioni rispetto a un’ansia che c’è e agisce si profila chiaro, gli imput da seguire sono talmente tanti da determinare la caduta dell’univocità nella ricezione del lavoro dei Dead Centre, e da ristabilire quell’“armonia chekhoviana” a cui con un po’ di sana giovanile ingenuità si era venuti meno nella prima parte di Chekhov’s First Play.
In altri tempi di avanguardia e ricerca scenica intellettuale, Peter Brook si domandava che cosa si potesse chiedere al teatro. Che scelta operare nell’ordine di rimettere l’uomo in comunicazione con il mondo circostante. Comunicazione che sappiamo sempre più complicata da fenomeni di interazione continua fra lo spazio esterno e quello interno, saturata da un rumore troppo alto.
L’essere altro da sé resta sempre una buona risposta. Soprattutto se il sé è mera rappresentazione di sé, un commentario continuo nella testa, un giudizio, un sovrapporsi di voci non proprie. Poco originale in teatro? Chissà, ma di sicuro non meno vero, a qualsiasi livello.
Non è certo se molte delle scelte drammaturgiche adottate dagli irlandesi Dead Centre siano teatralmente efficaci o potenti (specialmente nel finale e nel rumore di acqua a tappeto della voce del resuscitato regista, e anche nella volontà, di difficile attuazione, di buttare così tanti elementi eterogenei nello stesso calderone), ma nella voce di un “non-addetto-ai-lavori” temporaneamente protagonista, e nella semplicità del suo Hello è innegabile che si lascia il teatro con una sensazione di freschezza mai del tutto risolutiva o semplicistica.
di Maria D’Ugo
Ph: Jose Miguel Jimenez