Archivi tag: Teatro Del Lemming

Festival Opera Prima

Residenze teatrali e sistema produttivo: proposte e riflessioni al Festival Opera Prima

Durante la diciottesima edizione del Festival Opera Prima organizzato da Teatro del Lemming nella città di Rovigo, oltre a un’interessante rassegna di spettacoli sempre bilanciati tra “senior” e “junior”, si è potuto assistere a un necessario e importante convegno dal titolo: Le residenze artistiche all’interno del sistema teatrale.

L’incontro è stato promosso dalla segreteria di Artisti nei Territori con la finalità di esplorare le possibili interazioni dell’istituto della residenza creativa con gli altri attori della filiera produttiva. La riflessione si è dipanata a partire da una serie di stimolanti domande: sarebbe utile o necessario regolamentare la relazione tra Residenze e produzione? Se sì, come? In che modo Teatri Nazionali, TRIC, Centri di Produzione possono entrare in relazione con il sistema delle Residenze Artistiche e viceversa?

Un ragionare a partire dalla volontà di costruire ponti in un panorama simile a un arcipelago in cui ogni isola procede secondo propri criteri e regole senza mostrare alcuna inclinazione apparente alla sinergia. Eppure i richiami alle reti è costante e monotono come un mantra.

Prima di esaminare le proposte e le tesi più interessanti emerse dal confronto è giusto rilevare un’anomalia inquietante: i diversi agenti del settore produttivo dello spettacolo dal vivo in Italia non hanno una idea comune di ciò che sia in realtà una residenza artistica. Ci si trova a essere protagonisti della parabola indiana dei ciechi e dell’elefante: ciascuno toccando con mano solo una parte del problema, pensa di esser giunto a conoscerne l’essenza. Insomma si ritorna all’arcipelago d’isole non comunicanti.

Come affermava Confucio quando le parole non corrispondono alle cose lo Stato declina. Cerchiamo di fare un poco di chiarezza se possibile. Innanzitutto il termine Residenza è foriero di equivoci: infatti se è vero che l’artista o le compagnie sono ospitate, per un certo periodo di tempo, in uno spazio e in un luogo, sono anche invitati/e a un viaggio e a un percorso di scoperta, non solo nei/dei processi creativi, ma nei/dei territori medesimi. Nel termine residenza quindi è presente il concetto di stanzialità ma manca il riferimento al nomadismo che ne costituisce il fondamento. Infatti come ricordato dal Vicesindaco e assessore alla cultura del Comune di Rovigo Roberto Tovo, non esiste processo di apprendimento scientifico che non preveda un periodo di studi in altra facoltà o centro di ricerca. Quest’ultima vive un certo nomadismo necessario al proprio espandersi. Con Residenza artistica (sia essa generata da un Centro di Residenza, sia da un progetto di Artisti sul Territorio, e benché quanto detto sia più accentuato nel secondo caso) si individua quindi una pratica mista costituita da movimento e stasi, benché il secondo termine venga dato come implicito. Proprio tale sottintendere genera pregiudizi, confusione e fraintendimenti.

Ciò premesso occorre sottolineare che la Residenza artistica come istituzione non ha scopi né produttivi né distributivi, compiti che devono essere assunti ed espletati da altri attori della filiera. Questo non vuol dire che le residenze non possano essere integrate nel sistema produttivo e distributivo e nemmeno che via sia sottesa una volontà autoescludente generante torri eburnee e riserve indiane. Significa solo la mancanza di funzione, orientata piuttosto verso la formazione e la creazione di un tempo di ricerca artistica in un territorio. Il rapporto che si instaura tra artista, struttura ospitante e territorio deve essere osmotico. Un travaso di esperienze, sensazioni, conoscenze, stimolato dal soggetto ospitante e che deve trovare una risonanza negli altri elementi dell’equazione.

La residenza quindi è un piano di convergenza e di incontro tra forze centrifughe e centripete: proiettato verso l’esterno il lavoro dell’artista, attrattiva verso il proprio centro l’azione del territorio nel suo desiderio/volontà/apertura di farsi conoscere. Un processo di permutazione di esperienze nutritive, un moto espansivo fecondo quanto più i soggetti impegnati sono aperti allo scambio.

Non necessariamente da questo procedimento deve nascere l’opera come prodotto finito da immettere sul mercato. Attraverso la residenza si inizia e si perfeziona un percorso che può portare alla finitezza, ma non la si deve presumere né dare per scontata benché l’intero processo residenziale lo finisca per stimolare. È un tempo di creazione in cui persino nulla può accadere e questo fa parte del rischio insito in ogni procedimento creativo. Se si preferisce invece il linguaggio aziendale oggi tanto di moda in ambito artistico chiamiamolo rischio d’impresa.

Se tali sono gli scopi e le funzioni delle residenze artistiche in quali modi si può integrare tale istituto nel tessuto connettivo del sistema Spettacolo dal vivo in Italia? Innanzitutto si dovrebbe immaginare una partecipazione, anche come semplici osservatori di processi, da parte degli altri protagonisti della filiera: Teatri Nazionali, Centri di Produzione, Tric, festival, circuiti, etc. Un osservare alla ricerca di semi fecondi da far crescere. Non quindi un obbligo a produrre o a distribuire ma un attento esplorare e scrutare i bordi, i confini, gli anfratti della creazione senza lasciarsi dominare l’attenzione dai luoghi consueti e sicuri da cui trarre i propri repertori.

Una seconda possibilità è stata ventilata dal direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti, dirottare cioè l’insostenibile compito voluto dal nuovo decreto che designa il prossimo triennio di abitare i borghi fino a cinquemila abitanti, affidato dal Ministero ai Teatri Nazionali e ai Tric, redistribuendo l’onere e le rispettivi parametri e indicizzazioni a coloro che agiscono per natura e vocazione nei territori periferici. Se questa proposta venisse accolta dal legislatore (non prima di tre anni comunque) e quindi si facesse giungere maggiori fondi alle Residenze, non si risolverebbe il problema dell’integrazione dello strumento nella catena produttiva.

Inoltre da rilevare la promessa di Antonio Massena, Presidente della commissione per il teatro del MIC, di provare a equiparare le legislazioni a livello di Stato e Regioni, i cui parametri spesso sono non solo diversi ma opposti. Un caso su tutti quello della Regione Sardegna la quale ha reintrodotto gli Under 35 laddove il Ministero aveva lasciato cadere l’obbligo. Legislazioni in contrasto tra loro non aiutano certo un sistema già in affanno ben prima della pandemia e che ora, dopo due anni difficili, si appresta ad affrontare ancora maggiori difficoltà dovute all’incertezza non solo di recuperare i fondi per continuare le progettualità esistenti ma, in aggiunta, a dover probabilmente affrontare ulteriori emergenze prima fra tutte quella del rincaro energetico.

La sensazione avvertita ogni volta che si affrontano temi volti a semplificare, integrare, migliorare, emendare il sistema o alcune delle sue parti è che quanto più ci si avvicina al centro del potere politico e decisionale più l’immagine delle cose si fa sfocata e confusa, anche qualora si dimostri a parole una certa disponibilità costruttiva. È come se il legislatore e i grandi attori della produzione e distribuzione, di coloro cioè che si ritengono il fulcro nevralgico del sistema solare dello spettacolo dal vivo, in realtà siano la propaggine più estrema dell’impero e che il vero centro sia piuttosto situato in quel campo di asteroidi più o meno piccoli, i quali essendo più vicini alla realtà creativa, sono anche i depositari di una conoscenza più veritiera della realtà.

Manca quindi un ascolto reale da parte della politica e dei grandi soggetti produttivi. È come se alle proposte provenienti dal basso, da quel cuore pulsante e creativo, nascosto nelle pieghe dei territori, si risponda sempre distrattamente o con grandi promesse o con l’allontanare la soluzione dall’orizzonte degli eventi. Le cose sarebbero veramente facili a risolversi. Basterebbe prendere esempio da ciò che avviene all’estero, dalla Catalogna alla Slovenia o al Belgio dove i grandi produttori frequentano le residenze creative. Bisogna insomma che i direttori artistici tornino a vedere dal vivo esplorando i confini dell’impero, valutando le nuove proposte e le nuove idee, e si decidano a promuoverle quando ne vedono l’occasione. Non serve cambiare leggi o crearne di nuove. Basterebbe un poco di buona volontà. Ma come sempre si avverte netta la sensazione che il sistema non lo si voglia cambiare perché in fondo fa comodo che rimanga a compartimenti stagni.

Un ultima riflessione. Le residenze hanno fatto molto in questi anni per far emergere il sommerso, sono state in molti casi dei veri e propri presidi culturali in territori spesso abbandonati dallo Stato, assumendosi funzioni di educazione, formazione, sostegno delle fasce più deboli: anziani, immigrati, adolescenti, portatori di handicap. Certo non mancano anche esempi negativi di sfruttamento dei giovani, carenza di assistenza tecnica e formativa. Casi isolati ma presenti da emendarsi quanto prima. Nonostante alcune pecche le Residenze sono state spesso le uniche possibilità di creazione per molti artisti privi di un luogo proprio di lavoro. Lo strumento è quindi essenziale a dar respiro al sistema facendo emergere linfe vitali altrimenti nascoste e invisibili. Non basta però far spuntare la pianta dal terreno, serve irrigarla e concimarla per farla crescere forte. Tale compito come è già stato detto è affidato al legislatore e agli altri settori della filiera. Sarebbe il caso che costoro si assumessero al più presto la responsabilità e l’onere, prima della siccità incombente, prima che sia troppo tardi.

Rovigo 16 giugno 2022

Sono intervenuti al convegno:

MASSIMO MUNARO, LAURA VALLI e ALBERTO BEVILACQUA (segreteria Artisti nei Territori)

ANTONIO MASSENA (Presidente Commissione Consultiva MiC per il Teatro)

FILIPPO FONSATTI (Presidente Platea e direttore Teatro Nazionale di Torino)

HILENIA DE FALCO (C.RE.A.RE/Centro di Residenza Napoli)

ROSA SCAPIN (Bassano Opera Estate/Residenza AnT)

SILVIA MEI (storica del teatro/Università di Foggia)

FRANCESCA D’IPPOLITO (Presidente CRESCO – Coordinamento Realtà Scena Contemporanea)

FRANCO OSS NOSER (Presidente AGIS Triveneto)

PIERGIACOMO CIRELLA (Teatro Comunale di Vicenza/AnT)

SERENA GATTI (Azul Teatro/Pisa), ALESSANDRO SANMARTIN (Livello 4/Valdagno), CHIARA ROSSINI (Welcome Pro-ject/Torino-Berlino), CIRO GALLORANO (Cantiere Artaud/Arezzo)

Festival Opera Prima

A ROVIGO RINASCE IL FESTIVAL OPERA PRIMA

A Rovigo rinasce il Festival Opera Prima diretto da Massimo Munaro e il Teatro del Lemming. È questa senz’altro una buona notizia.

Il Festival Opera Prima segnò una fase importante nella ricerca teatrale nel corso degli anni ’90 e oltre, non solo come vetrina di lavori di compagnie allora giovani come Socìetas Raffaello Sanzio, Fanny&Alexander, Masque Teatro, Motus, Accademia degli Artefatti, ma anche come luogo di riflessione sul teatro e il suo linguaggio in evoluzione.

Oggi, otto anni dopo la battuta di arresto, Opera Prima rinasce sotto il titolo di Generazioni a significare fin da subito un intento di incontro tra i giovani artisti e coloro che possono considerarsi dei maestri, parola scomoda, non più di moda e che si declina in molti modi diversi.

Un incontro di generazioni, dove artisti e compagnie più affermate (Lenz Fondazione, Fortebraccio Teatro, Accademia degli Artefatti) segnalano i giovani che si affacciano alla scena (Tim Spooner, Pietro Piva e Filippo M. Ceredi). Un dialogo fatto di opere, di linguaggi che cambiano, di punti di vista in evoluzione.

A questo si affianca quanto di meglio giunto attraverso un bando pubblico specificamente dedicato ai giovani.

Il Festival Opera Prima riparte con una linea curatoriale forte, significativa, che punta non solo a valorizzare dei giovani e giovanissimi di talento ma a connetterli a un tempo passato recente, in un dialogo che sembra oggi, non solo infrequente, ma molto sfilacciato e fragile.

Le giornate di festival iniziano a mezzogiorno, con gli artisti che presentano le loro opere al pubblico nel Giardino delle due torri, nel centro di Rovigo, e proseguono con una lunga maratona di lavori che si susseguono per tutta la giornata, fino a ritrovarsi nello stesso luogo, a tarda sera, per un dopo festival che permette di chiacchierare e ripensare a quanto visto ed esperito.

Benché tutte le opere viste meriterebbero un discorso vorrei soffermarmi su alcune opere che, non solo mi hanno colpito non solo per la qualità dell’esecuzione e dell’impianto drammaturgico, ma soprattutto per le questioni che ponevano al pubblico.

Bocca di Amantidi, duo vicentino formato da Fabio Benetti e Andrea Buttazzi, propongono una performance di quindici minuti per un solo spettatore nei sotterranei delle due torri.

All’entrata vengono mostrate tre fotografie che ritraggono tre diverse bocche. Bisogna scegliere con quale interagire. Si viene avvertiti: la bocca non dice solo la verità, né proferisce solo menzogna. Si viene messi su un sentiero. Sta a noi non solo percorrerlo ma scegliere una modalità di attraversamento.

Si entra in un ambiente illuminato da poche candele. Su un tavolo della frutta, olive, rossetti. Da un velo nero ecco apparire la bocca scelta che interroga. Dove sei? Mettimi il rossetto. Come staresti in una stanza senza specchi? Si inizia un dialogo fatto non solo di parole ma di interazioni. Dobbiamo compiere delle scelte che rivelano molto sulla nostra identità. Uscendo si viene messi di fronte a un oculare e invitati a vedervi attraverso. C’è la nostra bocca riflessa nello specchio: ha detto verità o menzogna?

Attraverso la leggenda della bocca della verità, Amantidi avvia una riflessione intelligente sull’identità e sulla natura del sé attraverso un’opera che travalica i linguaggi. Non veramente performance ma nemmeno teatro, pur prendendo da entrambe le forme delle modalità espressive.

The Telescope di Tim Spooner è un viaggio surreale e immaginario che si interroga sulla natura della visione. La lente del telescopio si è rotta e quello che vediamo ora sullo schermo non si capisce se sia un lontano pianeta o un microscopico mondo nascosto.

Piccoli oggetti informi si muovono sul minuscolo tavolino inquadrato dalla lente di ingrandimento. Le immagini proiettate ci mostrano un mondo alieno, di materie in movimento, formazioni geologiche irruente, laghi salini, esseri viventi astrusi e inquietanti. La voce racconta quanto l’occhio percepisce o crede di percepire attraverso le lenti rotte e spesso sfocate.

Ma cosa stiamo veramente cedendo? Ciò che vogliamo vedere o ciò che veramente è in movimento?

Un mondo animato che ricorda le generazioni equivoche di certe animazioni di Jan Švankmajer, i suoni cacofonici ed esasperati, le animazioni che si alimentano una con l’altra, le formazioni improbabili di oggetti inanimati che prendono vita improvvisamente e misteriosamente.

Pietro Piva presenta invece Abu sotto il mare, menzione speciale al Premio Scenario Ustica nel 2017. Quella di Piva è una storia di migrazione che diventa favola e si spoglia di ogni patetismo e moralismo riguardo a una questione oggi sempre più scottante.

Un viaggio per valicare il mare visto con gli occhi di un bambino costretto ad entrare in un piccolo trolley rosa per poter raggiungere il padre in Spagna da Ceuta. Nel racconto di Pietro Piva vi sono tutti i timori, le speranze, le ingenuità, i voli pindarici di un’immaginazione fertile che attraversano l’animo di un bambino costretto a vivere un’esperienza brutale nelle mani dei trafficanti di uomini.

Essi diventano orchi in alleanza con una strana fatina a cui Abu è affidato. Lei cerca di tranquillizzarlo senza troppo riuscirci essendo alleata e complice degli orchi.

Abu paragona il suo viaggio nella valigia rosa a quello di Ulisse dentro il cavallo alla conquista di Troia, ed è quello di un bambino sul fondo di un mare in cui appaiono solo strani animali, muti e inquietanti, che nulla possono fare per placare la sua sensazione di soffocamento.

L’arrivo alla dogana spagnola è per Abu una liberazione. Gli orchi sono spariti insieme alla fatina. Resta un padre piangente, i medici, gli operatori addetti alla disinfestazione, un mondo che costringe un bambino a viaggi orribili.

Pietro Piva dimostra la fretta di incasellare certi lavori nella categoria di Teatro Ragazzi, categoria che prevede un certo tipo di pubblico. Abu sotto il mare è semplicemente teatro e aspira a incontrare la comunità senza distinguerla tra adulti e ragazzi.

La sua semplicità di favola per bambini è solo una modalità espressiva per veicolare un tema senza trasformare l’opera in una tribuna politica. Pietro Piva racconta una storia con i toni delicati della fiaba che, ricordiamo, non solo pone domande urgenti, ma è piena di orrori e inquietudini.

Angst vor der angst di Welcome Project diretto e interpretato da Chiara Rossini è un’indagine sulla paura. Attraverso le favole ci si incammina verso un mondo di incubi dove quello che appare chiaro è soprattutto il nostro terrore di avere paura.

Chiara Rossini, in questo secondo studio che segue quello finalista al Premio Dante Cappelletti, raduna frammenti di uno specchio in frantumi, un discorso illogico fatto di salti e interruzioni improvvise, di immagini, suoni e parole, all’interno del mondo della paura che da un ombra sul muro inventa mostri inesistenti.

Da ultimo Hey, Kitty! il lavoro ispirato al Diario di Anna Frank della danzatrice armena, di formazione classica, Rima Pipoyan. Kitty è il diario di Anna. Così iniziava i suoi racconti sulla pagina bianca. Ma il diario non è l’unico elemento di ispirazione: vi è anche una piccola poesia di un bambino tedesco sulle scarpe che emergono dalle macerie, la scarpe dei morti.

Rima Pipoyan racconta che in Armenia, dove sono molto vivi la danza e il balletto classici, la danza contemporanea è assente. Il suo è quindi un approccio alla ricerca di un linguaggio che manca nel suo paese.

La danza di Rima Pipoyan, che si interfaccia e si alterna con i video di Davit Grigoryan, è un viaggio alla ricerca di un linguaggio che ancora non c’è. Si nota la transizione dalla forma balletto a qualcosa di diverso. È un tendere verso qualcosa che ancora non si è trovato. Rima Pipoyan. negli incontri prefestival. racconta che il suo lavoro nasce dalla domanda: cos’è la danza contemporanea? E su questa domanda innesta le sue sperimentazioni, in Armenia pionieristiche, alla ricerca di un linguaggio che non c’è nel suo paese e di uno stile personale. Ma la domanda che si pone Rima è la domanda di ogni artista e danzatore per andare al di là di ciò che si considera definito e mai lo è stato.

Quella del Festival Opera Prima è un’ottima ripartenza. Un festival accogliente che induce al dialogo e all’incontro. Molto è il lavoro che ancora si dovrà fare per recuperare il pubblico, per ricostruire i legami con la città e il territorio, nonostante il Teatro del Lemming non abbia mai interrotto la sua attività a Rovigo.

La provincia è sempre difficile, tende a richiudersi nelle abitudini, è diffidente a tutto ciò che turba la routine. È un territorio che pone delle sfide, ma è anche un ambiente in cui, se si ha la cura del Teatro del Lemming, si può far nascere radici forti e durevoli. É questo l’augurio che rivolgiamo a Massimo Munaro e a tutti i suoi collaboratori.

https://www.rumorscena.com/category/teatro/enricopastore

CORPI POLITICI E SCONFINAMENTI PROLIFICI: Teatro del Lemming e Julia B. Laperrière

Venerdì e sabato sera nel secondo appuntamento della stagione di Officine Caos sono andate in scena due opere che in vario modo portano all’attenzione del pubblico questioni politiche urgenti e stimolanti. Sia in Amleto di Teatro del Lemming, sia in UnCOVERED woMAN della danzatrice e performer franco-canadese Julia B. Laperrière si manifesta un corpo politico che travalica la scena e si spinge in platea.

Incominciamo da Amleto del Teatro del Lemming.

Chi è Amleto? Il principe di Danimarca diserta le scene e diviene platea, diviene moltitudine muta che osserva la scena. Impotente, silenzioso, privo per una volta di battute, questo Amleto del Teatro del Lemming diviene corpo politico.

Chi osserva, chi guarda non fa. Questo è l’assunto. E tutto questo si innesta in un gioco di specchi che rimanda dalla scena alla platea. La donna che regge lo specchio e sputa sull’immagine ivi riflessa, guarda verso di noi, ormai condannati a essere Amleto per decisione altrui, impossibilitati a ribellarci dalla posizione passiva che come pubblico abbiamo adottato, massa silenziosa che resta nel buio.

Siamo Amleto perché come lui ci troviamo in una parte che non abbiamo scelto né voluto, scissi tra accettazione e rinuncia.

Molto si è scritto e si potrebbe scrivere su Massimo Munaro e il Teatro del Lemming, ma una cosa è certa: è un teatro che non lascia mai indifferenti, che porta sempre a prendere una posizione. In questo capitolo della trilogia shakespeariana, diveniamo protagonisti senza nulla poter fare, nemmeno baloccarci con il dubbio di essere o non essere.

É la scena che ci dona sostanza, è l’agire di quelle immagini evanescenti, di luce caravaggesca, in perenne fluttuazione di registro, che ci permette di assumere un ruolo che altrimenti non terremmo ad assumere. Ma il Teatro del Lemming ci pone nello stesso tempo in un paradosso: siamo una parte, un personaggio, che non può parlare perché non ha la battuta, e non può agire perché non ha didascalia. Come un re degli scacchi i nostri movimenti sono limitati, e il gioco è svolto solo dagli altri pezzi.

E come il re degli scacchi siamo in perenne assedio, le immagini ci incalzano con un ritmo ossessivo prima, dilatato poi, spingendoci sempre più in una dimensione onirica che non può terminare che in un silenzio assordante. Siamo esistenze sospese tra l’alzata e la calata di un sipario, e poi è tutto buia notte e silenzio.

Come nella tragedia per il Principe di Danimarca il teatro diviene strumento di presa di coscienza del delitto, nel farsi doppio della realtà, così in questo caso si diviene coscienti della propria miserevole impotenza perché il teatro conferisce forma a una realtà che non vogliamo vedere. Continuamente provocati ad agire, a dire la nostra, a far parte della scena restiamo muti, nel buio, senza nulla fare perché non sappiamo cosa fare né quando né quali sono le regole e anziché inventarcene una, o agire senza il bisogno che ci siano, preferiamo restare zitti e fermi.

E allora chi è lo spettro del padre? E la madre prostituita? E Ofelia abbandonata e nell’acqua annegata? Tocca trovar nella nostra vita risposta ai quesiti che pone Massimo Munaro e il Teatro del Lemming. E tocca trovarla una risposta perché nella vita di ogni giorno ci proviene sempre più l’urgente e imperioso stimolo ad agire, a prendere posizione e sempre più distogliamo lo sguardo da quanto accade. Forse è ora di cominciare ad agire.

Altro discorso invece per UnCOVERED woMAN di Julia B. Laperrière, dove il corpo di donna si spoglia sempre più dei miti e dei pregiudizi che gravano sulla sua identità fino a ritornare nudo e forse di nuovo padrone di sé. Nel nome già vi è un’ambiguità, e forse un’accusa, o semplicemente la rilevazione di un sintomo.

Da una posizione china al suolo, lentamente la donna trasmuta come Proteo passando per Eva e la mela, alla casalinga, bella lavanderina imbrigliata nella borsa della spesa di tela, che diviene oggetto di vezzo e vanità, e infine corpo ribelle e rivoluzionario. Ma qual è la verità di questo corpo? Veramente riusciamo a spogliarlo dei pregiudizi che l’hanno coperto per sì lungo tempo? Il feminino veramente può sorgere libero e svincolato dalle immagini che l’hanno vestito per secoli?

Una piccola performance molto intelligente quella di Julia B. Laperrière, che esamina la figura della donna e l’ambivalenza di ogni immagine legata al corpo femminile. E come in Amleto di Teatro del Lemming siamo tutti Amleto, in questo caso ci troviamo a essere tutti dei Signor Palomar, a non sapere cosa guardare e se guardare quel meraviglioso corpo nudo che cerca con tutte le sue forze di svicolarsi dalla gabbia delle immagini e dei concetti che nonostante la nudità le restano comunque appiccicati addosso.

WS Tempest

Differenti sensazioni: WS TEMPEST Teatro del Lemming

WS Tempest del Teatro del Lemming, andato il scena alle Officine Caos per Differenti sensazioni, è il terzo anello della catena della Trilogia dell’acqua dedicata al Bardo e i cui precedenti capitoli erano Amleto e Romeo e Giulietta.

Come consuetudine l’esperienza per lo spettatore è intima e, mi si passi il termine, violenta. In pochi e totalmente immersi nella scena, partecipanti e non spettatori, si condivide uno spazio, i movimenti, l’atmosfera, la scena; e nello stesso tempo si è in balia di qualcosa che accade nonostante la nostra presenza, un evento di cui non conosciamo, come pubblico, le regole del gioco e non resta che abbandonarsi fiduciosi e timorosi a ciò che avviene intorno a noi.

Si entra in uno spazio che ci circonda. Gli attori sono seduti a terra in cerchio con dei fogli e delle candele che illuminano fiocamente lo spazio che circoscrivono. E subito si è sull’isola di Prospero. E le voci degli spiriti/attori ci chiamano a iscriverci sulle pagine dei libri del mago. Come alla dogana ci chiedono di declinare le generalità: una volta iscritti siamo parte della storia.

Ma chi è Prospero se non Shakespeare stesso? E tutti quegli spiriti non sono forse i suoi personaggi? Amleto, Macbeth e la sua tremenda sposa, il geloso Otello, e poi Cordelia e l’infelice Ofelia. Ecco le voci che sussurrano sull’isola dove siamo approdati. L’isola è la mente che partorisce i suoi mostri e i suoi spiriti.

WS Tempest non è quindi un confronto con il Bardo sul piano del testo e della rappresentazione, quanto più con la modalità di pensiero. Come Otello è parte della mente di Shakespeare così egli è dentro di noi, nel nostro quotidiano agire/patire.

WS Tempest è un’esperienza nel labirinto, un percorso alla cieca tra le stanze di questo palazzo sconosciuto in cui ci aggiriamo cercando un’uscita. Suoni e immagini ci appaiono, parole che appartengono alle grandi tragedie e commedie ci ricordano la fragilità e l’evanescenza di una vita che è sogno e fatta di sogni. Si passa senza lasciare segni duraturi, come il teatro impermanenti e volatili. Finita la rappresentazione non resta che la scena vuota e spoglia.

Molto riuscita la scena finale dove una donna nuda immersa nell’acqua come una ninfa, viene coperta di pagine bagnare che diventano vestito e maschera. Gli attori la circondano ma nell’accendersi e spegnersi della luce fioca che illumina la scena, piano piano le figure svaniscono, finché non resta che un povero mucchio di carta straccia e bagnata.

Meno riuscita la scena in cui un tribuno su un palco munito di megafono affronta temi di politica teatrale che andrebbero invece indagati con più profondità piuttosto che lanciati sulla folla come sampietrini. Quale il ruolo dello spettatore? E la ricerca non si è allontanata da lui? Non protegge una torre d’avorio incomprensibile? E lo spettatore cosa vuole? Divertirsi e non pensare? Dormire? Forse sognare?

WS Tempest è spettacolo che, come consuetudine del Teatro del Lemming, propone una relazione con lo spettatore molto diretta, quasi aggressiva. Fin dagli ormai lontani anni ’90 quando vidi un loro lavoro per la prima volta (era Edipo), fui colto da un certo disagio per questo confronto pugnace con gli attori. Si è quasi dei pugili impegnati in una lotta. Il mio disagio è comune a tutti quelli che assistono ai loro lavori e non può essere altrimenti. Vi è sempre qualcosa di illecito quando l’attore ti tocca, perché in quel momento non è uomo, è posseduto da forze altre e misteriose, è privo di identità nota perché in lui appaiono anche spettri di un altrove. L’attore quando fa il suo mestiere come si deve è prima di tutto sciamano.

Essere nella zona di azione degli attori, è essere clandestini in una terra pericolosa di cui non si conoscono usi e costumi. Il pubblico è materiale di scena, attore inconsapevole, parte di un gioco di cui non comprende pienamente le regole, e per quanto più attivo che quando semplicemente seduto al suo posto, resta passivo e inerme.

Certo queste cose sulle modalità del Lemming sono già state dette e quindi queste mie parole non aggiungono né tolgono niente, eppure nonostante ormai si sappia quale sia la modalità e quindi la si accetti di buon grado e non sia più una sorpresa, il disagio resta e mi obbliga a ripormi il problema come nel lontano passato. E penso anche che laddove WS Tempest funziona di più è proprio quando abbandona quella modalità aggressiva, e torna a essere immagine distante che appare come un miraggio, più che presenza fisica che contatta e contagia lo spettatore.

WS Tempest è un’esperienza teatrale complessa e impegnativa, che non lascia indifferenti e colpisce per la forza delle sue immagini. Una modalità altra di partecipare a un evento scenico nonostante tutte le perplessità che propone.