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Hommelette for Hamlet Carmelo Bene

ADDIO MASCHERINE: UN RICORDO DI CARMELO BENE

Il 16 marzo 2002 si è spento Carmelo Bene, il più grande uomo di teatro italiano del secolo scorso. Non faremo certo un discorso commemorativo, non a CB poiché già in vita gridava a gran voce (amplificata e in playback): «Me ne fotto del mio trono! I morti son morti!».

Cercheremo di ricordarlo con alcune delle sue più importanti battaglie teoriche da lui portate avanti e riportate alla luce in questi giorni da due pubblicazioni importanti, Carmelo Bene di Armando Petrini e Oratorio Carmelo Bene di Jean Paul Manganaro.

Le due opere sono per opposti versi importanti, imprescindibili: più rigoroso, scientifico e critico il Petrini, tanto da riuscire a mettere in evidenza luci e ombre della parabola artistica del Maestro; più partecipato, accorato, al limite di tra il romanzo, il saggio, il florilegio di ricordi quella di Manganaro. Eppure nonostante tale siderale distanza di atteggiamento nei confronti di CB, entrambi gli autori fanno emergere alcuni temi che non sarebbe superfluo affrontare dando contemporaneamente uno sguardo a questo smemorato presente.

Cominciamo dal principio, dal fatto semplice seppur così colmo di conseguenze, dell’essere Carmelo Bene, come nota Petrini, non un “padre fondatore” ma un “figlio degenere”. Oggi questo fattarello risulta in tutta la sua diversità e folgorante luminosità. Carmelo ha lottato come un figlio pronto a tutto pur di dispiacere il padre padrone che lo voleva diverso da ciò che era, normalizzato, educato ai buoni principi del senso comune. Quel padre era ed è il teatro conformista, quello delle messe in scena di testi riferiti, di coloro che fingendo il rispetto della tradizione rinnegano ogni giorno la Tradizione: quella dell’attore inventore, del teatro che precede il testo, di tutto quello che risulta essere un atto insubordinato in quanto, prima di tutto, è artistico nel senso più sublime del termine.

Carmelo Bene

Non a caso una delle ossessioni di CB è stato, insieme ad Amleto (altro figlio degenere), Pinocchio, per quel voler rimaner bambino sempre, schifando l’età adulta del buon senso mediocre. Così cita Manganaro: «Quel Pinocchio “che sono” è più che mai rifiuto a crescere, civilmente e umanamente, è lo spettacolo dell’infanzia prematuramente sepolta, che si risveglia e scalcia nella propria bara. Adulta è la terra-padre-avvenire che la ricopre».

Quanto diverso l’atteggiamento di Carmelo, lui desiderante il Ministero disinteressato per sempre di lui, da quello di tutti questi figli del teatro d’oggi che diligenti compilano al medesimo Ministero e alle banche per ottener da loro, padri-padroni elargitori di paghette da pagare a caro prezzo, la tanto agognata approvazione, il riconoscimento di esser stati bravi, obbedienti e precisi nei numeri? In fondo lo sappiamo come avrebbe reagito, lui, Cassandra inascoltata, che l’aveva previsto questo asservimento ministerial-bancario, e nel prevederlo è stato deriso e offeso.

CB poi avrebbe avuto molto da insegnare sull’uso dei media, lui che li aveva provati tutti: radio, televisione, cinema, concerto e in ogni suo visitare sempre attento a utilizzare il mezzo scorticandolo e tradendolo per, in fondo, esaltarlo. In TV non solo produceva versioni amletiche e pinocchiesche ma non disdegnava andar a Domenica In da Corrado insieme a Lydia Mancinelli a cantar di Ungaretti, Pascoli e D’annunzio secondo Luciano Folgore. Per non parlare dei due opposti (e opposti perché CB usa la televisioni in due modi sideralmente distanti): CB al Maurizio Costanzo Show e Quattro momenti su tutto il nulla per la RAI. Nel cinema poi irrompe con Hermitage e Nostra Signora dei Turchi, facendo cinema distruggendo e scorticando cinema. Nei teatri lirici ecco Manfred o Egmont, concertando ed esaltando la voce sonante in rinnovato carme; infine la radio con le Interviste impossibili, la Salomé, il Tamerlano, e ovviamente Amleto e Pinocchio.

Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi

Oggi come avrebbe usato CB il mezzo digitale? Di certo non si sarebbe limitato allo streaming. Non avrebbe disdegnato il mezzo ma avrebbe affondato il colpo, esplorando la tecnologia, dimostrandone i limiti, demistificando, usando senza mai aderire, restando CB nella sua unicità irriducibile. E questo lo avrebbe fatto da partigiano dell’indisciplina contro la interdisciplinarietà, per usar le parole di Armando Petrini. Il fine era sempre infatti la distruzione della rappresentazione e della spettacolarizzazione della rappresentazione. Così cita Armando Petrini: «Sulla pagina è distruzione della narrazione, sul palcoscenico è distruzione dello spettacolo, sullo schermo è distruzione dell’immagine. Tre annullamenti che convergono in uno solo: quello di ogni rappresentazione»

Forse però, nel suo abitar sempre la battaglia, lui innamorato del teatro che non rinunciò mai a bestemmiar il nome dell’amato, dove si è dimostrato più estremo e rigoroso, fu nell’esser sempre nell’oralità della poesia. Non fu mai uno che riferiva il già detto, il morto orale. Diceva Carmelo nella sua Vita: «Il Testo!Il Testo!Il Testo! Nel teatro moderno-contemporaneo si persevera insensatamente su questa sciagurata conditio sine qua non del testo, considerato ancora propedeutica, premessa (padronale) alla “sua” messinscena. La messinscena subordinata al testo […] Mi ripeto: quel che più conta (urge) è liberare il teatro da testo e messinscena! Da qui il “levar di scena”, il testo della messinscena e la messinscena del testo. Tra-dire. Dire-tra».

Oggi nulla è cambiato. Ancora non si prescinde, anzi impera la messinscena. Senza testo i teatranti sembrano persi, incapaci di inventare la scena, di partire dal suolo come diceva Mejerchol’d, altro grande dimenticato che affermava senza mezzi termini: il testo alla fine!

Ma che ci si poteva aspettare da un Paese in cui, come diceva CB citato da Petrini: «Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, guai a essere anticonformista senza essere conformista». Giudizio condiviso da Pasolini, altro grande irregolare che oggi tutti in qualche modo vogliono tirar per la giacchetta dalla propria parte, e citato da Manganaro afferma: «Il teatro italiano, in questo contesto (in cui l’ufficialità è protesta), si trova certo culturalmente al livello più basso. Il vecchio teatro tradizionale è sempre più ributtante. Il teatro nuovo […] (escludendo Carmelo Bene, autonomo e originale) è riuscito a divenire altrettanto ributtante che il teatro tradizionale. È la feccia della neoavanguardia e del ’68. Sì, siamo ancora lì, con in più il rigurgito della restaurazione strisciante».

Carmelo Bene in Lorenzaccio

Come non vedere in queste parole di due dei più grandi artisti e intellettuali del Novecento, lo specchio dei tempi nostri, in cui tutto sembra rinchiudersi nel recupero delle messinscene, del teatro di regia veterotestamentario, nei dicitori di testi propri e altrui, in un deserto senza ricerca, perché impossibile nei diciotto giorni canonici o nelle residenze sparse pochi giorni qua e là con mesi in mezzo a far altro per sbarcare il lunario. Rispetto ad allora c’è in più forse una certa “locura” come dicevano in Boris, una sventagliata di paillettes e finto giovanilismo, per svecchiare i testi, renderli più digeribili, premasticati per il pubblico-consumatore. Ma sempre dal testo si parte, si è ingordi di nuova drammaturgia, di scrittori, di drammaturghi più che di grandi attrici o attori, di sublimi e scandalose ricerche che smuovano l’orrenda e immota palude in cui siamo immersi come sonnambuli dimentichi di tanto glorioso recente passato.

Eppure per quanto iconoclasta, CB era artista e attore profondamente impregnato di Tradizione. Non solo quella, per così dire semplificando, d’avanguardia, quella di Mejerchol’d e Artaud, ma anche quella dell’opera, del melologo, dei lieder, grandi attori italiani, di Petrolini, della Commedia dell’Arte, fino agli antichi attori del romano imperio, reietti e sublimi, parlati dalle voci, inventori di impossibilità rese per un attimo possibili prima di sparir nel buio. D’altronde per poter variare il canone bisogna conoscerlo a menadito. La Tradizione viene portata avanti da coloro che la tradiscono pur amandola profondamente. E per tradire bisogna conoscere. Quello di Carmelo era un amore da teologia negativa, un toglier di mezzo dio per amarlo di più, un bestemmiarlo per scuoterlo. La sua è stata una lotta epica come quella di Giacobbe con l’angelo e come il patriarca rimase sciancato e offeso nel corpo.

Oggi invece tutto scompare senza lotta alcuna, in pochi secondi, nel silenzio. Non rimane nulla. Ci si dimentica non solo di CB, ma di Kantor, di Leo de Berardinis e di tanti altri, non persi nella notte dei tempi , ma scomparsi da poco nel buio oltre le quinte della vita.

Carmelo Bene in Salomé

Ultimo punto: il togliersi di mezzo. CB per quanto accusato di essere istrione, vanitoso nell’esporsi, non ha fatto altro in tutta la sua carriera d’attore che sabotare l’io, il soggetto. Pensate al protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sempre contuso, ferito, ingessato. Carmelo diceva amleticamente «povero pallido individuccio / che non crede che al suo io che a tempo perso». CB operò come John Cage con la stessa tenacia, seppur senza la sua olimpica serenità, a portare l’arte oltre l’espressione di sé, a essere fatto fisico corporeo materiale e proprio nel suo esser tale sconvolgeva i valori e le dinamiche del mondo acquisito e non messo in discussione. Non era certo nel comunicare qualche fattarello privato, qualche sentimetuccio a buon mercato per commuovere l’anziano abbonato, e nemmeno nel promuovere la cronaca personale o mondana che sia, il luogo in cui risiede il nucleo proprio e più profondo del teatro.

CB, come Cage, portò l’arte al di sopra di tutto questo, facendone una questione di filosofia se non di teologia applicata. Un rivolgere l’occhio verso altri cieli non contaminati dal berciare quotidiano. Ecco perché Carmelo era trasversale e riuniva le folle: per il suo essere universale, per esser capace di far risuonare la parola poetica all’interno di qualsiasi orecchio, benché sussurrasse solo al suo come Epitteto al mercato.

Per concludere, ricordare Carmelo Bene oggi non è un vezzo da anniversario, ma è rammemorare una ricerca estrema e radicale nei suoi esiti e i cui frutti furono la totale messa in discussione di tutte le funzioni e le pratiche del teatro e di tutti i media attraversati nel corso della sua carriera. Oggi si viene derisi, persino da gente carica di premi Ubu, quando si parla di ragionare e mettere in discussione le funzioni del teatro. Anzi si invita a tacere per tornare a far spettacolo, come ce ne fosse poco di spettacolo in giro. Quel che manca è il teatro, ma sembra non importare molto a nessuno. Ecco perché siamo così pronti a dimenticare questo figlio degenere, perché la sua scomoda presenza ci rammenta ad ogni istante quanto siamo distanti dal Teatro con la maiuscola, che non facciamo nulla per ottenerlo per paura di non ricevere il tanto agognato placet ministeriale. E così perdiamo tempo, inabili a qualsiasi rivoluzione, procrastinando mentre nell’ombra CB continua a sussurrare: «l’arte è tanto grande, la vita è così breve!».

Armando Petrini Carmelo Bene, Carocci Editore, Roma, 2022

Jean Paul Manganaro Oratorio Carmelo Bene, Il Saggiatore, Milano, 2022

Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»

Mangiafoco

Fuoco cammina con me: il Mangiafoco di Roberto Latini

Elias Canetti diceva che le immagini sono “una via verso la realtà […], sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane”. Il libro da cui è tratta questa due breve citazione è Il frutto del fuoco, un’opera che curiosamente trova risonanze curiose e interessanti con l’ultimo lavoro di Roberto Latini Mangiafoco.

Le avventure di Pinocchio è sicuramente uno dei libri che più ha acceso la fantasia creativa degli artisti in questo ultimo secolo. Pensiamo solamente a Carmelo Bene, Luigi Comencini o Maurizio Cattelan per citare i giganti. Pinocchio è un’efficacissima rete da pesca per far affiorare la realtà. Le immagini però, sempre secondo Canetti, hanno anche un’altra funzione, quella di accordarsi all’esperienza, soprattutto quando quest’ultima tende a fuggire, restia a farsi interpretare. Immagine ed esperienza si accendono vicendevolmente, entrambi acceleranti con lo scopo di mantenere vivo il fuoco della vita.

Ecco dunque apparire il primo tema di Mangiafoco: un intreccio di immagini ed esperienze a produrre immaginazione. Gli attori, tutti straordinari, si presentano, precipitati da uno scivolo che è strumento di mise en abîme, e raccontano il loro curriculum vitae all’interno di una cornice: la scena di quando Pinocchio vende l’abbecedario e irrompe nello spettacolo di burattini mettendo in subbuglio il teatro di Mangiafoco. Il testo qui è pre-testo, il fiammifero necessario a innescare l’incendio perché nei racconti si accenda l’immaginario. Gli attori danno vita ad altri simulacri: Nora di Casa di Bambola, Enrico V di Shakespeare, e poi Čechov, Pirandello, Pasolini. Una catena interminabile che non è vuoto citazionismo, ma icone di un loro passato vissuto sulle scene che altre ne chiamano a raccolta in un gioco di specchi illuminanti. Quello che appare con forza è la bottega dell’artificio, l’apprendistato, il percorso. Viene dunque evocato un passato teatrale, le figure che hanno abitato la scena, i maestri Mangiafoco. Su tutti Leo De Berardinis artista indimenticabile. L frammento e il racconto di vita non sono banale e triste amarcord ma strumenti per indagare le funzioni della scena. Cos’è e cosa serve quel burattino che si anima sulla scena. E chi è il burattinaio? Chi veramente tira i fili? Il pubblico? Il regista? L’autore? O forse siamo di fronte all’antico rito della maschera che parla la voce dell’oracolo?

Il teatro nel teatro è artificio spesso stucchevole, un rimando autoreferente e autogiustificante. Roberto Latini da molti anni indaga il meccanismo e ha imparato a padroneggiarlo utilizzandolo come una sorta di gioco delle perle di vetro, un mosaico di frammenti distanti e apparentemente alieni che ricompongono per prossimità un affresco mirabile in cui appare la funzione propria della scena: il luogo in cui le bugie sono portatrici di verità. Non una, asseverante e tirannica, ma molte, una per ciascun osservatore, acceso dalle immagini, scagliato verso un immaginario suo personale dalla forza propulsiva e centrifuga della creazione scenica.

L’occhio che guarda in Mangiafoco non è solo in platea, ma abita la scena sotto la maschera di Topolino. Una presenza aliena, inquietante, ma nello stesso tempo infantile, portatrice di ricordi e fantasie. Un pubblico impossibile seppur presente, uno sguardo forse funestato dalla ricerca di intrattenimento o, magari, solo manifestazione della fantasia collettiva. Videmus nunc per speculum in aenigmate diceva S. Paolo ai Corinzi, vediamo enigmi in uno specchio.

L’ardore è l’altro tema peculiare. Non solo il fuoco ma anche il ghiaccio. Elementi che bruciano, elementi che dissolvono e si dissolvono. Entrambi estremi lontani da quel tiepido rinnegato dall’angelo nell’Apocalisse. Essi sono simboli di una creazione, quella teatrale, in bilico perenne tra il bruciare energie e conservare la pienezza e l’essenza della maschera. Di certo elementi di una mutazione, difficili da conservare, pronti a svanire, lasciando cicatrici frutto di un percorso difficile ed estenuante verso la conoscenza e la consapevolezza.

Su tutto Mangiafoco aleggia un grande e devoto amore verso il teatro, questo artificio straordinario che spesso appare impolverato e dissestato ma, una volta illuminato con la giusta luce, sa riflettere e far riflettere con potenza smisurata le possibilità del reale.

Vorremmo concludere questa breve riflessione con un’ultima citazione di Elias Canetti: ”Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto”. Roberto Latini ci offre una cornucopia di immagini non tanto su Pinocchio quanto sul teatro: su quello che significa per chi lo osserva e frequenta e per chi lo fa e vive. Entrambi si nutrono delle immagini che scaturiscono da questa straordinaria Wunderkammer, meccanismo meraviglioso per comprendere chi siamo e dove viviamo.

Visto a Milano al Piccolo Studio Melato il 12 dicembre 2019

To be or not to be Roger Bernat

L’ABISSO DELL’IDENTITÀ: TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT di Fanny&Alexander

La stagione di Fertili Terreni si è aperta al Cubo Teatro con To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander, frutto di una programmazione condivisa da Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto. Dal mese ottobre fino a quello di maggio le quattro formazioni propongono una ricca e variegata stagione teatrale, sparsa sul territorio del Comune di Torino in tre luoghi teatrali (Bellarte, Cubo Teatro e l’Ex Cimitero di San Pietro in Vincoli) a cavallo tra le Circoscrizioni 4 e 7.

Lo spettacolo To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander, appare a prima vista come niente più che una conferenza su Amleto, ma in realtà si dimostra una trappola/dispositivo in grado di catturare performer e pubblico in una dinamica funzionale a interrogarsi sull’essenza dell’identità e, più in generale, sul ruolo del teatro stesso. Il conferenziere, il bravo Marco Cavalcoli, è e non è Roger Bernat, il drammaturgo catalano autore di alcuni tra i più interessanti dispositivi di teatro immersivo o rappresentativo come Pendiente de voto, Domini Públic e Numax-Fagor-plus.

L’oratore ci propone una riflessione su Amleto sfuggente già nell’idioma. Inglese, francese, spagnolo e italiano si alternano creando un continuo spaesamento nell’ascoltatore che non può accomodarsi in un ascolto semplice e passivo.

La figura di Amleto conduce chi parla e chi ascolta in un abisso profondo, un luogo in cui tutto è già avvenuto o è già stato deciso da altri. Non resta che interpretare una parte predisposta per noi. Questo processo è chiaro fin da subito quando il relatore si dispone a doppiare una puntata de I Simpson, parodia della celebre tragedia. L’immagine sullo schermo è già data, non resta che dargli voce.

Il pubblico viene presto chiamato all’azione. Una ragazza deve impersonare la regina ed entrando in scena le viene posta in capo una corona e fatta sedere dietro una scrivania, dove le viene richiesto di interagire con un dispositivo che potrà diffondere, a suo piacimento, nell’orecchio del conferenziere che si presta a un nuovo mirabolante doppiaggio nelle varie versioni vocali di Amleto, da Mel Gibson e Kenneth Branagh a Carmelo Bene.

Ma chi è veramente agito? L’attore, la ragazza o tutti e due? Obbedire alle regole del gioco non è forse di per sé stesso prova del fatto che la drammaturgia delle nostre azioni, così come quelle di Amleto, sono stabilite altrove? E ribellarsi è possibile oppure anche questa possibilità è già prevista? Il gioco prosegue e di cui non si conoscono le regole che si svelano solo partecipando. Si passa allo stadio successivo. Quattro persone del pubblico vengono chiamate sulla scena a dar vita alla pantomima in cui si rappresenta l’assassinio del re, quella che Amleto chiede agli attori di inscenare di fronte alla madre e al patrigno per scoprire se veramente essi si sono resi colpevoli dell’assassinio del padre.

Chi siamo noi, pubblico, adesso? Siamo noi gli assassini? Dobbiamo confessare la nostra colpevolezza? Il dispositivo messo in atto si espande a macchia d’olio, deborda dal palco alla platea coinvolgendo ogni cosa nel suo meccanismo. Le regole ci stanno imprigionando tutti nella loro ragnatela onnipervasiva. Quale scelta ci resta seppur ce ne resta una da compiere?

Roger Bernat scrive: «il prezzo che dovete pagare per agire sarà quello di far parte di un dispositivo che nelle prime battute vi sembrerà estraneo. Sarete immersi in un meccanismo di cui non conoscete gli obbiettivi e temerete la servitù. Dovrete obbedire o cospirare oppure obbedire cospirando. In ogni caso, dovrete pagare con il vostro corpo e impegnarvi».

Se durante il periodo barocco si parlava di Gran Teatro del Mondo, dove la scena rappresentava la vita come Teatro, il dispositivo di Fanny&Alexander ci avviluppa in un meccanismo spettacolare che fagocita, come pianta carnivora, ogni aspetto del reale. La spettacolarità ingorda ci trascina nelle sue reti e nello stesso tempo ci permea di dubbio. Quale il fine delle nostre azioni? Quale la sostanza delle nostre identità? Siamo noi ad agire? Siamo tutti attori che recitano un copione?

To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander si conclude con il conferenziere, avatar di Roger Bernat, che discorre con la testa, copia e ritratto di Roger Bernat, diventato a sua volta il povero Yorick. Le immagini e le identità si moltiplicano, ognuna fantasma di qualcos’altro che sfugge. In un’epoca in cui ciascuno moltiplica gli avatar di se stesso, creando immagini tutte ugualmente insincere, al teatro non resta che porre in dubbio la loro consistenza. Al luogo deputato alla rappresentazione di una realtà fittizia spetta dunque il compito di essere motore del disvelamento? La maschera è l’arma che sbugiarda l’inconsistenza della rappresentazione da noi stessi generata? Non siamo altro che tanti Amleto sospesi tra il dubbio e l’azione? Troveremo mai una soluzione soddisfacente? Forse è bene porsi la questione e cercare, se si può, una risposta.

Ph: Enrico Fedrigoli

Carmelo Bene

GLI ORACOLI DI CARMELO BENE

Negli anni Novanta Carmelo Bene in maniera lapidaria scolpì due sentenze oracolari sul futuro prossimo del teatro italiano: ”un applauso non si nega a nessuno” e :”se lo Stato non pensa ai mediocri, chi ci pensa?”.

Quel futuro delineato da Carmelo Bene ora è il nostro presente. E ciò che antivedeva l’artista più irriverente del teatro italiano, ora è sotto gli occhi di tutti ma si fa finta che non sia così.

Partiamo dal primo assunto che un applauso non si nega a nessuno. Le conseguenze sono una critica depotenziata. Come già ha fatto notare Giulio Sonno pubblicando Il nuovo che (ci) avanza http://www.paperstreet.it/il-nuovo-che-ci-avanza/ : esprimere un parere che non sia favorevole a un lavoro o a una rassegna o festival è brutto e non si fa.

Subito di fronte a una critica che pone una domanda, o mette in discussione la riuscita di un lavoro, si levano infantili lamentele, si asserisce che non questo è il compito della critica, che mica siamo a scuola che si consegnano le pagelle. Qualcuno scomoda persino Artaud e indignandosi protesta: basta con i capolavori! battendo metaforicamente i pugni sul tavolo. Come se il critico andando a teatro volesse vedere solo spettacoli da iscrivere nel grande e luminoso libro della storia del teatro. Quelli più dignitosi fanno finta che le critiche – diciamo negative – non esistano e le nascondono inutilmente come polvere sotto il tappeto, dimenticandosi che siamo nell’epoca di internet e tutto diventa immediatamente di dominio pubblico.

Si scorda in tutto questo che la critica, quella migliore e più consapevole, pone domande scomode, non afferma giudizi di merito o estetici (l’era dell’arte come bello e del giudizio estetico è finita più di cento anni fa!). Lo fa non perché ne prova piacere, perché odia un artista o un festival, ma perché è il suo compito, si assume la responsabilità di porre in luce un’idea di teatro possibile.

La critica non ha sempre ragione obbietterà qualcuno o, come rispondeva Sidney Lumet alla critica Pauline Kael, vuole parlare di un’esperienza artistica senza prendersi alcun rischio. Ma qui non ha importanza chi ha ragione o torto, si parla di far muovere il pensiero sul teatro che si sta disabituando al contraddittorio.

E la responsabilità, ripeto, la si assume proprio nel porre pubblicamente domande scomode all’artista, al curatore, al pubblico, e di risponderne, altrettanto pubblicamente, a coloro che sono in disaccordo.

In questi giorni rileggevo il bellissimo romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere e ho trovato una frase illuminante: “L’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch”

Se il secolo scorso è iniziato con i Futuristi che si crogiolavano nella voluttà di essere fischiati, ora si è passato al divieto di critica. Si passa per essere dei bastian contrari, dei brontoloni a cui non va bene nulla, e si procede tutti spediti verso l’accordo unanime. Nessuna pubblica discussione, nessun movimento di pensiero, solo i rimbalzi delle critiche positive a far vedere che i propri festival e i propri lavori piacciono proprio a tutti. La fiera della vanità.

Ma veniamo al secondo assunto di Carmelo Bene: la mediocrità sostenuta dallo Stato. Tutti i bandi, ma proprio tutti, richiedono come presupposto nuovo pubblico. Questa bulimia di audience, ossessione spasmodica che non si interroga sulle funzioni della scena nella società, ma desidera solo che a teatro ci si vada e sempre più numerosi, comporta che per accontentare tutti si abbassino i livelli e si renda il teatro riconoscibile anche a un analfabeta. E così il ritorno di schemi teatrali e registici che si pensavano sepolti dalla storia: rinascita di un teatro borghese (senza i presupposti socio economici che hanno reso quel teatro necessario al suo tempo), ritorno prepotente della rappresentazione e di un teatro di regia dei tempi di Stanislavkij, il tutto condito in salsa social o talent show, con qualche proiezione qua e là per assolvere all’altro criterio ossessivo: la multimedialità.

Quest’ultima altra aberrazione del contemporaneo. Per essere chiari il teatro è multimediale dal tempo dei carri di Tespi. Teatro era Koreia ossia danza, musica e poesia. L’opera lirica è multimediale dall’Orfeo di Monteverdi, così come i trionfi del Brunelleschi mettevano in campo dall’ingegneria alla pittura, dalla danza alla musica, scultura e architettura. Piantiamola quindi di richiedere una cosa che è implicita nell’arte teatrale stessa!

I bandi determinano anche gli argomenti e così anno dopo anno ci ritroviamo ammucchiate di lavori che parlano tutti delle stesse cose e si dimentica che il teatro non è la cronaca del quotidiano ma pone domande alla società/pubblico a cui si rivolge, anche quelle che proprio non vuole sentire. Non si fa la morale o si espone il proprio punto di vista come al bar, si mette in questione il reale al di là di se stessi.

Di come la pensava Shakespeare sulla politica dell’Inghilterra con la Spagna non sappiamo proprio nulla, abbiamo le sue splendide opere che mettono in questione la natura umana nel suo complesso tanto che Harold Bloom è giunto ad affermare che il Bardo abbia inventato l’umano. Thomas Mann chiamava questo: la visione stereoscopica dell’autore ossia vedere tutto da ogni angolazione possibile al di là delle proprie opinioni.

Oggi invece sempre più ci si ritrova davanti a lavori che esprimono solo il punto di vista del suo autore su questo o quell’argomento e con la morale della favola, aspetto che anche Giulio Sonno mette in luce nel succitato articolo. Dell’opinione dell’artista su questo o quello non frega un beato niente a nessuno. Quello che ci si aspetta da lui è che metta in questione la realtà, che getti luce sulle crepe della civiltà e della società che abitiamo.

Come dice Kundera: “nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro”.

Questo ci si aspetta dall’artista e dal teatro anche se l’opera non è un capolavoro, anche se è mediocre. Non si tratta di valori estetici, si tratta di funzioni e di consapevolezza del ruolo. Una nuova interpretazione di Amleto, il bravo attore che lo interpreta magnificamente, o la regia impeccabile non servono a niente e a nessuno se questo non scuote alla base l’idea che abbiamo del mondo.

Torniamo quindi al ruolo della critica: non diamo pagelle, non diamo voti e stelline. Non è nel mio interesse dare voti a nessuno, quanto, invece, pensare il teatro, scuoterlo, generare pensiero scenico, confrontarmi con artisti, curatori e pubblico, cercare soluzioni possibili ai problemi che affliggono questo nostro mondo (sempre più chiuso in se stesso) e assente di voci discordanti.

Uno dei dipinti che ho sempre trovato tra i più inquietanti è La parabola dei ciechi di Brueghel. Sei ciechi si avviano verso un baratro uno dietro l’altro. Il primo già sta cadendo, il secondo ha appena il tempo di rendersi conto che la terra è finita e inizia l’abisso. Quello che veramente mette a disagio è il terzo che con incrollabile fiducia si avvia verso il baratro senza nulla sospettare conducendo quelli che lo seguono al precipizio.

Dire che va tutto bene, che siamo tutti bravissimi non serve. È solo un prendersi per mano con occhi bendati e camminare fiduciosi verso il vuoto che ci attende qualche passo più in là.

Antonio Rezza

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO REZZA E FLAVIA MASTRELLA

La Biennale Teatro 2018 insignisce con il Leone d’Oro due grandi artisti del nostro tempo: Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Li ho incontrati in questi giorni e abbiamo discusso di alcuni temi del loro lavoro, del ruolo dell’artista e delle funzioni della scena. Un ringraziamento a Emanuela Caldirola per averla resa possibile.

Enrico Pastore: Lo storico israeliano Noah Harari nel suo Da animali a dei dice che ciò che ci ha contraddistinto come specie e ci ha posti in cima alla piramide evolutiva non è tento la capacità di creare strumenti o il pollice opponibile quanto la capacità di creare finzioni come il denaro, la patria, Dio che ci hanno permesso di collaborare in grande numero oltre al branco. La cultura soprattutto del Novecento si è assunta il ruolo di demistificare le finzioni, di sollevare il velo sugli artifici della civilizzazione. Il vostro lavoro forse è uno degli esempi più eclatanti di demistificazione e di lotta contro le finzioni del vivere civile.

Flavia Mastrella: Sì, ci possiamo ritrovare in questo, ma vorrei anche dire che noi più che figli del Novecento siamo figli del Duemila, della nuova era. Tutta un’altra mentalità. Abbiamo superato questo smascheramento. Viviamo nella più completa confusione. È tutto ribaltato. Non esiste più un concetto determinato da ribaltare, solo regole. Regole e numeri solamente.

Antonio Rezza: Io sono d’accordo con quello che hai detto, perché Roland Barthes diceva, in quel libro bellissimo che è Frammenti di un discorso amoroso, che il ruolo dell’intellettuale è demistificare. Non che io legga, io ho letto solo ‘sta frase. È un libro talmente bello, che me piace talmente tanto, che non posso andare avanti a leggerlo. Noi possiamo dire con certezza che oggi la nostra cultura è priva di intellettuali. Nessuno si occupa di questo. Noi lo facciamo ma involontariamente. Ci occupiamo di noi ma, con quello che facciamo, demistifichiamo. Smascheriamo quelle che sono le tendenze dell’arte di serie B, quelle meno virtuose, assistite e assistenziali. È chiaro che quello che facciamo noi ha un ruolo catartico e pulisce.

Non lo facciamo apposta. È che viviamo in un periodo dove non ci sono intellettuali che si sporcano le mani con la demistificazione, perché è molto impopolare.

Enrico Pastore: Houellebecq dice che non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte.

Antonio Rezza: Houellebecq l’ho trovato molto affascinante. Ho conosciuto Houellebecq. Mi sembra però che lui ci stia bene in questo ripetersi. Ecco il ruolo dell’artista è: non ripetere quello che ha già fatto. A costo di intraprendere strade più impervie.

Flavia Mastrella: Mantenere lo stile, ma non la dinamica.

Enrico Pastore: La Biennale propone quest’anno il tema: attore-performer. Voi avete scelto da tempo da che parte stare. Una volta dicevi: il più grande performer fino a prova contraria.

Antonio Rezza: Una volta lo dicevo. Non lo dico più. L’ho detto all’incontro dell’altro giorno qua a Venezia: l’attore serve lo stato d’animo, il sentimento. Si fa il maggiordomo da sé. Si arruffiana da solo. La performance non è figlia dello stato d’animo. Perché devo calarmi in qualcos’altro quando ho me stesso? Questo è ciò che non sopporto dell’attore.

Io non posso essere attore perché agisco in spazi che non mi appartengono che crea Flavia per se stessa. L’incipit è già diverso. Non recito un testo perché non mi scrivo niente da me quando poi è il corpo che dovrà farlo. Non ci diamo proprio la possibilità di vivere uno stato d’animo e nessuno può immedesimarsi in quello che facciamo. Niente di quello che facciamo è concessivo. Mai. Ecco perché il pubblico ci adora. Perché non si sente mai preso per il culo.

Flavia Mastrella: Noi abbiamo lavorato fin da subito su arte e corpo. E sulla contaminazione. Abbiamo lavorato sempre in spazi non teatrali. Nelle Gallerie d’arte, nei centri sociali, a Zelig. La forza comunicativa che ha acquisito Antonio nel corso degli anni è propria del performer, cioè di colui che racconta se stesso rubando l’attenzione.

Enrico Pastore: Carmelo Bene diceva che il teatro è una cosa da Croce Verde. Tutti che fanno finta di credere a ciò che non è.

Antonio Rezza: Non è servito a niente quello che ha detto Carmelo Bene. E non servirà a niente quello che diciamo noi. Non è servito a niente nemmeno quello che ha detto Artaud. L’importante è che ci siano persone che dicono queste cose. Il teatro non serve a niente.

Flavia Mastrella: Lo dice ma non ci crede che non serve a niente, se no non stavamo qua (ride).

Antonio Rezza: io penso che se non ci fossero più soldi ci sarebbero più performer. È più faticoso ma più divertente. Se nessuno per lavorare venisse pagato, la performance sarebbe alle stelle. Ognuno farebbe quello che il corpo suo comanda, invece di fare quello che comanda chi lo paga. Io non ho fatto apposta a nascere performer. Sono incapace a recitare. Letteralmente incapace. Non credo nella battuta che mi dà in altro. Ma nemmeno in quelle mie.

Ci sono compagnie giovani che corrono dietro a finanziamenti di venti o trentamila Euro e poi passano l’anno a rendicontarli. Le fatturine, gli scontrini. Passano l’anno a fare il bando e a rendicontarlo. E così non pensano all’opera. Questo Leone d’oro dato a noi è importante perché è un segnale. Si può lavorare senza i finanziamenti. É più importante per gli altri che per noi.

Enrico Pastore: Molti vi accostano al teatro della crudeltà. Vi sentite a vostro agio ad andare a braccetto con il fantasma di Artaud, oppure la cosa vi infastidisce?

Flavia Mastrella: Un fantasma te lo attaccano sempre. Meglio Artaud che un altro. Poi è molto somigliante fisicamente ad Antonio.

Antonio Rezza: Io non lo conosco Artaud. C’ho tutti i libri ma non li leggo. È troppo bello per leggerlo. Mi fido. E poi non avrebbe mai preso i finanziamenti Artaud. Uno deve ispirarsi ai massimi sistemi. Se lui non li ha presi di che stiamo a parlà?

Flavia Mastrella: è nato proprio nel momento sbagliato Artaud. Lo hanno distrutto.

Antonio Rezza: Sì, però se vai a cliccare su Google Artaud ci sono tre milioni di risposte. Ha vinto lui.

Flavia Mastrella: vedi che serve?

Antonio Rezza: E serve sì! Da morti però. E io spero che il nostro lavoro sopravviva alla nostra morte, perché si passa più tempo da morti che da vivi. Che ci fai con la vita quando ti aspetta l’eternità della morte?

Flavia Mastrella: Per questo ci stanchiamo molto perché tanto poi c’è il riposo eterno.

Antonio Rezza: Questo vogliamo dire allo Stato. Questo è un appello ufficiale. Noi non abbiamo chiesto finanziamenti in vita, ma lo Stato ci deve fare ricchi sfondati da morti. Tutti i soldi che non ci ha dato li deve cacciare centuplicati per assistere ciò che noi abbiamo lasciato. Vogliamo essere ricchi da morti.

Enrico Pastore: Massimiliano Civica mi ha detto in un’intervista che il tragico ha una fiducia illimitata nella vita perché in qualche modo ricompone sempre le crisi. Il vero pessimista è il comico, che con la risata irride ogni cosa persino la morte.

Antonio Rezza: Sono d’accordo. Innanzitutto è più facile commuovere che far ridere. Ridere in un certo modo, con un sussulto. Per far commuovere basta una musica ben piazzata, una situazione evocativa. Si sono commossi pure quelli che sono venuti a vedere la cerimonia nostra. Io non mi sono commosso. Ero contento. È facile far commuovere, se ti commuove anche un Leone d’Oro.

Enrico Pastore: Il vostro quindi è un teatro pessimista?

Flavia Mastrella: Sì, è drammatico. È un dramma proprio. È talmente drammatico che fa ridere. Attacca il quotidiano. I drammi quotidiani diventano mastodontici e così diventano buffi.

Enrico Pastore: Oggi si parla tanto di multimedialità come poi se non ci fosse mai stata nel teatro. Pensiamo all’opera che è multimediale dalle origini. Voi siete multimediali, una coppia inscindibile costituita da ambienti e corpo che li abita.

Antonio Rezza: Noi partiamo sempre da luogo, contrariamente a tutti che partono prima da un testo. Anche qui alla Biennale college con i ragazzi li facciamo partire prima dal luogo, senza testo, senza niente. Io poi mi lascio sorprendere dagli ambienti di Flavia, mi ci perdo. Non bisogna mai avere paura delle idee dell’altro, che le idee dell’altro modifichino le tue. Io preferisco stupirmi, preferisco perdermi piuttosto che seguire un’idea. Noi le prime idee le diamo ai poveri. Non ci fidiamo delle prime idee, non vanno per niente sopravvalutate. Sotto una bella idea ce ne sono mille dirompenti. Se capisci questo meccanismo non è che dici: Ah che bell’idea! Dici: Aspetta che vediamo che ci sta sotto! La pigrizia spesso impedisce a chi non ha idea di fidarsi della prima, che magari poi è l’unica.

Come diceva Demetrio Stratos, ma anche Cruijff, quando parlava del secondo fiato. Sotto il primo fiato ce n’è un secondo che noi non conosciamo, che rompe il primo e dà possibilità ancora più grandi di respirare. Però è un fiato che sta sotto lo sforzo, al confine con lo spasmo. E se lo diceva Stratos e lo diceva Cruijff vuol dì che è vero. Così sono le idee. Ce ne sono tante sotto la prima. Che fretta c’è di concretizzare la prima?

Roberto Latini

SEI. E PERCHÉ DUNQUE, SI FA MERAVIGLIA DI NOI? Di Roberto Latini

Roberto Latini torna a Inequilibrio con: Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? Una nuova tappa dell’indagine sul teatro attraverso i suoi classici e un ritorno a Pirandello dopo I Giganti della montagna. Lavoro molto complesso questa riscrittura scenica de I sei personaggi in cerca d’autore, interpretati da un solo performer, il giovane e talentuoso Piergiuseppe Di Tanno: un intricato intreccio vocale, sonoro e fisico nel corpo uno e molteplice dell’unico attore.

Su un’alta pedanina, quasi trespolo, sotto una luce a pioggia, il personaggio indossa la maschera fedele alla didascalia pirandelliana: costruita d’una materia che per il sudore non s’afflosci […]; lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca.

A ridosso, dietro il personaggio che è legione, corpo trafitto da molte voci, un telo bianco. Tra una sezione e l’altra di questa prima lunga scena, un vento che viene dal palcoscenico, a smuovere il telo, ad accarezzare il volto del pubblico, una carezza sinistra, come alito di morte. E quella luce bianca, abbacinante, richiesta dal testo pirandelliano.

Attraversamento è il termine per questo ultimo lavoro di Roberto Latini, un passare attraverso e nello stesso tempo un farsi trafiggere da parte a parte, dell’unico interprete e del pubblico che viene colpito dalle parole pirandelliane come da frecce, o da coltelli lanciati dal personaggio in maschera.

Con le dovute distanze e differenze, I Sei Personaggi di Roberto Latini mi rammentano il Manfred di Carmelo Bene. Multiple voci di unico interprete, una sorta di concerto, non rappresentazione ma teatro come atto di riflessione filosofica, la parola protagonista come suono, le parole nella loro opacità, velate da plurimi significati, oggetto sonoro più che intellettivo.

Vi sono terribili violenze nelle parole […] ma poi la lingua ha avuto paura” così diceva Artaud. In questi Sei personaggi di Roberto Latini il dramma violento è proprio nelle parole che non sono solo proferite, si stagliano sul telo proiettate mentre la musica le accompagna come martello di fabbro sull’incudine della scena.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? Siamo quasi esclusivamente nella terza parte della versione, credo, del 1925, quella più inquietante dell’annegamento della Bambina, del suicidio del Giovinetto, quella parte” che dà un brivido nell’accostarsi” a quelle entità che hanno realtà e verità pur vivendo sul crinale tra vita e teatro.

Cos’è vero? Cos’è reale? come cerca di far capire il Padre al Capocomico la scena è più reale di ciò che si crede realtà, che invece è un fluire informe in perenne permutazione senza consistenza: solo le figure dell’arte posseggono una certa qual stabilità data dalla forma sempre possibilmente ripetibile. Persona è la maschera.

Nel finale la pedanina diventa la vasca dove annega la Bambina, e da questa si trasforma in fossa scavata dai due becchini (un due che è sempre unico), quelli della tomba di Ofelia, anch’essa annegata.

Il prestito amletico è in inglese. Il testo diventa sempre più suono, cima sempre più difficile da scalare. Il linguaggio ha come desiderio di farsi sempre più arcano, più luogo d’evocazione che di significazione

Nella vasca/fossa entra il performer seppellito da una valanga di schiuma, come di bagno sbarazzino, come il suicidio del Giovinetto, atto indiscernibile e confitto sul confine tra verità e finzione.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini porta alla ribalta un giovane attore straordinario, versatile, di impressionante presenza e potenza espressiva: Piergiuseppe Di Tanno. La sua esecuzione, non interpretazione più incarnazione o evocazione, rende concrete le forze terribili e inquietanti che pur vengono evocate dal testo pirandelliano (non dimentichiamo che il Capocomico alla fine quasi fugge impaurito dal teatro dove restano solo le ombre dei Personaggi).

Una modalità di essere in scena non facile, che necessita di grande tecnica, e di padronanza di sé, la capacità di svanire, come sciamano, sotto il diluvio di voci e presenze che ti attraversano.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini è dunque un lavoro intenso e difficile. Un teatro che riflette su stesso con i mezzi suoi propri, un meta-specchio che rimanda infinite immagini di sé tanto da non distinguer più quale sia il riflesso e quale il soggetto. Un labirinto intricato in cui è difficile orientarsi senza fili di Arianna. Forse questo è l’unico difetto in un congegno mirabile: l’esser oggetto d’occhi padroni del linguaggio della scena. Ma il teatro deve proprio esser per tutti? Nell’era dell’audience engagement generalizzato questa domanda merita più di una riflessione.

AttoDue/Murmuris

SPECIALE INEQUILIBRIO: Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris

Nella mia seconda giornata a Inequilibrio mi sono imbattuto in uno spettacolo che mi ha fatto molto pensare. Parlo di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris da un testo di Jean-Luc Lagarce per la regia di Simona Arrighi e Laura Croce.

La riflessione a cui mi spinge questo spettacolo non è di natura estetica (posso tranquillamente dire che ogni immagine era ben studiata e concepita), e nemmeno di natura attorica, quanto piuttosto funzionale.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris è un lavoro strutturato su una rappresentazione mimetica e naturalistica. Siamo nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini, le finestre sono aperte sul mare, un salotto borghese e ben arredato accoglie gli spettatori. La scena è già in atto. È come entrare in casa d’altri. C’è quindi fin dall’inizio una quarta parete che ogni tanto viene leggermente rimossa con degli a parte.

Tutto è assolutamente credibile e naturale. Gli attori (Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini) sono bravi, senza affettazione, privi gesti inutili, con una partitura di azioni serrata, misurata, genuina che fa trasparire i sentimenti che le parole non dicono, gli imbarazzi, la rabbia, la frustrazione.

E poi gli oggetti di scena: il vino nei calici, la zuppa nel piatto, la foto dei bambini, il caffè nelle tazzine. La mimesi con la realtà è quasi perfetta, non fosse per il pubblico e le americane al soffitto. Fin dalle prime battute si ha come l’impressione di essere a Mosca a casa Stanislavskij o a Parigi a godersi uno spettacolo di Antoine. Siamo di fronte a un teatro naturalista che rappresenta un salotto borghese.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris mi ha fatto sorgere sin dai primi minuti una domanda insistente: è questo che chiediamo oggi al teatro? Un teatro mimetico?

Queste domande le pongo senza alcun intento polemico, ma in quanto studioso di arte scenica. Nella Parigi di Zola e Antoine e della loro battaglia per il naturalismo contro le viete convenzioni ottocentesche, o nella Mosca di Stanislavskij, la mimesi tra arte e vita era una contesa attuale che riformava i teatro. Nonostante questo, già dopo pochi anni, le avanguardie o registi come Vachtangov e Mejerchol’d cominciano a demolire l’edificio mimetico verso un teatro che non sia rappresentazione ma vada al di là.

Oggi, mi chiedo, è questa rincorsa alla mimesi che serve al teatro? È la simulazione che assolve alla funzione del teatro? Non ci sono altri media che possono farlo meglio? Perfino i primi reenactment di Milo Rau non erano mimetici, ma sempre era rivelato, in maniera quasi brechtiana, l’artificio e la distanza dal reale.

Pensiamo a Hate Radio: siamo di fronte alla rimessa in scena di una trasmissione radiofonica di Radio Milles Collines, ma nessuno vuole farci credere che siamo a Kigali in Ruanda, solo farci comprendere che cosa è avvenuto.

Quello che è davanti a noi è come un vetrino di laboratorio, è un oggetto di studio e di critica del reale non la sua copia e nessuno fa finta di credere che i conduttori siano quelli veri. C’è una distanza critica necessaria per comprendere e in qualche modo giudicare la realtà e, se possibile, modificarla.

La funzione del teatro è quindi quella di sguardo sul mondo, luogo dove la comunità/pubblico indaga la realtà, ne affronta le sue crisi cercando modalità di risposta. Il dispositivo scenico ha quindi una chiara funzione.

Nel caso di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris, benché il lavoro sia ben fatto e ben eseguito, la funzione mimetica non appare per nulla chiara. Perché si vuole che si creda che sia reale? Perché quello che capita sulla scena potrebbe capitare a tutti? Ma per raggiungere questo scopo è la simulazione la strategia più adeguata?

Già Carmelo Bene diceva, nelle sue meravigliose lezioni su Cos’è il teatro, che far finta di credere che quello sulla scena sia Amleto era cosa da Croce Verde. Dopo le rivoluzioni del Novecento, dopo aver fatto di tutto per uscire dalla rappresentazione e cercare nuove funzioni alla scena, veramente crediamo necessario il ritorno a un teatro naturalistico borghese? È così essenziale mettere una zuppa nel piatto come se ci si trovasse di fronte a un vero pranzo in famiglia? La scena non possiede modalità più efficaci?

Queste domande le pongo, ripeto, senza tono giudicante. Il lavoro di AttoDue/Murmuris, dal punto di vista tecnico, è irreprensibile. Perfino Stanislavskij avrebbe proferito il suo fatidico: “Ci credo!”. Il problema non è la qualità, ma la funzione della scena in se stessa. Che teatro vogliamo nel nostro contemporaneo? È la mimesi tra arte e vita lo strumento adeguato per il reale che ci troviamo ad affrontare?

Premo Ubu

PREMIO UBU 2017: alcune brevi considerazioni

L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.

Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.

Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).

La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).

Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.

Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.

Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.

Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.

Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.

Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.

In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.

È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.

Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.

rosa silenzio

SULLA ROSA, SUL SILENZIO E SULL’ARTE DELL’ATTORE

:”La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce;

non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”.

Angelus Silesius Il Pellegrino cherubico

:”Io non ho niente da dire e questa è tutta la poesia che mi serve”.

Così diceva John Cage nella sua Conference about Nothing. E nel dir queste parole spostava l’attenzione dal contenuto di un’opera, dalle sue intenzioni, dalla volontà di rappresentare storie e concetti, alla sua procedura, al processo messo in opera. Dal cosa al come. La modalità diveniva fondamentale. Una prassi senza intenzione né volontà di dire o, per lo meno, tendente allo zero espressivo. Era un togliersi di mezzo dell’autore e dell’interprete per lasciare spazio a qualcosa di vivo e irripetibile che per comodità chiameremo opera. E proprio l’interprete sia esso attore, danzatore, performer o musicista diveniva un esecutore di partiture, di compiti che in sé non avevano significato alcuno. La modalità attraverso cui si eseguiva la partitura diveniva una messa in questione dell’essere, dell’oggetto, dell’esistenza. Si scopriva una funzione e si sfatava un mito.

L’azione artistica davanti a un pubblico diveniva una sorta di prassi filosofica, (ritualità CB) dove veniva esercitata un’azione che era in sé una domanda senza risposta ma che incrinava la nostra consueta conoscenza del mondo. Eseguire 4’33” non era un provocazione ma diveniva un far emergere i suoni a cui nessuno dava attenzione, e che per il solo fatto di stabilire una cornice temporale acquistavano una solidità, un’opacità, una presenza senza precedenti. Non si comunicava un’opinione su questa o quell’altra questione all’ordine del giorno, non si interpretava il testo del grande autore, né si dava la propria versione dei fatti attraverso la propria autoralità, semplicemente ci si toglieva di mezzo lasciando emergere il mondo. Teatron: il luogo da cui si guarda.

Questo sottrarsi per far emergere, pur con le dovute differenze, era tratto comune a CB. Frainteso spesso e volentieri con l’atteggiamento opposto, il voler stupire e provocare. Eppure era semplicemente un cancellarsi, un fare spazio, un non prestarsi al teatrino nel teatrino. :”Che cosa chiedo io in fondo? Di essere ignorato, di essere trascurato…”.

Nella conferenza che cos’è teatro?, CB dice senza mezzi termine che il teatro, com’è abitualmente concepito, ossia interpretazione di un testo attraverso ruoli e parti in cui l’attore deve immedesimarsi, non è altro che una pratica da Croce Verde. Tutti fingono di credere che quello sulla scena sia Amleto che compie quelle azioni, così come l’attore che finge di essere chi non è. Si finge tutti quanti in onore alla storia e per la storia, ossequiosi di qualcosa scritta prima di cui si finge di capire il senso, senza capire che ognuno dice la propria in un roboante chiacchiericcio. E si torna al silenzio di Cage. All’ascolto senza dire. A un mettere da parte le proprie idee e opinioni di fronte all’essere che si manifesta, senza scopo né finalità, e che semplicemente si pone di fronte a noi con tutte le sue domande.

E questo inquieta oggi come allora. Si chiede all’arte tutta di comunicare. Di dir la propria. Si applaude l’attore che riesce a immedesimarsi, che ci fa piangere e commuovere. Persino gli attori e danzatori si oppongono strenuamente quando si cerca di far emergere una pratica di sottrazione che privilegi la modalità all’espressione. Si dice che questo va contro l’arte. Che non è così che si fa. Eppure i grandi uomini di teatro si sono affannati proprio a dire il contrario.

Pensiamo a Kantor, ai suoi attori-manichini, che non raccontavano niente, ma attuavano trappole, automatismi, modalità inconsce. Automi sulla scena eppur così poetici intrappolati in quelle macchine di tortura, in quei supplizi senza fine né ragione, insieme a quegli oggetti relitti di un mondo che fu, eppure quanta poesia in quel mondo perduto senza ragione né perché: “l’attore deve essere LONTANO, incredibilmente ESTRANEO, come un MORTO, separato da una BARRIERA invisibile e tuttavia terribile e inimmaginabile, il cui vero senso e il cui orrore non ci appaiono che in sogno”. Tutto molto lontano dal dire in scena, dall’esprimere opinioni. È un porre domande senza risposta, ma domande ultime, quelle veramente importanti.

Questi attori-automi, come morti sulla scena risuonano con la macchina-attoriale di CB. Un attore che si fa attraversare, a servizio di un impianto audio imponente e delicato, esecutore di una partitura in perenne mutamento, mai uguale a se stessa, metamorfosi senza posa. Altro che declamare, proclamare, asserire, interpretare e riferire, per non dire comunicare. Ci si limita a far dire la voce. A far uscire il suono lasciando perdere il significato.

Eppure sulle scene di oggi quanto affannarsi a voler comunicare. Impera il monologo e il dialogo, l’opera impegnata su questo o quel problema del giorno, oppure si invoca una svagata leggerezza strappa-sorrisi, mettendo in scena giochi di ruolo per adulti, dove tutti si sentono rinfrancati della propria pochezza. Oh! quanto si invoca la leggerezza per paura della profondità che necessita di una pratica ferrea per togliere di mezzo il superfluo e far apparire ciò che resta sepolto dal cumulo di macerie della civiltà. E ci vorrebbe tanto silenzio sulle scene e nella vita. Un ascolto devoto ai rumori del mondo, al suono dell’essere che se ne fotte dei generi, degli orrori, dei piaceri, delle gioie. Esso sta lì muto e ci interroga, se sappiamo ascoltare.

Come diceva Angelus Silesius:”La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”. Così il mondo e così l’arte a imitazione della natura nel suo modo di operare.