Durante l’edizione 2024 di Testimonianze, ricerca, azioni, il festival di Teatro Akropolis in quel di Genova, è stato proiettato l’ultimo traguardo del viaggio di Clemente Tafuri nella parte maledetta del teatro. Un lungo pellegrinaggio alle radici dell’arte scenica che ha illuminato le figure di Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini, e ora in quest’ultima stazione dedicata a Carmelo Bene, ci conduce in una terra nebbiosa, mitica e ancestrale, dove mirabili miraggi prendono corpo dal fumo che nasconde gli scogli pericolosi che ci attendono dietro e al di là della meraviglia.
Carmelo Bene si rifrange in infiniti specchi, e viene riflesso dal suo teatro. Come Rinaldo e Armida, dove la maga si specchia nella propria immagine e il guerriero cristiano, ormai dimentico dei suoi eroismi, viene riflesso dall’occhio della donna. Ma chi regge lo specchio? “ella del vetro a sé fa specchio, ed egli / gli occhi di lei sereni a sé fa spegli” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 7-8). Parrebbe che sia Rinaldo, sottomesso ad Armida, ma in una stampa del 1628 è la stessa Armida a reggere lo specchio mentre i due amanti sono avvinti in un intreccio di corpi e di sguardi. L’importante è che entrambi “mirano in vari oggetti un solo oggetto” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 6).
Nel mondo barocco, così vicino al quel Sud del Sud dei santi che tanto amava Carmelo Bene, lo specchio è metafora ricchissima della realtà scissa in immagine. Pensiamo agli specchi di Velasquez e di Vermeer: chi riflettono? Personaggi immaginari o noi pubblico attirati, come Alice nella tana del Bianconiglio, da questo precipitare di immagini riflesse. E non è di questo che si parla se si allude al teatro e non allo spettacolo?
Infatti lo specchio pertiene al dio della scena, al fanciullo Dioniso, prima che venisse fatto a pezzi dai Titani. Come racconta Carlo Sini, la storia dello specchio di Dioniso, ha molteplici significati. Il Dio-fanciullo, unico e indiviso, si specchia nel molteplice e, ammaliato dalle immagini, resta indifeso, vittima dei Titani, simboli dei desideri e degli appetiti, che lo sbranano in mille pezzi. L’uno si frantuma nel molteplice, Vi è una ulteriore accezione, più nascosta, che riguarda il mistero della conoscenza: lo specchio è il mondo racchiuso in un immagine, lo specchio è lo strumento che permette allo sguardo di vedere, ma soprattutto di ricordare. Lo dice Carmelo in uno stralcio di intervista: la conoscenza è sempre un rammentare.
Carlo Sini però ci parla di un terzo e più profondo significato: Dioniso vede nello specchio i Titani, vede le spade sguainate, e non si sottrae all’atto violento. Si lascia smembrare, perché solo nel frangersi in mille pezzi come uno specchio, può tornare unito. E questo atto di sacrificio è comune a Carmelo Bene, ben colto da Clemente Tafuri. Carmelo si è lasciato fare a pezzi dalle proprie immagini, si è abbandonato alla frammentazione nei tanti Amleto, Pinocchio, Otello, Lorenzaccio, etc. E questo farsi a pezzi, questo scomparire nel molteplice abbandonando l’ego, era sacrificio necessario per far apparire il teatro, arte che, vien più volte ricordato agli smemorati contemporanei, non ha mai a che fare con la letteratura e la storia, perché queste fanno famiglia con la rappresentazione e non con la conoscenza.
Per essere come Dioniso nello specchio, bisogna abbandonarsi, farsi ammaliare e perdersi come Rinaldo, dimenticare la propria identità. Bisogna insomma “complicarsi la vita” per usare le parole di Carmelo. Bisogna vaneggiare per non rappresentare. Bisogna dire senza riferire. Un mantico e maniaco delirare che “restituisca l’aria al suo vento insensato”. Questo per Carmelo Bene era il teatro.
E quanto è necessario oggi ricordare le sue parole, oggi dove tutto è racconto, dove si è obbligati a riferire schiavizzati dall’essere comprensibili a tutti i costi, invece di scegliere d’essere evocativi. Il significato è protagonista e non la selva dei significanti. Bisogna raccontare per filo e per segno, essere didascalici, spiegare tutto bene, quando non ci sarebbe nulla da spiegare. E tutto questo perché ci siamo dimenticati di cosa sia il teatro secondo Carmelo Bene: un non luogo in cui, a volte, si dà il miracolo dell’apparizione. Un non luogo che non ha tempo né spazio, come lo specchio di Dioniso.
Alla fine degli anni ’80, in una lunga intervista con Richard Kostellanetz, John Cage raccontò queste storielle Zen: Quando giunse il momento di scegliere il sesto patriarca del buddismo Zen, il quinto patriarca organizzò una gara di poesia in cui ognuno avrebbe dovuto esprimere la propria comprensione dell’illuminazione.
Il monaco più anziano nel monastero disse: “La mente è come uno specchio. Raccoglie polvere e il problema è rimuoverla”. C’era un giovane in cucina, Hui-Neng, che non sapeva né leggere né scrivere, ma al quale fu letta tale poesia e disse: “Oh, potrei scrivere una poesia migliore di questa, ma non so scrivere”. Allora gli domandarono di dirla e lui lo fece. La scrissero e diceva: “Dov’è lo specchio? Dov’è la polvere?”. Fu così che diventò il sesto patriarca. Qualche secolo più avanti in Giappone c’era un monaco che faceva sempre il bagno. Un giovane studente gli chiese: “Se non c’è polvere, perché fai sempre il bagno?” E l’anziano monaco rispose: “È solo un tuffo, nessun perché.” Carmelo Bene, avrebbe risposto, è la mia vanità.
Ovviamente qualcuno potrebbe dire, leggendo queste mie righe, che non ho parlato molto del film. La verità è che, come ogni forma di grande teatro o grande arte, non c’è racconto che possa restituirlo. Carmelo Bene diceva: non si dovrebbe dare un attore che riferisce e, chi scrive, lo pensa del critico. Se posso darti lettore solo il riassunto di ciò che ho visto ti farei perdere tempo. Per usare le parole di Carmelo Bene: “lo spettatore dovrebbe non poter mai riuscire a raccontare quel che ha udito”. Se ho fatto bene il mio lavoro, lettore, ti ho fatto venir voglia di vedere questo strano specchio di Dioniso.
Per questo ho parlato di specchi di cui il film è ennesima immagine, uno specchio esso stesso, dove possiamo vedere un mondo e un teatro di cui tutti ci siamo dimenticati.
La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro: Carmelo Bene – Durata 54’circa
Regia: Clemente Tafuri | Con: Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi | Fotografia e montaggio: Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi | Riprese e audio: Luca Donatiello, Alessandro Romi | Produzione: Teatro Akropolis, AkropolisLibri