Piergiuseppe
di Tanno, classe 1983, rappresenta una nuova generazione di
attori/performer con una formazione variegata, non esclusivamente
legata al teatro, ma che anzi attraversa curiosa i vari linguaggi
della scena, dal teatro alla danza butoh, dalla performance art alla
danza contemporanea. Attore moderno e poliedrico ha vinto il Premio
Ubu per miglior performer Under 35 ex equo con Marco D’Agostin
per la sua interpretazione di Sei. E dunque perché si fa
meraviglia di noi? di Roberto Latini. L’abbiamo
incontrato in questa intervista per scoprire le ragioni della sua
ricerca e cercare di immaginare possibili evoluzioni del linguaggio
scenico e dell’arte dell’attore.
Cosa
ti ha spinto a scegliere la professione di attore?
Continuo
a scegliere una dimensione, una modalità del fare, aldilà di una
definizione di ruolo: desidero confermarmi nel
Teatro, chiedo cittadinanza all’interno di un panorama poetico
senza scegliere una sola modalità di caduta attraverso un nome. O
meglio ancora, sarebbe prezioso avere il potere di trasformare la
personale “qualifica” ad ogni diverso attraversamento,
raccontando in questo modo la rivoluzione continua della propria
identità. Accade che quando pensiamo di compiere una scelta, in
quello stesso momento, in realtà veniamo scelti: c’è stato un
tempo in cui ho riconosciuto semplicemente che era il Teatro a
scegliere me. La mia storia professionale nasce da un malinteso di
grazia, dunque è stato un qualche demone del Teatro ad aver spinto
me e non viceversa. Ho accolto un invito d’oro e mi sono offerto
come servitore.
Quale
pensi sia la peculiarità del teatro?
Posizionarci
vivi di fronte agli altri vivi. E in questo umano specchio, il
respiro comune è l’immaginazione. Accade come una purificazione
del sangue nostro, in questo starci di fronte. Esporsi con coraggio
all’occasione della Verità. Il suo esistere immortale. Mi fermo
qui, per pudore e per amore.
Quali
idee e modalità di teatro ti hanno appassionato durante la tua
formazione?
Questo
sentiero chiamato “formazione” è un tracciato che continuiamo a
percorrere tutti, dove ogni folgorazione, ogni passo, confluisce nel
tratto che incornicia la nostra figura, la forma che siamo. Dunque
resisto nella disponibilità costante di appassionarmi e desiderare
lo studio di ciò che è a me misterioso. Credo tu sottintenda però
il tempo “delle prime mosse”, in cui si inizia a lavorare
ardentemente alla costruzione della propria forma, appunto. Allora
scelgo un nome che mi ha salvato la vita, e grido Antonin
Artaud.
Nell’assurda relazione con un uomo del quale non ho avuto il dono
di essere contemporaneo, ho trovato negli anni un appuntamento
d’Amore. Al fuoco delle sue questioni ho acceso la miccia delle mie
ispirazioni, accade un dialogo che vive e in cui resto in ascolto di
ciò che da lui continua ad emanare fino a qui. Fortunatamente gli
esempi mirabili di chi ha trionfato nel Teatro con amore e devozione
sono tanti, e nella mia storia mi dichiaro vittima del fascino di chi
ha pericolosamente offerto “tutto Sé stesso”, di chi ha saputo
edificare famiglia umana e artistica intorno alla sua pratica
teatrale, di chi ha fatto del proprio senso una possibilità di
rivoluzione per gli altri. Una volta terminata l’Accademia
Nazionale d’Arte Drammatica, ho iniziato a “danzare”, a
esplorare fisicamente quella zona che nasce dopo lo spegnimento delle
parole, e ho orientato la bussola della mia attenzione verso la
performance-Art e chi ha contribuito negli anni a ri-disegnare una
costellazione paradossale di “artivisti”. Volevo chiudere questo
mio tentativo di risposta con una lunga sfilata di nomi, l’ho
scritta ad occhi chiusi, ma poi l’ho bruciata.
Cosa
ritieni sia importante nella formazione di un attore?
Fondamentale è
cercare la propria unicità, il valore specifico della personale
presenza. Capire come farsi strumento di questo linguaggio, ripeto:
di come porsi a servizio del Teatro. Esercitare il “lasciarsi
guardare”, al posto del “voler mostrare”. Direi anche il
“potenziamento del Vuoto”, e con ciò intendo l’affinamento di
una pratica personalissima attraverso la quale generare in sé lo
spazio perché i fatti possano accadere, al riparo di ostruzioni
egoiche e narcisistiche. Ambire alla purezza del proprio percorso,
farne stendardo perché si gonfi al vento della propria navigata.
Essere
attore
oggi non ha più lo stesso significato e funzione che possedeva
trent’anni fa o un secolo fa. Drammaturgie condivise, collettivi,
attori/performer, impiego dei non attori, innesti di pratiche
provenienti da altre arti. È possibile immaginare secondo te la
prossima evoluzione? Determinare la/le direzione/i delle
trasformazioni del teatro?
Certo che è
possibile! Immaginare è determinare la realtà. Attraverso
quest’azione rinasciamo creatori di ciò che ci accade e di tutto
il mondo. Una volta abbracciata questa consapevolezza, possiamo
affinare il potere che le nostre azioni presenti hanno verso le
evoluzioni future, avendo cura profonda di tutto quello che poniamo
in essere. Si tratta di una semina incessante. Spero che si possa
tornare in fretta ad innescare questioni vitali, auguro ad ogni
attore futuro di vibrare della sacralità di questa occasione di
esistere, e che scompaia la necessità di vendersi o proporsi alla
cieca, prostituendo la luce della propria vocazione. Io non parlo di
forme future, non disegno con precisione l’immagine di un Teatro
dell’avvenire: custodisco il potere di determinare solo gli atti
del mio tempo presente, e dunque partecipo ad un rito antico quanto
l’uomo, che per quanto possa manifestare declinazioni futuribili,
avrà sempre odore di fuoco mai spento dentro un tempio in cui si
continua a sacrificare.
Cosa
ti hanno dato i maestri che hai incontrato? In che modo le
generazioni passate sono state di stimolo al tuo essere creativo
sulla scena e in cosa invece sono state di intralcio?
Sono
fatto della sostanza di tutti gli incontri che ho avuto in dono,
potrei dire che il mio volto è una gigantesca galleria dei loro
ritratti. Per ognuno di loro ciò che sento è gratitudine, è questo
sentire
la gratitudine
che mi hanno lasciato. Non distinguo fra ciò che ho ricercato con
ardore e ciò che ho inconsapevolmente attratto. Dico grazie a chi
col suo esempio mi ha regalato la certezza di chi non voglio
diventare e a chi ha saputo risvegliarmi, dileguando le mie oscurità
con la sua luce. “Il Maestro” è stato in principio un’idea che
mi ha ossessionato, cercavo affannandomi, e insieme misurandone la
mancanza, un qualche altro da me che spazzasse via ogni fragilità e
m’illuminasse alla luce del proprio segreto. Poi ho realizzato che
quell’uomo sono io. Accolgo spalancato ogni occasione di
insegnamento, che può manifestarsi ad ogni istante, e provenire da
chiunque: da chi sta davanti ai miei occhi e racconta o da chi è
morto secoli fa e in qualche modo riesce a tornare a dire. Non do a
nessuno il potere d’essermi d’intralcio, l’unico ad esercitare
ancora quest’onore è me stesso.
Come
è avvenuta la creazione di Sei.
E dunque, perché si fa meraviglia di noi?
In che modo tu e Roberto Latini avete lavorato alla costruzione della
tua interpretazione?
La condizione di partenza è stata l’impossibilità. Da lì, la necessità di un volo, che per essere detto con Pirandello, “accade quando deve accadere”. L’invito è stato e continua ad esistere nel pericolo costante di cadere, e insieme rispondiamo restando sospesi, leggeri, facendoci spiriti. Mentre provo ad essere il testo, ogni parola, ciascun personaggio, tutte le azioni, vedo davanti a me lo spettacolo di un pubblico impegnato a creare la propria visione, nella difficoltà di dover tenere acceso il tempo dell’immaginazione, muovendola viva attraverso ciò che sulla scena accade come un suggerimento che non definisce, ma anzi lascia liberi di poter vedere. L’occasione di questa creazione ha in sé anche una riflessione intima intorno al tema dell’ “attore/performer”, questione che Roberto Latini ed io incarniamo, sangue e sudore. Sono immerso in questo viaggio dentro Pirandello, che insiste col rivelarmi nel tempo profondità che non arrestano il loro schiudersi: ho la sensazione precisa di aver intrapreso un cammino nuovo e lunghissimo. In questo senso è stato abbagliante un fatto vissuto poco tempo fa: ho visto I Giganti della Montagna di Fortebraccio Teatro, del quale non avevo ancora visto la versione “radio edit”. Stare di fronte a Roberto Latini, essere testimone del suo resistere sulla scena e in questo caso dentro Pirandello, è stata comunicazione sottile che travalicava ogni esperienza di prova in teatro. Il nostro procedere nella vita di Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? ha la fortuna di essere fatto anche di questi momenti, in cui la potenza dell’esempio che Roberto Latini è in quanto uomo e attrice (“Io sono un’attrice”, cit.) può deflagrare davanti al mio sguardo permettendomi di stabilire una linea di interpretazione personale che nasce nel silenzio e nel mistero del nostro esserci l’uno per l’altro, e insieme, nel Teatro.
Ph: @ Brì di Tanno
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