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Compagnia Frosini Timpano

SPECIALE INEQUILIBRIO: Gli sposi di Compagnia Frosini Timpano

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è uno dei lavori che attendevo di vedere con grande curiosità a Inequilibrio XXI.

Vi sono molte ragioni sottese a questo interesse: primaria la stima verso due artisti, Elvira Frosini e Daniele Timpano, la cui cifra è demolire con sfrontata ironia le idee preconcette utilizzando i fatti storici; in seconda battuta la loro abilità di trasformare i materiali in azioni teatrali costruendo non solo una drammaturgia ma una vera composizione scenica fatta di gesti, spazio, oggetti, luci e musiche; terzo elemento l’uso di eventi storici del passato più o meno a noi contemporanei è finalizzato a un intento, prima che estetico, politico.

Per la Compagnia Frosini Timpano il teatro è innanzitutto gesto politico, e come per molti artisti nel corso dell’ultimo secolo spesso l’azione di denuncia politica sul presente si nasconde nell’evento storico passato.

La Compagnia Frosini Timpano ha chiara la funzione del proprio teatro: far saltare le certezze e le opinioni consolidate che come comunità abbiamo degli eventi storici che ci hanno condotto a questo presente: il corpo del duce come luogo d’azione delle contraddizioni dell’Italia post-fascista (Dux in scatola); il nostro equivoco passato coloniale cancellato e dimenticato sotto la menzogna dell’italiano brava gente (Acqua di Colonia); la vicenda Moro (Aldo Morto); e ora la parabola della coppia di dittatori Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu fucilati in diretta televisiva il giorno di Natale 1989.

La fucilazione dei dittatori rumeni, che ancora viene trasmessa il giorno di Natale in Romania, si può vedere tranquillamente su Youtube. Sono immagini forti che in qualche modo inaugurano una stagione in cui la storia si può osservare nel suo svolgersi, semplicemente ripresa al di là della retorica e della propaganda. Pensiamo a come si è sviluppato oggi dove tutto po’ essere ripreso in qualsiasi momento e diventare virale.

Milo Rau, autore di The last days of the Ceausescu nel 2009, mi raccontò in un’intervista che vedendo i filmati dell’esecuzione si convinse che il teatro doveva affrontare la realtà con una potenza pari a quelle immagini.

La Compagnia Frosini Timpano in Gli Sposi di David Lescot nella traduzione di Attilio Scarpellini raccontano l’intera parabola dei coniugi Ceausescu dagli oscuri esordi alla tragica morte. L’esecuzione è solo accennata, il processo avviene in voice off, con i piccoli gesti accennati e descritti. Il finale volutamente sfugge alla forza delle quelle immagini.

Sia Nicolae Ceausescu che Elena Petrescu sono di famiglia povera e contadini. Originari della Valacchia sono individui scialbi, senza particolari talenti, non troppo intelligenti o dotati, eppure per le oscure trame della storia si trovano a guidare una nazione, a farne il proprio feudo personale, a decidere della vita e della morte dei proprio concittadini.

Il regime di sangue costruito crolla esattamente come quello di Macbeth e di Lady Macbeth: nel sangue e nella violenza. La Romania è l’unico caso nel blocco comunista europeo a sfaldarsi a colpi di fucile. Dai tumulti e dalle stragi di Timisoara fino alla cattura a Targoviste, e al processo e fucilazione dei Ceausescu passano solo nove giorni, dal 16 al 25 dicembre del 1989. Quel che avviene in quei fatidici giorni è frutto però di un lento processo che porta i due al vertice e li precipita nell’abisso, ed è il processo di acquisizione del potere che viene prima di tutto indagato. La fine è una conseguenza di infinite azioni e reazioni. E poi c’è l’oggi. Dove ci ha portato quella liberazione?

La Compagnia Frosini Timpano ne Gli Sposi racconta la vita, mette in luce le contraddizioni di questi due oscuri personaggi divenuti emblema del male, li umanizza e martirizza, i loro corpi e le loro anime vengono sezionati e analizzati con la potente lente di ingrandimento dell’ironia.

Il gesticolare convulso con la mano di Ceausescu, il suo balbettare, l’influenza di una moglie inflessibile, i pugni socialisti levati al cielo quasi in pose di manifesto di propaganda in luce rossa, la fuga tremante, esitante, tragicomica in elicottero e poi in macchina, semplicemente evocata con rumori e piccoli gesti, tutto si trasforma nel racconto di una spaventosa dittatura la cui anima era costituita da due persone inette.

La maschera del dittatore viene sollevata e si scopre che ciò che vi si nascondeva non è una coppia di mostri eccezioni di natura ma uomini banali, insipidi in fuga come qualsiasi animale braccato. L’era degli eroi si è conclusa sotto le mura di Troia. Oggi restano solo gli uomini, uguali tutti nel condividere un destino miserevole.

La faccia del potere si sgretola, non rimangono che i corpi sul selciato, inerti, morti, svuotati. Il cadavere nella sua pura e inquietante oggettività non è che un vuoto guscio una volta ammantato degli emblemi di un terribile potere.

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è una danza macabra contemporanea: la morte livella e ci mostra la vacuità di ogni agire/patire umano, svuota di senso anche il mostro più orribile. Forse è questo che aveva scoperto Odisseo quando, nel mito platonico, al momento di scegliere una nuova vita, optò per la più anonima di tutte.

Non solo danza macabra questi Sposi della Compagnia Frosini Timpano anche analisi sapientemente ironica della natura del potere, qualsiasi potere. Non si parla solo della Romania, ciò che viene raccontato non è solo un fatto non troppo lontano nella storia. Si parla di molto contemporaneo e dei molti ometti che si aggirano negli odierni telegiornali con in mano spaventosi poteri, a guidare nazioni, a decidere di vite umane.

Un saggio scrisse che per prevedere il futuro bastava studiare la storia. L’opera di Elvira Frosini e Daniele Timpano ci dice proprio questo: tutto si ripete, tutto è già avvenuto, e guardare il passato è affrontare il presente. Per questo il loro teatro apparentemente semplice e sbarazzino è oggi tanto necessario.

Attilio Scarpellini

INTERVISTA AD ATTILIO SCARPELLINI: per uscire dalla fortezza vuota.

Attilio Scarpellini è critico, saggista e autore, insieme a Massimiliano Civica, de La fortezza vuota sulla perdita di senso del teatro e sulle gabbie legislative che imbrigliano produzione e distribuzione delle arti sceniche nel nostro paese.

L’ho incontrato per un’intervista qualche giorno dopo quella con Civica per tornare a parlare con lui di questi temi e cercare, per quanto possibile, di scoprire le vie per uscire da un’impasse che da troppo tempo grava sul teatro italiano.

Enrico Pastore: Il teatro, ma potremmo dire anche la danza, sono oggi afflitte da molti problemi. Mi piacerebbe provare ad analizzarne alcuni con te. Cominciamo da una parola d’ordine che oggi tutti sbandierano come fosse il graal: audience engagement. Il pubblico da portare a tutti i costi a teatro senza veramente indagare il motivo della sua latitanza. Non ti sembra che si cerchi in tutti i modi di creare un bisogno indotto più che cercare di incentrare il discorso sull’opera, su che tipo di lavori vengano proposti, sui suoi livelli di eccellenza, sulla qualità e sui tempi della ricerca?

Attilio Scarpellini: C’è senza dubbio un eccesso di enfatizzazione su questa supposta latitanza, assenza, mancanza di pubblico. I numeri parlano abbastanza chiaro. C’è sicuramente più pubblico oggi nelle sale teatrali, che sono aumentate, di quanto ce ne fosse negli anni ‘60 e ‘70, che sono il modello di riferimento per indicare una stagione felice del teatro italiano e in particolare del teatro di ricerca.

Al teatro mancano dei risuonatori nella società. Mancano quegli intellettuali che una volta fungevano da cassa di risonanza dei grandi eventi teatrali e che i giornali consideravano notiziabili, mentre oggi, come è noto, da Paolo Mieli in poi, la recensione è considerata come una forma di opinionismo. La mia impressione è che questa tanto spasmodica ricerca di pubblico, che si apre anche a un tentativo di formare il pubblico – e non so bene per quale ragione il pubblico dovrebbe essere formato come se il teatro fosse qualcosa di alieno o una lingua che va spiegata quando è qualcosa inscritto nelle origini dell’esperienza culturale umana -, sia un offuscare il vero problema che riguarda il rapporto e la relazione mancante tra il teatro e quell’entità veramente assente che è la società.

Ronconi prima di morire rilasciò un’intervista in cui disse: ”forse il teatro ha ancora bisogno della società, ma forse la società non ha più bisogno del teatro”. Questo secondo me è il vero problema che non viene affrontato con il risultato che la ricerca continua di pubblico assomiglia più che altro a una ricerca del consenso che fa capo a organismi in crisi come i poteri rappresentativi.

Enrico Pastore: Quello che latita in questo meccanismo incappato tra artisti e pubblico non è forse una mancanza di ridefinizione delle funzioni della scena? O per meglio dire, l’emersione delle esigenze che spingono l’artista a incontrare il pubblico, e il pubblico a frequentare la scena?

Attilio Scarpellini: Questo secondo me è verissimo. È vero che il pubblico che si cerca oggi non è più quello di ieri. Oggi si cerca il pubblico della società di massa. Questo anche perché il teatro è stato marginalizzato dalla vittoria, che ormai si sta trasformando in vittoria malata, di quella che Guy Debord chiamava la società dello spettacolo.

Il teatro come forma è stato molto marginalizzato dall’emergere di forme spettacolari mediate e tecnologiche che hanno una capacità di trasmissione senza precedenti. Cercare il pubblico dentro quello appartenente alla società di massa significa implicitamente uccidere il teatro. Significa invitare il teatro a rifarsi agli standard della comunicazione spettacolare. Si schiaccia ancora di più il teatro sotto il calcagno del cinema, della televisione, del web. Tutto questo senza rendersi conto che le origini dell’ascolto teatrale sono molto più semplici e più profonde di quello che tendiamo a immaginare.

Enrico Pastore: Sì, hai ragione. E questa ricerca spasmodica di pubblico inoltre non indaga la natura dell’evento dal vivo. Lo si mette erroneamente a confronto con forme spettacolari mediate, dimenticandosi che il teatro, come la danza e la performance vivono dell’istante dell’incontro reale, in carne ed ossa, qui e ora.

Attilio Scarpellini: e in più le forme mediate non portano la consacrazione di un luogo. Quando Peter Brook diceva: “posso usare qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo teatro” non stava parlando di una casualità dello spazio teatrale. Al contrario stava dicendo: laddove io riesco a recintare uno spazio e a fare in modo che lì avvenga qualcosa, una trasformazione, lì il teatro continua ad esistere.

Il fatto che il teatro si veda soprattutto nei luoghi deputati alla sua rappresentazione, nelle sale con le poltrone rosse, non è che una storicizzazione di questo movimento. Senza dubbio il teatro resta uno degli ultimi luoghi in cui il corpo dello spettatore si incontra con il corpo del performer e dell’attore. Il teatro è innanzitutto un luogo di incontro e di riconoscimento, e la sua condizione è quella di essere presente, qui, adesso, in situ e de visu.

Enrico Pastore: Applicare le modalità di strumenti e mezzi mediati per classificare e misurare un’arte immediata, come hai detto precedentemente, non fa che uccidere il teatro.

Attilio Scarpellini: Sì, e questo quando moltissime forme artistiche nel momento in cui toccano la loro crisi, regrediscono verso la scena come sostenevano i vari odiatori del teatro. Basta pensare al successo della performance nelle arti visive proprio negli anni ‘60. Cos’altro è la performance se non un ritorno a quell’elemento originario che Claudio Morganti chiama: il teatrico. La necessità di questo elemento, che non è solamente e semplicemente corporeo, è molto più sentito di quanto non venga fatto credere al pubblico.

Enrico Pastore: Viviamo in un periodo di latitanza della politica in ogni campo e la cultura non è da meno. Oggi la politica culturale pare essere in mano alle fondazioni bancarie che tramite i bandi di finanziamento indirizzano le modalità di azione di artisti, teatri e festival. È corretto a tuo modo di vedere considerare l’azione culturale come impresa di cultura dove contano numeri e bilanci più che l’effettiva qualità dell’azione proposta?

Attilio Scarpellini: Io rimango legato, anche per ragioni anagrafiche, a un’idea di teatro pubblico che dal dopoguerra in poi ha fatto tutt’uno con l’idea di democrazia rappresentativa. Il teatro è stato legato all’idea di democrazia in Europa da una sorta di matrimonio cattolico. Infatti il teatro è entrato in crisi con la decadenza degli istituti rappresentativi e della cultura pubblica. Basta tornare a quel vecchio manifesto che scrisse Baricco su Repubblica tentando di introdurre una cultura più economicista dell’arte e di riposizionare i finanziamenti in quella che chiamava una nuova alfabetizzazione al moderno. Tra i vecchi strumenti il teatro era quello più colpito. E questo proprio perché il trasformare il teatro in impresa è una cosa che non è mai riuscita a nessuno neppure ai vecchi impresari novecenteschi.

Enrico Pastore: Uno dei maggiori problemi nella filiera produttiva nel teatro italiano è la mancanza di una vera distribuzione. Questo per tanti motivi a partire dai finanziamenti che privilegiano il sistema degli scambi formando un mercato chiuso e non reale. Così come la questione degli under 35 che appena superano la soglia di età diventano improvvisamente demodé. Quali sarebbero secondo te le azioni da fare per migliorare il sistema? Dove e in che modo si potrebbe agire?

Attilio Scarpellini: la prima azione da fare si trova a monte del problema, ossia riformare le norme, cambiare radicalmente l’organizzazione dell’impresa teatrale, se la vogliamo così definire, rendendo più centrale il ruolo e la presenza degli artisti rispetto a quella dei teatri stabili, ad esempio.

La mia impressione è che oggi, paradossalmente, nelle politiche teatrali ad essere penalizzato è quello che gli economisti chiamerebbero il core business che altro non è se non l’arte stessa. Oggi uno dei grandi paradossi prodotti dalla nuova legge è che gli attori o vengono scritturati o possono morire. diventano ostaggi delle produzioni e dei teatri stabili che spesso producono ma quando si arriva al momento della distribuzione non lo distribuiscono.

Il caso oggi di distribuzione di spettacoli bloccate benché annunciate è sempre più diffuso così come il caso di cancellazione di spettacoli dai cartelloni e dai programmi che erano stati stabiliti. Questo accade perché gli artisti non hanno voce in capitolo e non perché non abbiano rappresentanza. Il problema è proprio che gli artisti non vengono presi in considerazione come soggetti primari della produzione teatrale.

Quanto poi ai meccanismi di distribuzione, e so che il discorso sarebbe lungo e complesso, la mia impressione è che spesso ci siano spettacoli che non vengono distribuiti perché nessuno intravede la convenienza economica nell’operazione.

Enrico Pastore: Sono d’accordo. A mio parere nei termini dei bandi e dei finanziamenti e nei discorsi di politica economica e culturale legata al teatro si dimentica l’opera. Anche per quanto riguarda il discorso affrontato prima sull’audience engagement, se l’opera funziona l’engagement si fa da sé. Ricordo alla Biennale del 1999 quando lavoravo con il Theatre du Radeau di François Tanguy, alla prima serata di Orpheon la sala era piena a metà, l’ultima sera si dovette mandare via il doppio delle persone. il passaparola nei confronti di uno spettacolo meraviglioso aveva richiamato più pubblico di quello che si poteva ospitare.

Attilio Scarpellini: Hai detto la parola giusta, la parola che oggi nessuno vuole più pronunciare: opera. E questa può funzionare se viene sgravata da questa neoideologia che fa dei direttori artistici i veri soggetti e burattinai del teatro. Le opere sono offuscate dalle stagioni. Le opere non fanno che rientrare nelle stagioni che sono firmate dai direttori artistici. Viene da pensare che l’oggetto centrale non sia proprio più l’opera dell’artista quanto la rassegna del direttore. Un vero e proprio rovesciamento di quelle che dovrebbero essere le relazioni gerarchiche.

Enrico Pastore: In questi giorni è uscito un articolo di Porcheddu sul ruolo della critica oggi. In un mondo dove tutti possono dire la loro, e dove si chiede ai critici di formare il pensiero critico del pubblico dove e in che modo si può essere incisivi. Quale ruolo può assumere in questo panorama?

Attilio Scarpellini: Partiamo dall’idea fondamentale che il pubblico è già critico e non ha tutta questa necessità di essere formato. i critici avrebbero il dovere, e lo dimostra l’articolo di Porcheddu citando quei pezzi di Gramsci, il dovere di andare contro il pubblico per andare a prefigurarne uno diverso.

A Gramsci capitò nel momento in cui comprese che il pubblico della borghesia torinese non aveva capito il personaggio di Nora Helmer in Casa di bambola di Ibsen. Gramsci fece una cosa che se fosse fatta da un critico oggi, ossia scagliarsi contro il pubblico, verrebbe tacciato di lesa maestà.

La critica è, secondo me, una forma di contemplazione che si pone rispetto all’opera in una relazione direi di salvezza. Questo perché l’opera si pone sempre in una situazione di rischio. Non va dimenticato che in questa operazione la soggettività del critico è e resta, comunque sia, fondamentale.

Se vogliamo togliere alla critica il suo statuto come esercizio letterario della soggettività la uccidiamo. Certo può essere che la critica sia inutile, un qualcosa che serve solo a riempire le cartelle degli uffici stampa, ma resta il fatto che essa è nata con la funzione di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello presente in sala. Svolge in questo anche una funzione di memoria rispetto a un evento che è per sua natura precario.

Pensiamo ad Apocalypsis cum figuris di Grotowsky: in quante persone l’avranno effettivamente visto nel mondo? A essere ottimisti cinquantamila? Centomila? Se rapportiamo questi numeri a un film come Via col Vento che da quando è apparso in sala l’avranno visto miliardi di persone ed è tutt’oggi visibile, i numeri dell’opera di Grotowsky diventano minimi. E quindi cosa sarebbe stato di Apocalypsis cum figuris se non ci fossero stati quei critici che sono stati folgorati in Polonia, in Italia, ovunque sia stata rappresentata ? Ne resterebbe ben poco.