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Love!Battle!Revolt! di Alice Conti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA AD ALESSANDRO SESTI

Per la quindicesima intervista del ciclo #Resistenze artistiche si torna in Umbria per incontrare Alessandro Sesti, direttore del Festival Strabismi di Cannara.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato. 

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Devo dire che abbiamo provato a non fermarci mai. Non appena il primo lockdown ha iniziato ad allentarsi, abbiamo tentato di elaborare cosa avremmo potuto fare. Consci che sarebbe stato un periodo senza pubblico dal vivo e assolutamente contrari a quell’assurdità del teatro in streaming, idea che andava serpeggiando in quel periodo (ma si sa, la disperazione fa brutti scherzi), abbiamo concentrato il nostro lavoro sulle residenze. Abbiamo aperto il teatro a tutti quegli artisti, chiaramente della zona data l’impossibilità di spostamenti regionali, che avevano bisogno di spazi per provare. Il ritorno del pubblico dal vivo, per noi, ha coinciso con la sesta edizione del Festival Strabismi e nonostante le restrizioni, distanziamenti e sanificazioni che sballavano tutti gli orari, abbiamo ricevuto una risposta del pubblico incredibile. Quasi tutti gli spettacoli sono andati sold out, ma soprattutto ricordo un momento. Al termine del primo spettacolo del Festival (era “Requiem for Pinocchio” de Leviedelfool) ricordo un applauso infinito. Ma non era solo per il bellissimo lavoro fatto da Simone Perinelli, c’era qualcosa in più e lo vedevi negli occhi degli spettatori. Forse erano gli occhi di chi si era dimenticato cosa significasse provare e condividere qualcosa. 

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Devo dire che non abbiamo cambiato direzione. Da sempre il lavoro di Strabismi è incentrato su due vettori: il lavoro sul territorio e il sostegno e la promozione dei giovani artisti. Nel tempo abbiamo potenziato questo aspetto e da quest’anno abbiamo aggiunto un’azione rivolta al teatro ragazzi: StraBimbi Festival.

StraBimbi è frutto di un lavoro di molti anni sul territorio, infatti, proprio quest’anno l’istituto comprensivo di Bevagna-Cannara ha inserito nei patti formativi l’attività teatrale. Ciò significa che gli allievi e le allieve delle scuole medie e elementari della nostra città vivranno il teatro come attività curricolare. Ed insieme a questo importante traguardo, abbiamo potenziato anche il Festival Strabismi aumentando sia gli studi che andremo a selezionare da Bando, ma anche i premi messi a disposizione. 

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Come anticipato prima, quando ci siamo trovati in confusione, come suppongo tutti, con l’arrivo del primo lockdown, abbiamo avuto forte supporto da parte dell’amministrazione del Comune di Cannara. Sempre pronti a confrontarsi con noi suggerendo possibilità e sostenendoci nelle nostre scelte.  

Lucia Guarino per il progetto Emergenze Artistiche a Strabismi Festival

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico? 

Una prima strategia fu quella di andare ad abbassare quanto più possibile i costi dei biglietti. Sapevamo benissimo che molte persone avevano perso il lavoro, tante vite si sono dovute riorganizzare o reinventare e per far si che il teatro continuasse ad essere di tutti, abbiamo deciso di realizzare un festival con biglietti al costo simbolico di due euro e concerti gratuiti. 

Una seconda azione che non definirei strategica, ma che ha aiutato molto a riportare il pubblico locale nel nostro teatro fu quella di dedicare il festival del 2020 agli artisti Umbri. Abbiamo pensato solamente che in una scena teatrale umbra ormai affermata a livello nazionale e che anche gli artisti a noi vicini, esattamente come tutti gli altri, avevano vissuto lo stop totale dell’attività, quindi prima di riaprire “i confini” abbiamo deciso di ripartire dalle nostre radici.  

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

La pandemia è alle spalle. Si parla già da tempo di endemia, il covid sarà parte della nostra vita quotidiana, o almeno così sembra da quel che dicono gli esperti del settore. Io mi occupo di altro e più che notare l’assenza degli “stati di eccezionalità legati alla pandemia” mi preoccupo perché questa situazione d’emergenza non ha portato a nessun miglioramento per la nostra condizione di lavoratori dello spettacolo. Avevamo un’occasione, la macchina si era fermata nostro malgrado ed era il momento di fare una bella revisione, cambiare pezzi e ripartire meglio di prima. Per esempio mi chiedo, perché non si è fatto o non si sta facendo un lavoro per adeguare la nostra intermittenza (al momento i lavoratori dello spettacolo devono utilizzare la Naspi, strumento del tutto inadeguato) sul modello francese o sullo Lo statut d’artiste belga? 

I sindacati lottano per questo, ma quando dal Palazzo dicono che i soldi non ci sono è come quando la mamma da piccolo ti lasciava piangere perché tanto prima o poi avresti smesso di fare i capricci. Visto il periodo, per vedere quanto questi soldi “non ci sono” andate a vedere l’investimento italiano nell’industria bellica e quello nel settore culturale. 

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Credo di aver già risposto nella precedente domanda. Sicuramente sento la costante mancanza di tutela per il teatro emergente ed il troppo spazio a nomi televisivi nelle stagioni. Prendo in prestito le parole di Massimiliano Civica che descrive molto bene la maggior criticità di ciò che abbiamo ora: 

“…Lo Stato finanzia il passivo dei Teatri Pubblici proprio perché devono produrre arte e innovazione, che comporta un rischio economico di passività: quando producono spettacolo “biecamente” commerciali stanno quindi tradendo il loro mandato pubblico…”

Guardiamo le stagioni dei teatri nazionali e Tric e vediamo quanti non fanno questo tipo di programmazione. Se solo ci fosse un minimo di attenzione e di interesse nel far circuitare un’arte che potremmo definire “rischiosa” probabilmente non ci accontenteremmo più e si rimetterebbero in discussione certe posizioni. 

CHI SIAMO

L’obiettivo di Strabismi Festival è la promozione e il sostegno di giovani artisti attraverso un percorso strutturato di residenze e tutoraggio artistico. Nel cuore della Grande Madre Umbria, a Cannara, Strabismi Festival ogni anno ospita artisti da tutta Italia creando un momento di incontro dedicato alla condivisione e allo scambio. Con un’attenzione particolare per gli artisti emergenti, Strabismi è un festival creato da giovani, rivolto ai giovani.

https://www.strabismi.com/
Teatro Akropolis

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO AKROPOLIS

Per la tredicesima intervista di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Bologna verso Genova per incontrare Teatro Akropolis sotto la cui sapienti mani prende forma anche il Festival Testimonianze, Ricerca, Azioni. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Carlo Sini La parte maledetta

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Lo spazio di Teatro Akropolis non è solo una sala teatrale, ma anche il luogo dove tutte le attività creative della compagnia hanno la loro sede. Non si tratta solo della produzione degli spettacoli, ma di tutte le iniziative di ricerca e di formazione che costituiscono la nostra attività permanente. L’impossibilità di utilizzare lo spazio a causa delle restrizioni che sono state imposte si è sommata alle difficoltà già in atto a causa dei lavori di ristrutturazione che hanno interessato il teatro. La produzione artistica e lo spazio, che abitualmente sono strettamente legati, si sono forzosamente allontanati, e le attività di produzione e di formazione si sono trasferite in spazi diversi, vicini al teatro ma separati. Non solo l’aspetto logistico si è dovuto adattare a luoghi diversi, ma anche il lavoro per la scena, rivedendo le modalità e le procedure finché è stato possibile, e rinunciando al lavoro con gli attori quando è diventato inevitabile. L’unico aspetto della nostra attività che è sfuggito alle restrizioni e ai divieti è stato quello dedicato alla formazione, e la nostra ricerca si è concentrata proprio lì. Il lavoro degli attori di Akropolis con i bambini e i ragazzi del quartiere è cresciuto in questi lunghi mesi fino ad arrivare a coinvolgere un migliaio di alunni e studenti. La possibilità di continuare a lavorare sui principi che entrano in gioco anche negli spettacoli ci ha consentito di non fermarci definitivamente ma di mantenere vivo il fuoco dei temi e dei problemi che li ispirano.

Teatro Akropolis Laboratori

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Quando l’accesso alla scena è sostanzialmente negato l’unica possibilità che si prospetta per continuare a lavorare è quella di spostare il processo creativo su un altro piano. Il lavoro con gli attori che noi conduciamo prende le mosse da una approfondita elaborazione teorica, che si sviluppa attraverso un’elaborazione condivisa di immagini e di itinerari di pensiero. Molto spesso questo aspetto letterario della creazione non si concretizza in immagini che compaiono direttamente sulla scena, ma costituisce un repertorio di materiali che rimangono latenti. Su questi contenuti abbiamo lavorato, rielaborandoli attraverso un linguaggio differente rispetto a quello delle arti performative, quello del video. Nasce così il progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, un ciclo di film dedicati ad alcune delle figure più significative della scena contemporanea proprio in riferimento al loro personale percorso, che ha portato a un punto critico alcuni temi riferiti alle problematiche che sorgono quando si affronta la scena e la performance. Il titolo si riferisce proprio a quella parte del lavoro che non compare nell’opera, che nel processo estetico è stata ripudiata ma non rinnegata. I titoli finora realizzati sono Paola Bianchi, Massimiliano Civica, Carlo Sini. La ripresa delle attività teatrali ha portato con sé l’inizio di un nuovo lavoro per la scena, ma allo stesso tempo stiamo lavorando ad un nuovo titolo per la produzione cinematografica. Per quanto riguarda la nostra attività organizzativa abbiamo dovuto affrontare la chiusura della sale proprio pochi giorni prima dell’edizione 2020 del festival Testimonianze ricerca azioni. Era un periodo estremamente confuso e ci siamo sentiti in dovere di prendere posizione contro la pratica, che si stava diffondendo, di sostituire lo spettacolo dal vivo con spettacoli in streaming o con registrazioni video delle performance. Abbiamo proposto un’edizione del festival interamente digitale, che rispettasse le date e i luoghi dove da programma erano previsti gli spettacoli. In diretta streaming abbiamo invitato gli artisti ad un tavolo virtuale di confronto perché raccontassero la loro poetica, la loro ispirazione, le inquietudini profonde che ispirano il loro lavoro, mentre noi ci collegavamo dalle sale vuote che avrebbero dovuto accoglierlo. È stato un successo e la nostra proposta è stata accolta con il riconoscimento del Premio Hystrio Digital Stage.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni hanno mantenuto vivo il loro interesse per il progetto di Teatro Akropolis, infatti il periodo di difficoltà ha coinciso con il proseguimento dei lavori di ristrutturazione della sala, che a breve verrà inaugurata e ci consentirà di rilanciare con forza il nostro progetto artistico e curatoriale. Inoltre il Comune di Genova ha messo a nostra disposizione una sala del Teatro Nazionale permettendoci di realizzare la tredicesima edizione del nostro Festival Testimonianze ricerca azioni che nel 2021 è tornato in presenza, anche se non a Teatro Akropolis. Anche Palazzo Ducale ha confermato il suo sostegno alle nostre iniziative ospitando la quarta edizione del convegno internazionale sulla danza butoh e gli spettacoli che lo hanno accompagnato.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Il tema del pubblico è uno di quelli più sensibili in questo periodo di crisi, la riapertura dei teatri non ha coinciso con un ritorno del pubblico in sala, come una certa narrazione invece ci ha raccontato. Il pubblico è spaesato, la capienza massima delle sale che viene modificata a brevi intervalli, contribuisce a diffondere un clima di incertezza. L’ultima edizione del festival ha avuto un’ottima risposta di pubblico, ma una buona affluenza non è un dato che possa considerarsi stabilizzato. È ancora più importante, quindi stabilire e mantenere un legame privilegiato con il proprio pubblico, in modo da creare quel senso di comunità che faccia del teatro un luogo familiare, dove andare senza timore. Per far questo è importante creare un canale di informazione sempre aperto, attraverso i social ma non solo. Una buona parte del pubblico si è fidelizzato anche grazie ai rapporti con il territorio, attraverso i laboratori per le scuole, per esempio, che sono un veicolo prezioso per ribadire la presenza dei un teatro e della sua attività e per creare curiosità e interesse per le sue proposte.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Che sia riconosciuto o meno lo stato di eccezionalità non è più reversibile. è in atto un cambiamento molto profondo nelle abitudini del pubblico e nella percezione della fruizione culturale. Uscire di casa per andare a teatro non sarà più come prima, non sarà più un gesto neutro. È ormai un atto politico, animato dalla consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità, dall’idea di sostenere la vita di un luogo e di un’attività. Ma può diventare anche un gesto che è meglio evitare, può diventare qualcosa a cui abdicare, magari nel nome della sicurezza e dell’integrità personale, o magari perché la cultura viene vista come un lusso da cui è preferibile stare alla larga.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Un tema che non è stato affrontato è quello della distinzione delle discipline. I linguaggi artistici ammessi ad essere finanziati sono espressione di una suddivisione per specialismi che porta ad una classificazione molto convenzionale. Tutte le spinte delle scene indipendenti, tutti gli impulsi che vengono dai contesti in cui si lavora con uno spirito di ricerca, fino a costituire autentiche esperienze di laboratori condivisi da artisti che si esprimono con linguaggi differenti, sfuggono inevitabilmente alle categorizzazioni imposte dei parametri ministeriali. In particolare la distinzione delle arti performative per la scena in danza e prosa è lo specchio di un punto di vista che esclude gli aspetti più significativi dell’innovazione dei linguaggi performativi. La conseguenza di questa lettura della scena contemporanea è che i sostegni più impostanti vanno ad alimentare le realtà più legate ad una estetica conservatrice.

CHI SIAMO

Teatro Akropolis da oltre dieci anni è un luogo dedicato alla ricerca artistica, all’elaborazione e alla condivisione dei contenuti che innervano e accompagnano l’atto creativo, all’attenzione rivolta al pensiero degli artisti prima ancora che all’esito dei loro lavori. Teatro Akropolis è anche un gruppo che conduce un lavoro ispirato ai temi dell’origine dell’atto teatrale, a partire dalle pagine di Nietzsche, e alla loro tematizzazione sulla scena contemporanea.

Babilonia Teatri

IMPRESSIONI DI SETTEMBRE: TODI OFF E CASTEL DEI MONDI

Teatro non è solo un arte, è prima di tutto un luogo, quello da cui si guarda. Nel consumo frettoloso, nel vortice affollato di eventi, si dimentica un aspetto fondamentale del teatro: la contemplazione del luogo, il lasciarsi impregnare dallo spirito che anima il territorio. Non parlo quindi solo dell’edificio-teatro ma delle città, dei borghi, delle province, spesso molto periferiche rispetto a ipotetici centri d’attività e di potere, e quindi portatrici di dinamiche, problematiche e relative pratiche risolutive spesso originali, da studiare e capire. La consuetudine bulimica da ingordi ci porta invece a guardare e passare senza veramente vedere, e soprattutto capire, come turisti in crociera.

Se vogliamo recuperare un senso e una funzione al teatro, dobbiamo cominciare dalle piccole cose: dalla lentezza e dall’indugio per dar riposo all’occhio invece di saturarlo con bombardamenti di immagini senza soluzione di continuità. Il teatro è arte antica, necessita, nella creazione così come nell’osservazione, di tempo, bene sempre più messo a rischio in quest’era di capitalismo crepuscolare.

Questa volontà di recupero del tempo, sia di visione, che di chiacchiera, di conoscenza, di discussione anche accesa, è battaglia tutt’altro che agevole perché tutto congiura a favore della velocità, del frettoloso voltare pagina per rincorrere il prossimo evento, più fresco quindi più buono e bello solo perché più recente. Sembriamo tutti rincorsi dai Langolieri di Stephen King, creature fameliche divoratrici del passato prossimo. Siamo ormai esseri privi di storia.

La fretta ci fa divorare l’evento e trascurare il luogo. Vediamo tutto come avulso da un contesto, come se l’opera non si nutrisse di ciò che la circonda, soprattutto quando in trasferta, lontana da un pubblico amico e consueto. Per osservare, frequentare e conoscere ci vuole tempo. Come si può conquistare un pubblico in una sola sera? Che relazione si può trovare in così poco tempo? Questo vale certo per l’artista, ma anche per il critico che deve in qualche modo restituire quanto vede.

Un esempio delle disfunzioni generate dalla brevità congenita delle programmazioni e delle tenute dei cartelloni è La febbre di Veronica Cruciani da un testo di Wallace Shawn (drammaturgo e noto attore di tanti film di Woody Allen e Luois Malle) per l’interpretazione della sempre ottima Federica Fracassi.

Wallace Shawn

Il testo di Shawn è un lungo monologo, una riflessione autoaccusatoria sui privilegi di una certa casta benestante, democratica, colta, molto spesso cieca di fronte ai propri privilegi ottenuti grazie allo sfruttamento di molta parte del mondo. Una drammaturgia politica, forte, difficile da ascoltare per i toni appunto febbrili e ostica per le questioni che pone alla coscienza del pubblico. Il primo allestimento degli anni ’90 prevedeva un semplice reading in appartamento. In seguito il regista Robert Icke lo allestì in una suite di lusso al May Fair Hotel per 25 persone fornite di tutti i comfort, dalle bevande ai cioccolatini, il tutto per far immergere il pubblico stesso in una atmosfera di privilegio. Forse un po’ troppo. Come si dice in cucina: less is more. Veronica Cruciani opta per una soluzione più sobria e nello stesso tempo drammatica: un lussuoso bagno di camera d’hotel, inclinato paurosamente verso il pubblico. Un water dove vomitare, una vasca dove fare un bagno. Sul finestrone in fondale, anch’esso inclinato e aggettante, continue proiezione sfumate del corpo della Fracassi. L’attrice al centro della scena a intessere il proprio flusso di coscienza, sempre più piretico e convulso, alla ricerca delle complicità più sepolte, compiacendosi di risvegliare il sopito senso di colpa. Il problema è che la strada è senza uscita a meno di non rovesciare il sistema su cui si basa il sistema di privilegi di cui noi tutti siamo partecipi, e nessuno sembra, a oggi, disposto a scuotere l’albero dalle fondamenta,

Federica Fracassi In La febbre

Un allestimento dunque importante, ricco di questioni scomode, affrontato da una grandissima attrice ma in sala per una sola sera. Non è certo colpa del Todi Festival. Difficilmente i festival possono permettersi una tenuta di più di un giorno. Veniamo però a sapere che oltre a qualche data al Teatro India quest’autunno, un lavoro di questa portata non ha, per ora, altre piazze previste. Non pare un’assurdità? Un tale investimento creativo e di denaro per neanche dieci date? Come fa a crescere un lavoro con così poche repliche? Come fa a influenzare un dibattito se solo pochi lo vedranno? E come è possibile rientrare nell’investimento, ora che tanto si parla di impresa culturale, laddove viene impedito dal sistema stesso un rientro di cassa?

Questi sono alcuni dei temi di cui si è parlato proprio a Todi, nel convegno Se non ora, quando? condotto da Viviana Raciti durante il Todi Off diretto da Roberto Biselli. Critici, operatori, artisti, rappresentanti di categoria, titolari di progetti di residenza si sono confrontati in un pomeriggio di discussione. Ovviamente non basta parlare per poche ore. Si deve continuare il confronto e soprattutto ricercare un’unità d’intesa nello spettacolo dal vivo al di là dei corporativismi. Si deve lottare per ottenere un sistema equo non solo a livello contrattuale ma anche nel rispetto delle opere e dei repertori sempre più fagocitati dalla fretta di proporre novità. Solo essendo uniti si potrà confrontarsi con la politica in maniera efficace. Divisi non potremo che perdere terreno ogni giorno di più. E il franare costante è sotto gli occhi di tutti da un bel po’, ma si preferisce festeggiare per l’inserimento nel FUS o per l’ennesimo inutile premio.

Nel proseguire queste brevi riflessioni ci spostiamo da Todi direzione sud, verso Andria, sede del Festival Castel dei Mondi, diretto da Riccardo Carbutti. Andria è città molto viva, il centro animato e vissuto da giovani e meno giovani. Il Festival Castel dei Mondi si inserisce organicamente in questo vivace tessuto cittadino. Gli spettatori sono numerosi, grazie a Dio non di soli addetti ai lavori, ma di appassionati e curiosi di ogni fascia d’età. Un pubblico caloroso, partecipante e attento. Di fronte a Romeo e Giulietta. Una Canzone d’amore di Babilonia Teatri che oltre alla coppia Enrico Castellani e Valeria Raimondi vede in scena Ugo Pagliai, Paola Gassman e Simone Scimemi, questo pubblico, per una volta vivo davvero, ha percepito la grande umanità insita nel progetto e ha risposto con un sincero entusiasmo che da molto non vedevo in teatro.

Merito senz’altro di Babilonia Teatri che ha saputo restituire alla tragedia Shakespeariana tutta la sua bruciante vitalità al di là degli intellettualismi, dei dotti commentari, del marinettiano verminaio di glossatori. Romeo e Giulietta sono portati in scena da due vecchi attori Ugo Pagliai e Paola Gassman, e il racconto della loro relazione sentimentale lunga quasi mezzo secolo rivela l’amore dei due ragazzi. E così le parole di Shakespeare non sono solo poesia alta, ma parole che descrivono la quotidiana passione, aldilà degli anni e dei cliché. Fondamentale la presenza di Scimemi, mago e comico di grande levatura, la cui azione, da fool vero e proprio, crea i giusti stacchi ritmici ed emotivi, legando il sorriso alla commozione. Il pubblico ha capito e ha donato le proprie emozioni al palcoscenico che se ne è nutrito ricostruendo, una volta tanto, quel circolo virtuoso che fa grande l’arte dal vivo, dove l’opera diventa carne ed emozione e s’accresce nello scambio tra attori e spettatori.

Romeo e Giulietta Babilonia Teatri

Le istituzioni cittadine paiono essere presenti e vicine al festival e all’organizzazione, soprattutto la sindaca sempre partecipante, resta però purtroppo un calo dei sostegni e i finanziamenti risultano non adeguati per un evento che ha una storia di venticinque anni e una programmazione importante votata alla scoperta di giovani talenti nel corso del tempo (Ricci/Forte sono forse l’esempio più luminoso). La politica, locale, regionale o ministeriale che sia, ha il dovere civico di sostenere, gli eventi che hanno dato prova di costruire comunità e cultura per più di un ventennio. Mantenere il tessuto sociale costituito con tanta fatica è un imperativo di cui la politica in questo paese pare essersi dimenticata.

Il direttore artistico Riccardo Carbutti oltre alla programmazione, in cui quest’anno mancano gli stranieri proprio per la diminuzione dei fondi e per le restrizioni pandemiche, ma in cui spiccano Babilonia, Beradi/Casolari, Equilibrio Dinamico, Cantieri Koreja, Massimiliano Civica, ha voluto promuovere dei momenti di dibattito e confronto proprio per affrontare le criticità che attanagliano il sistema da ben prima del Covid e che quest’ultimo ha solo aggravato.

Di particolare interesse la proposta di costruzione di un’etica teatrale proposta da Andrea Cramarossa e Federico Gobbi de Il Teatro delle Bambole. Durante l’incontro è stato presentato il libro L’edera, per un’etica rampicante dello spettacolo, edito da Edizioni Corsare, pubblicazione che contiene parecchi spunti di riflessione su cui il comparto dovrebbe ragionare più attentamente. Il punto fondamentale, all’avviso di chi scrive, è la messa in rilievo del principio di responsabilità individuale: ogni scelta ha delle conseguenze che ricadono su tutti. Da qui la riflessione in cui un principio di sana etica lavorativa è; non prendere decisioni le cui conseguenze nefaste ricadano su tutto il comparto. La capacità di dire no di fronte a condizioni umilianti di lavoro sia a livello tecnico che contributivo è la chiave di volta. Un no che dovrebbe essere detto all’unisono per cancellare dalla lavagna i comportamenti abietti che continuano a perpetrarsi nel mondo dello spettacolo. Purtroppo perdurano proprio perché si accetta nonostante tutto, persino le offerte al ribasso pur di lavorare. Ovviamente non è solo questo. Gli aspetti etici del lavoro sono anche quelli comportamentali, di discriminazione di genere, la parità di contribuzione tra uomini e donne, e molto altro ancora. Immensa è la mole di lavoro da fare. C’è da ragionare per agire, di concerto, non divisi, per acquisire forza di fronte a una società che sta mettendo all’angolo i valori umanistici rispetto a quelli meramente tecnici.

Intrigante la riflessione di Alberto Oliva, regista milanese e giornalista, autore del libro Il teatro al tempo della peste. Modelli di rinascita. edito da Jaca Book. Oliva nel suo libro analizza in una prima parte le innumerevoli pesti che hanno chiuso i teatri nel corso della storia, confrontando ciò che stato con ciò che sta avvenendo; nella seconda parte propone invece una nuova alleanza con la politica per creare un teatro volto alla rinascita. La tesi è che senza il sostegno della politica, la sola forza dell’arte non basti a creare i presupposti per una vera rinascita. Oliva propone quindi un rinnovato pensiero politico sostenuto da quello artistico. La sua fiducia è certo contagiosa benché sia difficile trovare oggi nel panorama italiano un/a politico/a che faccia minimamente sperare in un pensiero illuminato riguardo agli affari culturali. Di certo Franceschini è figura quando più distante possibile da Elisabetta I d’Inghilterra. Forse è il momento di pensare ad aiutarci da soli trovando alternative all’appoggio istituzionale. Forse si deve tornare a essere carbonari, ritrovando quel senso di utopismo volto alla riforma della società tutta che in questi anni è mancato. Come diceva Eugenio Barba, nato in terra di Puglia, il teatro è “solitudine, mestiere, rivolta”.

Antigone

Sulla necessità dell’ascolto: Antigone di Massimiliano Civica

Antigone, ultima fatica registica di Massimiliano Civica, si presenta al pubblico come l’antico dio Proteo così come appare a Menelao nell’Odissea: un insidioso coacervo di immagini che solo se tenuto ben saldo a terra, e dopo aver resistito a tutte le trasformazioni e metamorfosi, dirà la verità. Apparentemente semplice nel suo manifestarsi eppure piena di molte possibili chiavi di lettura.

La prima ci è consegnata dal regista stesso nella parole da lui scritte nel programma di sala: Creonte e Antigone sono più simili di quel che si pensa, “condividono la stessa natura, che è poi la loro colpa”. Entrambi sono rigidi nelle loro posizioni, non ascoltano la voce dell’altro e questa inflessibilità tracotante li spinge allo schianto.

Massimiliano Civica ci invita e ci consiglia inoltre a collocare il capolavoro sofocleo nel suo tempo, in quell’Atene del V secolo fulgida di splendore ma anche luogo di accesi dibattiti politici, filosofici e religiosi. Seguendo il suggerimento vediamo che l’antagonismo irrisolvibile tra Creonte, reggitore di Tebe che vieta la sepoltura di Polinice in quanto nemico della città, e Antigone, sorella del defunto, decisa a dare solenni esequie al fratello, nasconde un conflitto ben più profondo tra l’etica degli dei olimpici e quella degli antichi dei. I primi sono luminosi, estranei alla morte, anzi insofferenti alla sua presenza. Gli olimpici sono dei il cui principio informatore è il maschile. Gli antichi, i titani ctoni, sono divinità della terra, figli di Gaia che senza conoscere maschio genera Urano. Essi sono discendenti e custodi del principio femminile. Le antiche divinità difendono l’immutabile ordine naturale contro cui nulla si può opporre. Non è un caso che le posizioni in campo siano proprio tenute da Creonte, il legislatore, contro Antigone, la donna che oppone le leggi perenni del sangue.

Incontriamo la stessa contesa nell’Orestea: contro il delitto di Oreste si ergono le Erinni, divinità femminili, figlie della Notte. È Atena a risolvere il conflitto tramite una riconciliazione con le Furie alla fine trasformatesi in Eumenidi.

Antigone dice più e più volte di essere votata ai morti, di aver lavato i corpi del padre e della madre, e infine per aver seguito le leggi della pietà curandosi delle spoglie mortali del fratello, viene ingiustamente punita. La vita viene generata della terra e torna alla morte nel suo grembo. Il ciclo dell’esistenza si chiude tra le sue braccia. Ma la figlia di Edipo, il quale ignaro è pur un violatore delle stesse leggi da lei difese, ha violato la legge che voleva punire l’aggressore della città. Eppure il popolo simpatizza con i suoi sentimenti mugugnando contro Creonte. A chi si deve obbedire? Alle leggi degli uomini? O a quelle della natura inviolabile? Chi ha colpa se pur v’è una colpa? E poi sottilmente nascosto l’ultimo interrogativo: il femminile e il maschile devono soggiacere uno all’altro o possono convivere in accordo?

Sofocle e così Massimiliano Civica sembrano suggerire quella pacificazione apparsa al termine dell’Orestea: il riavvicinamento tra la legge antica e quella nuova. Creonte e Antigone sono portatori e vittime di due mentalità inconciliabili, sorde e ottuse alla fluidità e per questo subiranno entrambi il dolore e la perdita, ma oltre il loro orizzonte è possibile l’ascolto reciproco.

Questa rilettura di Antigone offre anche altri spunti di riflessione. Un secondo contesto appare da scene e costumi. Fin dall’entrata in sala si scorge sulla destra in proscenio il manichino del defunto Polinice. Sembra vestito dell’uniforme della Repubblica di Salò. All’entrata di Creonte e dell’Araldo li vediamo indossare uniformi partigiane, con il fazzoletto rosso delle Brigate Garibaldi. Si palesa dunque un’altra opposizione, ancor oggi inconciliabile di un movimento di resistenza che si stenta a chiamare guerra civile. Lo scontro fratricida tra Eteocle e Polinice si trasforma in pagina dolorosa di storia patria ancora divisiva, ferita tutt’altro che sanata, la quale si proietta sul nostro presente. Il non capirsi e non voler ascoltare le posizioni altrui diventa interrogazione politica al nostro presente attraverso il nostro passato. È ora di cominciare ad ascoltarsi prima che la tragedia si compia.

Ultima riflessione: l’interrogazione non resta sulla scena ma viene porta e posta al pubblico. Gli attori si rivolgono direttamente alla platea come testimone e come agorà. L’occhio che guarda deve essere responsabile. Viene direttamente interpellato a decidere, a riflettere, a scongiurare l’abisso. Si instaura inevitabilmente un dialogo, volenti o nolenti, sui fatti in questione. Non si può far finta di niente. Come afferma chiaramente Fenoglio ne Il partigiano Johnny, si deve scegliere da che parte stare ma, e qui forse vi è qualcosa in più, si deve anche andare alla ricerca di un superamento dell’impasse.

Massimiliano Civica ci conduce dunque dentro a un universo di senso che apre e solleva questioni critiche oggi come allora. Attraverso una messinscena che si avvale di grandi attori, da Oscar de Summa nella parte di Creonte, Monica Piseddu è Antigone e il Corifeo Marcello Sambati, e tramite un minimalismo che sottrae il corpo e riduce il movimento ai minimi termini, riafferma il ruolo originario del teatro come luogo in cui si dibattono e risolvono le crisi che attraversano e affliggono la comunità. Un teatro politico nel senso di coinvolgimento della polis in un comune dibattito. Nell’attuale desolazione in cui versa il confronto politico, in un momento in cui le posizioni si incancreniscono in pre-giudizi e pre-concetti, il richiamo all’ascolto è oggi più necessario che mai. E in questo offrirsi come strumento di comprensione e conciliazione il teatro forse ritrova e riscopre una funzione necessaria.

Visto al Teatro Astra di Torino il 14 dicembre 2019

I Sacchi di Sabbia

SPECIALE INEQUILIBRIO: Andromaca de I Sacchi di Sabbia

Nasce il 4 luglio, o forse sarebbe meglio dire rinasce, Andromaca de I Sacchi di Sabbia diretti da Massimiliano Civica. Debutta in prima nazionale a Inequilibrio XXI questo secondo capitolo della riscrittura dei classici greci che segue I dialoghi degli dei da Luciano di Samosata.

In Andromaca de I Sacchi di Sabbia la tragedia volge al comico. In una passata intervista Massimiliano Civica mi disse che il tragico in fondo è ottimista perché dopo la crisi ristabilisce un ordine mentre il comico, dietro la risata, nasconde un cinico pessimismo.

In Andromaca credo che questo sia ben evidente. La vedova di Ettore, dopo aver visto uccidere il marito e il figlio, bruciare la sua città, dopo esser stata tradotta schiava a Ptia, aver subito violenza da Neottolemo e avergli dato un figlio, ecco che viene minacciata di morte da Ermione, figlia di Menelao e di Elena, vera sposa del figlio del Pelide. Andromaca per evitare la morte si stringe alla statua di Teti, madre di Achille e quindi per forza di cose, dea parente, per invocare protezione.

Già solo nell’elenco delle disgrazie della povera Andromaca, e nella citazione delle parentele si può notare una mole impressionante di materiale comico, dalle corna agli strani intrecci parentali.

Due elementi sono assenti: la divinità (Teti è invocata ma non partecipa) e il destino ineluttabile. Questa di Andromaca è vicenda umanissima dove non Ananke tesse l’intreccio quanto le gelosie, i rancori, le passioni mal riposte.

Altro assente illustre è Neottolemo perché già morto ma nessuno lo sa. Nel consulto con l’oracolo viene ucciso in un imboscata. Gli strazi che avvengono a Ptia risultano inutili alla luce di questa notizia.

Il vano agire è il sale del comico. Le umane vicende, vanitas vanitatis, risultano vacui fantasmi alla luce fredda della realtà. La risata va a braccetto con la verità.

Se ne I dialoghi degli dei l’operazione di riscrittura messa in opera da I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica sembrava un po’ scolastica e didascalica, nei confronti del testo Euripideo si assiste all’emersione di un’immagine del tragico insolita. Il comico non lo svilisce ma ne mostra un lato nascosto. Laddove la tragedia, attraverso il pathos dell’ineluttabilità del destino e della colpa da espiare, rimanda a un cielo che può caderci in testa in ogni momento, il comico sgretola la fatalità con l’inutilità e vacuità dell’umano agire/patire.

Il riso squarcia il velo di serietà di cui ammantiamo il nostro dolore, e ci sussurra maliardo che tutto passa e tutto scorre e il più delle volte si fa i conti senza l’oste. Neottolemo è già morto. Tutto quel che accade potrebbe anche non accadere e niente sarebbe scosso di un millimetro.

L’uso del dialetto, toscano e napoletano, aumenta l’efficacia delle battute anche se qualche volta si inciampa in un facile boccaccesco. Massimiliano Civica è uomo di teatro che conosce e ama la tradizione farsesca e popolare, ne conosce i meccanismi e i ritmi, e li usa con efficacia.

Andromaca risulta quindi uno spettacolo di comicità intelligente, colmo di meccanismi farseschi tratti da una tradizione scenica che è propria del teatro italiano popolare, dai ludi satirici alla commedia dell’arte fino all’avanspettacolo.

Al di là degli esiti, più o meno riusciti, di questo dittico sui classici greci, I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica indicano una strada efficace per una rivalutazione del materiale comico della tradizione e una modalità di riscrittura che non banalizza il classico ma lo snellisce di un linguaggio non più nostro.

In una certa maniera, con le dovute distanze, l’operazione scenica ricorda Mejerchol’d quando cercò di recuperare i lazzi, i giochi, le battute della commedia dell’arte per farne materiale da attore da usare per la scena contemporanea. Tali materiali tecnici sono bagaglio imprescindibile per l’attore, non solo di teatro popolare, e sono strumenti efficacissimi e soprattutto stranianti, lontani da un’interpretazione mimetica.

Come la violenza clownesca, pur non essendo vera, evoca tutta la terrificante fisicità archetipica, così il comico popolare ha un potere disvelante sulla realtà. Dietro una risata, se coltivata con strumenti intelligenti e sapienti, si nasconde sempre un pensiero filosofico.

Attilio Scarpellini

INTERVISTA AD ATTILIO SCARPELLINI: per uscire dalla fortezza vuota.

Attilio Scarpellini è critico, saggista e autore, insieme a Massimiliano Civica, de La fortezza vuota sulla perdita di senso del teatro e sulle gabbie legislative che imbrigliano produzione e distribuzione delle arti sceniche nel nostro paese.

L’ho incontrato per un’intervista qualche giorno dopo quella con Civica per tornare a parlare con lui di questi temi e cercare, per quanto possibile, di scoprire le vie per uscire da un’impasse che da troppo tempo grava sul teatro italiano.

Enrico Pastore: Il teatro, ma potremmo dire anche la danza, sono oggi afflitte da molti problemi. Mi piacerebbe provare ad analizzarne alcuni con te. Cominciamo da una parola d’ordine che oggi tutti sbandierano come fosse il graal: audience engagement. Il pubblico da portare a tutti i costi a teatro senza veramente indagare il motivo della sua latitanza. Non ti sembra che si cerchi in tutti i modi di creare un bisogno indotto più che cercare di incentrare il discorso sull’opera, su che tipo di lavori vengano proposti, sui suoi livelli di eccellenza, sulla qualità e sui tempi della ricerca?

Attilio Scarpellini: C’è senza dubbio un eccesso di enfatizzazione su questa supposta latitanza, assenza, mancanza di pubblico. I numeri parlano abbastanza chiaro. C’è sicuramente più pubblico oggi nelle sale teatrali, che sono aumentate, di quanto ce ne fosse negli anni ‘60 e ‘70, che sono il modello di riferimento per indicare una stagione felice del teatro italiano e in particolare del teatro di ricerca.

Al teatro mancano dei risuonatori nella società. Mancano quegli intellettuali che una volta fungevano da cassa di risonanza dei grandi eventi teatrali e che i giornali consideravano notiziabili, mentre oggi, come è noto, da Paolo Mieli in poi, la recensione è considerata come una forma di opinionismo. La mia impressione è che questa tanto spasmodica ricerca di pubblico, che si apre anche a un tentativo di formare il pubblico – e non so bene per quale ragione il pubblico dovrebbe essere formato come se il teatro fosse qualcosa di alieno o una lingua che va spiegata quando è qualcosa inscritto nelle origini dell’esperienza culturale umana -, sia un offuscare il vero problema che riguarda il rapporto e la relazione mancante tra il teatro e quell’entità veramente assente che è la società.

Ronconi prima di morire rilasciò un’intervista in cui disse: ”forse il teatro ha ancora bisogno della società, ma forse la società non ha più bisogno del teatro”. Questo secondo me è il vero problema che non viene affrontato con il risultato che la ricerca continua di pubblico assomiglia più che altro a una ricerca del consenso che fa capo a organismi in crisi come i poteri rappresentativi.

Enrico Pastore: Quello che latita in questo meccanismo incappato tra artisti e pubblico non è forse una mancanza di ridefinizione delle funzioni della scena? O per meglio dire, l’emersione delle esigenze che spingono l’artista a incontrare il pubblico, e il pubblico a frequentare la scena?

Attilio Scarpellini: Questo secondo me è verissimo. È vero che il pubblico che si cerca oggi non è più quello di ieri. Oggi si cerca il pubblico della società di massa. Questo anche perché il teatro è stato marginalizzato dalla vittoria, che ormai si sta trasformando in vittoria malata, di quella che Guy Debord chiamava la società dello spettacolo.

Il teatro come forma è stato molto marginalizzato dall’emergere di forme spettacolari mediate e tecnologiche che hanno una capacità di trasmissione senza precedenti. Cercare il pubblico dentro quello appartenente alla società di massa significa implicitamente uccidere il teatro. Significa invitare il teatro a rifarsi agli standard della comunicazione spettacolare. Si schiaccia ancora di più il teatro sotto il calcagno del cinema, della televisione, del web. Tutto questo senza rendersi conto che le origini dell’ascolto teatrale sono molto più semplici e più profonde di quello che tendiamo a immaginare.

Enrico Pastore: Sì, hai ragione. E questa ricerca spasmodica di pubblico inoltre non indaga la natura dell’evento dal vivo. Lo si mette erroneamente a confronto con forme spettacolari mediate, dimenticandosi che il teatro, come la danza e la performance vivono dell’istante dell’incontro reale, in carne ed ossa, qui e ora.

Attilio Scarpellini: e in più le forme mediate non portano la consacrazione di un luogo. Quando Peter Brook diceva: “posso usare qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo teatro” non stava parlando di una casualità dello spazio teatrale. Al contrario stava dicendo: laddove io riesco a recintare uno spazio e a fare in modo che lì avvenga qualcosa, una trasformazione, lì il teatro continua ad esistere.

Il fatto che il teatro si veda soprattutto nei luoghi deputati alla sua rappresentazione, nelle sale con le poltrone rosse, non è che una storicizzazione di questo movimento. Senza dubbio il teatro resta uno degli ultimi luoghi in cui il corpo dello spettatore si incontra con il corpo del performer e dell’attore. Il teatro è innanzitutto un luogo di incontro e di riconoscimento, e la sua condizione è quella di essere presente, qui, adesso, in situ e de visu.

Enrico Pastore: Applicare le modalità di strumenti e mezzi mediati per classificare e misurare un’arte immediata, come hai detto precedentemente, non fa che uccidere il teatro.

Attilio Scarpellini: Sì, e questo quando moltissime forme artistiche nel momento in cui toccano la loro crisi, regrediscono verso la scena come sostenevano i vari odiatori del teatro. Basta pensare al successo della performance nelle arti visive proprio negli anni ‘60. Cos’altro è la performance se non un ritorno a quell’elemento originario che Claudio Morganti chiama: il teatrico. La necessità di questo elemento, che non è solamente e semplicemente corporeo, è molto più sentito di quanto non venga fatto credere al pubblico.

Enrico Pastore: Viviamo in un periodo di latitanza della politica in ogni campo e la cultura non è da meno. Oggi la politica culturale pare essere in mano alle fondazioni bancarie che tramite i bandi di finanziamento indirizzano le modalità di azione di artisti, teatri e festival. È corretto a tuo modo di vedere considerare l’azione culturale come impresa di cultura dove contano numeri e bilanci più che l’effettiva qualità dell’azione proposta?

Attilio Scarpellini: Io rimango legato, anche per ragioni anagrafiche, a un’idea di teatro pubblico che dal dopoguerra in poi ha fatto tutt’uno con l’idea di democrazia rappresentativa. Il teatro è stato legato all’idea di democrazia in Europa da una sorta di matrimonio cattolico. Infatti il teatro è entrato in crisi con la decadenza degli istituti rappresentativi e della cultura pubblica. Basta tornare a quel vecchio manifesto che scrisse Baricco su Repubblica tentando di introdurre una cultura più economicista dell’arte e di riposizionare i finanziamenti in quella che chiamava una nuova alfabetizzazione al moderno. Tra i vecchi strumenti il teatro era quello più colpito. E questo proprio perché il trasformare il teatro in impresa è una cosa che non è mai riuscita a nessuno neppure ai vecchi impresari novecenteschi.

Enrico Pastore: Uno dei maggiori problemi nella filiera produttiva nel teatro italiano è la mancanza di una vera distribuzione. Questo per tanti motivi a partire dai finanziamenti che privilegiano il sistema degli scambi formando un mercato chiuso e non reale. Così come la questione degli under 35 che appena superano la soglia di età diventano improvvisamente demodé. Quali sarebbero secondo te le azioni da fare per migliorare il sistema? Dove e in che modo si potrebbe agire?

Attilio Scarpellini: la prima azione da fare si trova a monte del problema, ossia riformare le norme, cambiare radicalmente l’organizzazione dell’impresa teatrale, se la vogliamo così definire, rendendo più centrale il ruolo e la presenza degli artisti rispetto a quella dei teatri stabili, ad esempio.

La mia impressione è che oggi, paradossalmente, nelle politiche teatrali ad essere penalizzato è quello che gli economisti chiamerebbero il core business che altro non è se non l’arte stessa. Oggi uno dei grandi paradossi prodotti dalla nuova legge è che gli attori o vengono scritturati o possono morire. diventano ostaggi delle produzioni e dei teatri stabili che spesso producono ma quando si arriva al momento della distribuzione non lo distribuiscono.

Il caso oggi di distribuzione di spettacoli bloccate benché annunciate è sempre più diffuso così come il caso di cancellazione di spettacoli dai cartelloni e dai programmi che erano stati stabiliti. Questo accade perché gli artisti non hanno voce in capitolo e non perché non abbiano rappresentanza. Il problema è proprio che gli artisti non vengono presi in considerazione come soggetti primari della produzione teatrale.

Quanto poi ai meccanismi di distribuzione, e so che il discorso sarebbe lungo e complesso, la mia impressione è che spesso ci siano spettacoli che non vengono distribuiti perché nessuno intravede la convenienza economica nell’operazione.

Enrico Pastore: Sono d’accordo. A mio parere nei termini dei bandi e dei finanziamenti e nei discorsi di politica economica e culturale legata al teatro si dimentica l’opera. Anche per quanto riguarda il discorso affrontato prima sull’audience engagement, se l’opera funziona l’engagement si fa da sé. Ricordo alla Biennale del 1999 quando lavoravo con il Theatre du Radeau di François Tanguy, alla prima serata di Orpheon la sala era piena a metà, l’ultima sera si dovette mandare via il doppio delle persone. il passaparola nei confronti di uno spettacolo meraviglioso aveva richiamato più pubblico di quello che si poteva ospitare.

Attilio Scarpellini: Hai detto la parola giusta, la parola che oggi nessuno vuole più pronunciare: opera. E questa può funzionare se viene sgravata da questa neoideologia che fa dei direttori artistici i veri soggetti e burattinai del teatro. Le opere sono offuscate dalle stagioni. Le opere non fanno che rientrare nelle stagioni che sono firmate dai direttori artistici. Viene da pensare che l’oggetto centrale non sia proprio più l’opera dell’artista quanto la rassegna del direttore. Un vero e proprio rovesciamento di quelle che dovrebbero essere le relazioni gerarchiche.

Enrico Pastore: In questi giorni è uscito un articolo di Porcheddu sul ruolo della critica oggi. In un mondo dove tutti possono dire la loro, e dove si chiede ai critici di formare il pensiero critico del pubblico dove e in che modo si può essere incisivi. Quale ruolo può assumere in questo panorama?

Attilio Scarpellini: Partiamo dall’idea fondamentale che il pubblico è già critico e non ha tutta questa necessità di essere formato. i critici avrebbero il dovere, e lo dimostra l’articolo di Porcheddu citando quei pezzi di Gramsci, il dovere di andare contro il pubblico per andare a prefigurarne uno diverso.

A Gramsci capitò nel momento in cui comprese che il pubblico della borghesia torinese non aveva capito il personaggio di Nora Helmer in Casa di bambola di Ibsen. Gramsci fece una cosa che se fosse fatta da un critico oggi, ossia scagliarsi contro il pubblico, verrebbe tacciato di lesa maestà.

La critica è, secondo me, una forma di contemplazione che si pone rispetto all’opera in una relazione direi di salvezza. Questo perché l’opera si pone sempre in una situazione di rischio. Non va dimenticato che in questa operazione la soggettività del critico è e resta, comunque sia, fondamentale.

Se vogliamo togliere alla critica il suo statuto come esercizio letterario della soggettività la uccidiamo. Certo può essere che la critica sia inutile, un qualcosa che serve solo a riempire le cartelle degli uffici stampa, ma resta il fatto che essa è nata con la funzione di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello presente in sala. Svolge in questo anche una funzione di memoria rispetto a un evento che è per sua natura precario.

Pensiamo ad Apocalypsis cum figuris di Grotowsky: in quante persone l’avranno effettivamente visto nel mondo? A essere ottimisti cinquantamila? Centomila? Se rapportiamo questi numeri a un film come Via col Vento che da quando è apparso in sala l’avranno visto miliardi di persone ed è tutt’oggi visibile, i numeri dell’opera di Grotowsky diventano minimi. E quindi cosa sarebbe stato di Apocalypsis cum figuris se non ci fossero stati quei critici che sono stati folgorati in Polonia, in Italia, ovunque sia stata rappresentata ? Ne resterebbe ben poco.

Massimiliano Civica

INTERVISTA A MASSIMILIANO CIVICA: per la rinascita di un teatro popolare

In occasione del debutto del suo nuovo spettacolo Belve al Metastasio di Prato (Dal 17 al 22 aprile) ho incontrato in questa intervista il regista tre volte Premio Ubu Massimiliano Civica.

Enrico Pastore: Parlando di Belve, tua ultima fatica: perché scegliere la farsa? E se è impossibile, come ormai si dice dall’inizio del Novecento, una rinascita del tragico mancando noi tutti di un destino che ci elegga, la farsa è la forma del tragico nella postmodernità?

Massimiliano Civica: Io e Armando Pirozzi abbiamo deciso di fare una fare per un gusto di sfida. Volevamo provare a fare uno spettacolo dove il pubblico ridesse molto. Ci eccitava provare a fare uno spettacolo comico mantenendo la struttura tradizionale della farsa, i colpi di scena, le entrate e le uscite dei personaggi, l’agnizione finale. Oltre a questo avevamo anche il desiderio di inserirci nella tradizione in quanto, in vari periodi della storia del teatro, alcuni grandi maestri come Mejerchol’d e Copeau, Leo De Berardinis e Carlo Cecchi son tornati alla farsa con un impulso quasi antiaccademico e antiavanguardistico per ritrovare un rapporto immediato e popolare con lo spettatore.

Non ti so rispondere se la farsa sia la forma del tragico concessa a noi nel postmoderno. Posso dire che il tragico in qualche modo ha sempre fiducia nell’umanità. chiunque faccia una predica, abbia un attaccamento morale, creda che bisogna interrogarsi sui valori è una persona positiva. Il comico invece, e soprattutto la farsa che del genere è la frangia più estrema, secondo me nasconde una totale sfiducia verso gli uomini. Secondo me l’autore farsesco quasi dice con livore: ma non vi accorgete che tutto questo è da piangere? La farsa è un meccanismo quasi nichilista in cui non ci resta che ridere, ridere, ridere. Anche questo aspetto ci affascinava.

Prima di tutto c’era la voglia di inserirsi in una tradizione. Io credo fortemente in un teatro dell’attore e la farsa ha rappresentato sempre il tempo dell’apprendistato e il banco di prova dei grandi attori. Penso ai Fratelli De Filippo, a Petrolini, a Totò, a Sordi, ad Anna Magnani, allo stesso De Sica. Mi piaceva cercare questo confronto e vedere se era possibile immaginare una farsa moderna sia dal punto di vista della drammaturgia sia dal lato della tecnica attoriale ossia: come far ridere con i corpi, con i tempi e ritmi.

Enrico Pastore: Belve rinnova la tua alleanza scenica con Armando Pirozzi: hai trovato il tuo drammaturgo in una temperie teatrale che difetta di buone drammaturgie soprattutto tra i giovani?

Massimiliano Civica: Con Armando c’è prima di tutto una grande sintonia perché lui è uno dei pochi drammaturghi che scrive storie e che costruisce dei veri personaggi. Lui riesce a crearli tutti credibili, ciascuno con le proprie motivazioni che si scontrano sulla scena. Riesce a creare un mondo. Nei testi di Armando l’autore si nasconde. Non è quindi quello che per me è cattiva drammaturgia dove c’è un io centrale che parla attraverso tutti i personaggi e esprime la sua visione del mondo. Armando scrive delle storie in cui il senso viene fuori dalla relazione tra i personaggi e non senti un io invadente e unico che parla per tutti.

Altra cosa importante è che, sia io che Armando, crediamo nella creazione di un teatro popolare d’arte. Un teatro che riunisca due termini uniti in un apparente ossimoro: arte e popolare. Crediamo che sia una soluzione importante per il teatro di oggi. Crediamo anche che sia un’importante azione di politica culturale proporre allo spettatore un intrattenimento alto, ben fatto, ben eseguito che faccia ridere, perché nella farsa la risata è d’obbligo.

Enrico Pastore: È ancora possibile, secondo te, un teatro che sia genuinamente popolare?

Massimiliano Civica: Non so se sia possibile. Sicuramente lo è una tensione verso un teatro che torni a essere popolare. Possiamo dire che per questioni storiche e politiche la soglia di attenzione del pubblico si è drasticamente abbassata e anche il loro gusto. Il problema è che la televisione ha sdoganato non il popolare, ma il sotto popolare. L’arte popolare era in passato a un livello superiore a quella che abbiamo oggi.

Credo però che una tensione verso un teatro che non abbia soglie di ingresso anche soprattutto grazie alle storie, perché se le sai raccontare riesci anche ad accogliere il pubblico, sia doverosa. L’altra cosa, ossia piacere al nostro piccolo circolo di amici e addetti ai lavori, ce l’abbiamo già. Non c’è neanche più il gusto della sfida, ci raccontiamo le cose tra di noi, tra gli happy few che non so se sono happy ma sicuramente sono few e cade qualsiasi tensione.

Enrico Pastore: Il tuo pensiero mi sembra costantemente orientato al recupero della tradizione come se non fosse possibile innovazione se non innervandola di tutto il suo passato, è corretto?

Massimiliano Civica: Innanzitutto bisogna capire cosa si intende per tradizione. Io la penso come Leo De Berardinis che diceva: esiste solo la tradizione del nuovo. Quello che è diventato tradizione, lo è stato perché ai suoi tempi creava qualcosa di nuovo. Ora sembra che non lo sia, per il fatto che prendiamo le categorie dalla storia dell’arte, che funziona per opposizioni, ci sono gli ismi che si superano. Io non vedo nulla di male nell’evoluzione e trovo che la vera tradizione sia innovare evolvendo che non vuol dire assolutamente migliorare.

Io sono convinto per esempio che il progresso sia dato solo a livello tecnologico. Nel campo delle arti c’è solo evoluzione non si dà progresso, se con questa parola si intende che una cosa di oggi funziona meglio di una cosa di ieri. A livello tecnologico sì, ma non è che l’epopea di Gilgamesh sia meno progredita di un testo scritto oggi.

Nel campo umano, visto che le questione rimangono sempre le stesse, – l’amore, la morte, l’amicizia, il tradimento, la povertà – si dà evoluzione e, in quel senso, la tradizione vivente risulta sempre un trampolino vivificante.

Enrico Pastore: cerco di mirare un poco di più questa domanda. Tu hai parlato di Mejerchol’d e Copeau, due grandi innovatori che hanno permeato la loro ricerca con la grande tradizione per esempio della Commedia dell’Arte, o con il Teatro No giapponese.

Massimiliano Civica: Sì, certo. Anche con il circo, per esempio. Loro cercavano nelle forme del teatro popolare quello che ogni teatrante, visto che secondo me il teatro riguarda l’umanesimo, deve cercare. Un rapporto a due direzioni aperto tra gli spettatori e gli attori. Per esempio Capeau, insieme a Jouvet, cercò di creare per lungo tempo una compagnia di farsatori, e traduco all’impronta direttamente dal francese. Io credo che in questo ci sia una tensione umanistica verso un miglioramento dell’uomo. E credevano che questa apertura potesse venire anche dal comico e attraverso la farsa proprio perché ristabilisce un rapporto primario e immediato.

Enrico Pastore: Rispetto a questo aspetto della tradizione, forse oggi l’atteggiamento a tutti i costi avanguardista, alla ricerca del nuovo a tutti i costi, sta diventando noioso cliché?

Massimiliano Civica: Io credo che fare avanguardia oggi sia impossibile. Mi spiego: avanguardia prevede una trasgressione, la rottura e il superamento di un limite. Non c’è niente oggi di più avanguardistico della televisione, dal punto di vista della perversione, del sadismo e della distruzione di qualsiasi valore. Siamo immersi in una società che celebra fintamente la libertà assoluta. Io credo che oggi per essere avanguardisti l’unica possibilità sia credere nei valori. Per essere rivoluzionari oggi, in un mondo dove nulla conta, dove tutti hanno ragione, dove finalmente non dobbiamo più scegliere, che sono i mantra della nostra società, l’unica cosa è dire: no, ci sono dei valori, bisogna fare delle scelte. Bisogna scegliere anche cosa perdere. Il teatro deve sempre essere nel suo specifico e la televisione è sicuramente più avanguardista di qualsiasi teatro. Maria De Filippi è l’hardcore del sadismo. La trasgressione è diventato il brand. Se nella pubblicità della Mercedes tu ti devi comprare la macchina perché sei un trasgressivo, uno libero che non rispetta le regole, è chiaro che è già tutto finito. Non si può essere ribelli a vita, né timbrare il cartellino della ribellione permanente. Se così fosse vuol dire solamente che si è incapaci a dire sì. Se lo scandalo diventa un lavoro risulta essere solo l’emblema di una funzione che ti hanno dato altri.

Enrico Pastore: Oggi la parola d’ordine che tutti sbandierano è audience engagement perché tutti si sono accorti che qualcosa nel rapporto con il pubblico si è rotto. Com’è possibile ricostruire la relazione? Il teatro è dunque diventato irrimediabilmente una Fortezza vuota?

Massimiliano Civica: La realtà è molto complessa. da un certo punto di vista il teatro è in piena crisi. Ma a chi appartiene questa crisi? Non è degli artisti. Potrei nominare molti artisti più che rispettabili nel panorama teatrale italiano: Deflorian e Tagliarini, Claudio Morganti, Anagoor, Babilonia Teatri, Danio Manfredini, Roberto Latini. C’è una ricchezza incredibile. Solo a teatro si riflette della morte o della religione. Qual è il problema? la crisi non è degli artisti. Bisogna individuare di chi è la crisi.

C’è poi qualcosa di buffo perché, numeri alla mano, non c’è mai stata nella storia del teatro fino ad oggi un così gran numero di spettatori e di spettacoli offerti. Bisogna capirsi perché se il problema è raggiungere i numeri della televisione l’obiettivo è irraggiungibile. Il problema è capire che i valori e la loro comunicazione sono importanti di per sé. Non si può mettere tutto a bilancio. cento spettatori sono meglio di quattro? Va valutata la qualità dell’esperienza e il fatto che sia aperta a tutti, perché gli artisti devono essere in grado di parlare a tutti. Detto questo il teatro d’obbligo o l’obbligo a far numeri e spettatori non ha senso.

Un teatro pubblico deve offrire una possibilità di elevamento di cultura importante. Mi dispiace ma se contano i numeri vincerà sempre Maria De Filippi. Per l’audience engagement basta offrire nani e ballerine o regalare smartphone. Il problema è che manca il fine. Nessuno ha chiaro quale sia l’obiettivo. Son tutti confusi. Da una parte vogliono tanto pubblico dall’altra vogliono la qualità ma che siano anche tutti contenti. Bisogna mettersi d’accordo.

Ph: @ Duccio Burberi

Un quaderno per l’inverno

MASSIMILIANO CIVICA: Un quaderno per l’inverno

MASSIMILIANO CIVICA: Un quaderno per l’inverno

Nessun buio preventivo. Tutto “alla luce del sole”, o circa. Speciale allusività del gioco linguistico: quella accesa sul palco è una luce fredda, artificiale. Immobile, non subirà nessuna variazione nel corso dello spettacolo. Resterà luce statica, un rimbalzo sulle pareti di quelle stanze che rimangono avvolte dal buio, in inverno.

Luca Zacchini e Alberto Astorri (volti già noti, l’uno membro della compagnia pistoiese gli OMINI, l’altro istrionico bluesman del duo Astorri/Tintinelli) si guadagnano quasi a tradimento l’attenzione della sala, sorpresa ancora in chiara e piena luce. Un professore di letteratura torna a casa, dietro alla porta ad aspettarlo c’è un ladro. Non ho intenzione di fare niente: curioso enunciato per un ladro armato di coltello. Che fortuna, allora è il mio momento d’oro: ossuta replica di un letterato armato di lucido disincanto. In apparenza non c’è movente dietro l’irruzione: non c’entrano soldi, né il computer, né c’entra nulla di ciò che fisicamente immaginiamo contenere una piccola tiepida cucina, scenografia del vuoto che si aggancia al tavolo bianco e alle sedie rosse – soli elementi essenziali di una scenografia che non è altro che l’attore – sulle quali di lì a poco Nino e il Professore si accomoderanno; e neanche è un tentativo di omicidio, per quanto una minaccia di morte, quella la si sente aleggiare, comunque. Quel quadernetto è mio. Al che Nino: le hai scritte tu quelle poesie? Sono belle.

Un quaderno per l’inverno, premio Ubu per la miglior drammaturgia originale ad Armando Pirozzi, deposita la spettacolarità in camerino e ci lascia di fronte a un palcoscenico che rifiuta il “più” in favore della nuda semplicità di un incrocio fintamente fortuito, col poveraccio a bussare alla porta dello studioso: relazione che prova a raccontare se stessa a se stessa con la perseveranza e la ferma volontà di credere cui solo l’esperienza surreale di eventi lontani dalla quotidianità di routine può portare. Con parole, visto che non se ne può fare a meno. Tanto più quando sono una condanna, come lo scrivere poesie. Ma le poesie non si buttano mai.

E per me, Professore? La scriveresti una poesia per me?

Un quaderno per l’inverno è un incontro magistrale per essenzialità, che corre per tre atti e otto anni. Dramma che procede per sottrazione ed eliminazione di elementi, come spesso si accenna parlando delle messe in scena affidate a Civica: l’assenza di cambi luce e di cesure nette fra le scene, al massimo suggerite dalla viva voce degli attori, raccontano un sorreggersi con onestà sullo scheletro vivo di un teatro fatto di attori e parole, senza per questo scomodarsi a chiamare in causa il caro fantasma del teatro povero, né rischiando, parallelamente, l’arroganza del simbolo. Fa sua, piuttosto, la semplicità della parola che produce eco e si propaga nel vuoto.

Qualsiasi vocazione alla scrittura è del resto una precisa necessità di uscita. Si modifica il tempo scavando il solco di un dialogo in assenza; è in fondo dialogo privilegiato con la morte. È soprattutto affrontando questo livello che la drammaturgia di Pirozzi per voce di Zacchini-Astorri si mantiene ironicamente distaccata, agrodolce, e troppo sottile per rischiare il patetismo. Con ritmo in diminuendo si arriva invece a qualcos’altro. Come nella scena centrale, nel piccolo gesto di tagliare un’arancia dopo l’altra: alla bellezza fatta di strazio, al riconoscersi, in un’azione, compagni.

Bisognerebbe dar ragione al regista nel dire che, piuttosto, il tentativo di questa semplicità è quello di tornare al rituale. Ma è anche vero che è lo stesso Civica a divertirsi molto a sfatare qualsiasi possibile ingenuità sovra-interpretativa, mettendo in crisi sia critico (qui nei panni di Massimo Marino) che pubblico. Per il resto, agli affezionati del lirismo-aggiunto, restano la pioggia e la neve che ticchettano sul soffitto del Teatro Biagi D’Antona, tappeto sonoro e riempire il vuoto dell’inverno. Bellino.

Di Maria D’Ugo

foto@ MLaura Antonelli

Premo Ubu

PREMIO UBU 2017: alcune brevi considerazioni

L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.

Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.

Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).

La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).

Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.

Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.

Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.

Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.

Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.

Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.

In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.

È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.

Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.

Massimiliano Civica

CONCENTRICA: PAROLE IMBROGLIATE di Massimiliano Civica

Parole imbrogliate. Questo voleva lasciare Eduardo De Filippo dopo la sua morte. Desiderava renderci difficile costruire un monumento alla sua memoria. Le sue opere dovevano parlare, non le agiografie. Massimiliano Civica in questa lezione spettacolo tenuta durante la rassegna Concentrica all’ex Birrificio Metzger di Torino rispetta decisamente la volontà del maestro.

Nessuna agiografia. Ricordi sparsi e riflessioni che parlano di Eduardo e nello stesso tempo ci indicano sentieri poco battuti nei ragionamenti odierni sull’arte del teatro.

Massimiliano Civica costruisce la sua lezione-spettacolo rivolgendosi a tutti e nello stesso tempo invita la gente di teatro, quella che abita la scena oggi sia esso artista, critico o operatore, a considerare alcuni aspetti dell’agire e pensare di Eduardo rispetto alla situazione attuale.

La famigerata “cattiveria” di Eduardo raccontata negli aneddoti del suo rifiuto all’aumento di paga a Pupella Maggio, che fu costretta ad allontanarsi dalla compagnia, o gli sbiancamenti, ossia le ramanzine agli attori che non recitavano come lui voleva in scena e davanti al pubblico, più che gettare una luce sul carattere del maestro ci parlano di un rigore che in molti casi è scomparso. Un rigore crudele agito per amore del teatro che richiede sempre di essere pienamente nell’istante e mai adagiati su ciò che si è fatto ieri, o in prova, o l’anno scorso.

Anche il rapporto di Eduardo con la tradizione e la ricerca, termini che oggi tanto dividono, e in effetti non hanno senso perché in teatro, come diceva Leo De Berardinis esiste solo “la tradizione del nuovo”. La ricerca si inserisce in una tradizione di innovatori tra i quali Eduardo De Filippo spicca di immensa luce. Il guardare sempre a un nuovo lavoro, a un futuro da costruire, il non volgere mai lo sguardo indietro per non essere tramutati in statue di sale immobili e rigide nel conservare quello che è in perenne trasformazione.

Massimiliano Civica racconta di Eduardo e ne segue la lezione, imbroglia le carte, finge di parlare solo del maestro e della sua opera e invece ci parla del teatro. Quando racconta della prima di Napoli milionaria al teatro San Carlo a guerra appena finita, dei dubbi della compagnia se fosse giusto portare in scena un testo che parlava di cose scomode, vissute da tutti obbligati dalla dura situazione imposta dal conflitto, e del successo che ne segue, degli attori portati in trionfo perché Eduardo è riuscito a parlare del dolore di tutti, ecco che viene alla luce un tema scottante sul teatro di oggi. Quante opere vanno in scena che parlano di quanto ognuno di noi patisce? Quanti lavori teatrali rispecchiano il mondo e diventano organo di riflessione per la comunità che frequenta i teatri?

Gli episodi della vita di Eduardo raccontati da Massimiliano Civica diventano dunque frammenti di pensiero sull’arte della scena e sul suo destino. Eduardo si fa non tanto monumento quanto strumento di meditazione. La sua figura allampanata e severa, la sua recitazione finissima e verace, la sua vita dedicata al teatro con devozione totale, parlano di una modalità che manca al teatro di oggi e ci impone una serie di domande a cui non si può sfuggire: quale teatro possiamo costruire oggi? Quale funzione può avere? Perché il pubblico dovrebbe frequentarlo?