La
quinta intervista per Lo
Stato delle cose
andiamo in Campania per dialogare con il Collettivo
Mind The Step
di San Felice a Cancello (CE). Abbiamo posto le cinque domande su
temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni
della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è
di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della
giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida
sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le
possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni
per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.
Il Collettivo Mind the Step è nato a Napoli all’interno della Bellini Teatro Factory nel 2018, finalisti al Premio Scenario 2019 con Fog, all’attivo hanno anche lo spettacolo Look Like che a debuttato a febbraio 2019 al Teatro Bellini di Napoli.
D:
Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa
necessita per essere efficace?
A
nostro avviso non può esserci creazione efficace senza un lungo
processo che affronti più tappe e più livelli creativi. A riguardo
possiamo riportare il nostro metodo di lavoro, che, in quanto
compagnia giovane, abbiamo difficoltà spesso a mettere in pratica.
Pretendiamo di partire da una fase di ideazione e studio, che preveda
anche una piena informazione e documentazione degli argomenti
trattati, per poi passare alla fase di scrittura e improvvisazione e
giungere infine alle prime bozze di formalizzazione. Lavoriamo,
affinché tutto possa essere efficace, con la piena disponibilità a
rimettere sempre in discussione ogni decisione e ogni risultato del
percorso. Per fare ciò, è ovvio, serve tempo e una grande fluidità
delle competenze messe in gioco. L’attore, ad esempio, non può
limitarsi ad essere solo un esecutore, ma deve saper essere anche
autore e regista in scena. Così come drammaturgo, regista e tecnici
non vogliamo che siano limitati all’interno dei ruoli assegnati
normalmente all’interno del percorso creativo.
D:
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto
evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle
residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da
fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione
sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli
nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa
sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Di
variabili e casi specifici ce ne sono in abbondanza e proprio in
virtù di questo ci sembra che la situazione sia molto complessa.
Senz’altro residenze e bandi in generale sono un aiuto importante e
concreto per le giovani compagnie, nonostante a fruirne sia un numero
esiguo di gruppi. Ad esempio, il nostro progetto Fog,
finalista al premio Scenario 2019, non è riuscito ancora ad accedere
a bandi di residenza. Questo si ripercuote ovviamente sul processo
creativo, di cui parlavamo nella risposta precedente, e influenza
negativamente il completamento del lavoro. A questa condizione si
aggiunga il fatto che le residenze sono spesso limitate nel tempo, un
tempo che difficilmente si sposa con le reali tempistiche richieste
da un valido processo di creazione. Si aggiunga anche che in generale
tanta è la difficoltà a trovare spazi che vadano incontro alle
esigenze di chi fa teatro (una sala prove può essere limitante
rispetto ad uno spazio teatrale vero e proprio) o che quasi mai si
concede la possibilità in fase produttiva di incontrare il pubblico,
aumentando così il rischio di un teatro sempre più barricato sulla
scena; o si consideri ancora che sono pochi i teatri ufficiali che
realmente danno spazio e investono su giovani realtà, innescando una
dinamica di spietata competizione e in una totale assenza di rete tra
giovani compagnie, cosa a nostro avviso necessaria per una crescita
del mondo teatrale italiano. Sarebbe importante che, in generale, chi
produce desse più importanza e peso al processo e meno al prodotto.
D:
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto
debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono
impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la
visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un
vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente
solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo
tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e
prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o
professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di
distribuzione?
Oggi
perché uno spettacolo sia ‘accettato’ in altri spazi rispetto a
quello in cui nasce c’è bisogno di qualcuno che ne garantisca la
qualità, soprattutto quando non è coinvolto un nome riconosciuto o
lo spettacolo è fuori dalle logiche di scambio. In questo contesto
crediamo che la critica svolga, volente o nolente, un ruolo
indispensabile. Le recensioni di penne importanti possono
considerarsi tra i principali crediti che danno accesso – o almeno
una possibilità maggiore di accesso – alla circuitazione. Tuttavia
il destino di uno spettacolo non è solo nelle mani della critica,
che tra l’altro deve far fronte a una mole enorme di spettacoli da
seguire e agli impedimenti geografici (ma in realtà non è neanche
questo il suo ruolo, ma qui si aprirebbe un altro capitolo). Forse
dovrebbero essere gli stessi teatri a creare e coinvolgere, in
un’ottica di rete, delle figure che cerchino, come degli scout,
spettacoli da inserire nei propri cartelloni sulla base di una reale
ed effettiva visione e non affidandosi alla recezione dei più
disparati materiali multimediali, che possono essere bugiardi in un
senso e nell’altro. Questo però implica un cambio strutturale che
permetta al circuito off di operare scelte non solo in base a
principi di sopravvivenza e agli Stabili in base a logiche di rischio
e non solo commerciali. Non ultimo sarebbe importante che sia il
fruitore ultimo della catena, il pubblico, e non i soli addetti ai
lavori, a decidere se uno spettacolo è meritevole o no (interessante
è l’esperimento che il Kilowatt Festival porta avanti ormai da anni,
ma che purtroppo è relegato ad essere un caso isolato nel panorama
italiano). Oggi non esiste settore in cui il cliente non possa
valutare il prodotto o la prestazione di cui fruisce, ma perché il
pubblico non può recensire lo spettacolo per cui ha pagato e in tal
modo, non solo instaurare un rapporto diretto con gli artisti, ma
anche influenzare le sorti distributive di uno spettacolo?
D:
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un
inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più
difficile distinguere tra online
e offline.
In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le
funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento
da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo
compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i
nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e
irripetibile ad ogni replica?
L’iperconnessione
in cui ci ha precipitato la società informatica non può sostituire
lo scambio concreto, fisico e carnale che il teatro ancora
garantisce. Le funzioni, oggi come ieri, ci sembrano le stesse:
l’elaborazione collettiva, l’incontro di opinioni e sensazioni, una
connessione emotiva tra pubblico e artista, il risvolto politico, nel
senso più ampio del termine. Certo, senza l’intenzione di farne una
condanna antitecnologica, bisogna inevitabilmente considerare che
oggi tutti, sia artisti che pubblico, siamo sempre meno allenati ad
esercitare le nostre funzioni empatiche, a sviluppare la nostra
concentrazione su tempi lunghi, in un mondo in cui la lentezza non è
più un valore. Su questi aspetti la creazione scenica deve far leva
per un necessario rinnovamento, ma allo stesso tempo deve resistere
alla tentazione di soddisfare le esigenze di velocità che arrivano
da ogni fronte.
D’altro
canto l’artista dovrebbe dare allo spettatore la possibilità di
acquisire immagini non dall’esterno, ma facendole nascere dentro di
sé. Bisogna alimentare l’immaginazione del pubblico, non
soddisfarla. In una società che fornisce un’infinità di
informazioni e risposte precostituite, la scena deve sollevare dubbi
e incertezze, affinché ognuno possa avere modo e tempo di cercare
una propria risposta. Oggi, confermando come dicevamo sopra i suoi
compiti atavici, il teatro dovrebbe rinunciare per quanto possibile
alla velocità, alla sovraesposizione a stimoli esterni e alla
memoria incancellabile del web e scegliere la lentezza che raccomanda
Calvino nelle Lezioni
Americane,
la concretezza che un singolo punto di fuoco dell’attenzione concede,
la riscoperta del caduco e del fallibile come valore.
D:
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e
artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca
che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente
tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica
opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la
realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena
contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e
interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto
possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti
efficaci per confrontarsi con esso?
Pretendiamo
un rapporto con il reale di profonda interrogazione. David Foster
Wallace, in un discorso ormai celebre, citò la storiella di un pesce
anziano che incontra due pesci giovani e gli chiede: salve, ragazzi,
oggi com’è l’acqua? E i due pesci giovani, un po’ stupiti, si
dicono: l’acqua? che cos’è l’acqua? La morale è prevedibile, ma non
così scontata. Molti aspetti del vivere quotidiano ci sono
sconosciuti, proprio perché vi siamo immersi, diventano invisibili,
nonostante il contesto che fa da sfondo a un’esperienza umana
determini silenziosamente quella stessa esperienza. Noi, in quanto
artisti, vogliamo capire di che qualità è l’acqua in cui siamo
immersi. Come farlo? Non è facile scoprirlo e forse non lo sappiamo
ancora. Possiamo dire però qualcosa sulle intenzioni. Tramontata
l’idea di un rapporto mimetico con la realtà, non accettiamo neanche
l’idea opposta, quella di destrutturare il reale. Ci interessa
piuttosto mettere in evidenza le contraddizioni e le mine inesplose
in esso contenute. Allo stesso tempo crediamo che l’immaginario del
pubblico sia già così completo e ricco (tutti hanno una propria
immagine mentale di una piazza, di Manhattan, di una spiaggia o di
Saturno) da aprire infinite possibilità creative sulla scena.
L’evocazione del reale può andare in qualunque direzione, sta a noi
artisti veicolarla verso interrogativi in grado di aprire crepe e
spaccature. Per ottenere un risultato quanto più vicino alle nostre
intenzioni, crediamo sia necessario mettere ordine, attraverso la
narrazione, nella complessità che il reale nasconde e schiaccia, una
complessità che non vogliamo sciogliere o risolvere, ma far
deflagrare.
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