Decima
intervista per Lo
Stato delle cose.
Questa settimana siamo a Bologna per incontrare i Kepler-452.
Anche a loro abbiamo posto le consuete cinque domande su
temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni
della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è
di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della
giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida
sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le
possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni
per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.
Kepler-452
nasce nel 2015 a Bologna dall’incontro tra Nicola
Borghesi,
Enrico
Baraldi e
Paola
Aiello.
Nel 2018 i Kepler-452
hanno
vinto il Premio
Rete Critica
con Il
giardino dei Ciliegi.
Sono fondatori del Festival
20-30 di Bologna.
D:
Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa
necessita per essere efficace?
La
creazione scenica per noi necessita di alcune condizioni che, di
fatto, ne determinano la peculiarità.
Una
volta messo a fuoco il tema di ricerca, proviamo a costruire nella
realtà delle relazioni con persone che abbiano a che fare con questo
tema: nel caso del Giardino dei ciliegi abbiamo incontrato Giuliano e
Annalisa Bianchi, che sono chi sarebbero, secondo il nostro punto di
vista, Ljuba e Gaev oggi; nel caso di F.-Perdere le cose abbiamo
portato in scena F., un immigrato nigeriano che ci ha
irresistibilmente centrati su alcune domande su identità, legalità
e possibilità dell’incontro che, abbiamo via via scoperto,
sarebbero state al centro del processo di costruzione dello
spettacolo. Quello che gli spettatori vedranno, poi, sarà un
estratto, una sintesi o anche un resoconto di questa relazione,
restituita attraverso il ricorso a dispositivi molto diversi tra loro
che ci vengono in qualche modo suggeriti dalla relazione stessa. È
come se noi salissimo lungo una scala buia e illuminassimo gli
scalini alle nostre spalle: il pubblico procederà subito dietro di
noi, senza saltare nessuna tappa, ma il suo percorso sarà libero
dagli inciampi non necessari.
Da
questa premessa discendono una serie di bisogni che determinano la
possibilità di creazione: innanzitutto, il tempo. Siamo abituati a
procedere a tentoni, un passo alla volta, senza forzare i tempi di
ricerca, individuazione, avvicinamento, ragionamento e costruzione.
Abbiamo bisogno di tempo per scegliere i nostri attori-mondo, i non
professionisti che parteciperanno al lavoro, abbiamo bisogno di tempo
per conoscerci, per trovare un modo di stare insieme, per farci delle
domande. Abbiamo bisogno anche di tempi morti, di “stare nel
brodo”, diciamo così, di trascorrere ore e giorni interi a
ricacciare l’urgenza di essere produttivi per concentrarci su
dettagli apparentemente poco significativi e che invece, non sempre
ma spesso, possono rivelarsi la chiave di volta per l’individuazione
di una strada da seguire, fertile da un punto di vista creativo. È
successo molte volte: un oggetto usato durante un’improvvisazione
brutta e lasciato in un angolo diventa poi il centro di un’altra
scena, una serata che pare trascorsa in chiacchiere spalanca un
immaginario che finalmente mette a fuoco un ragionamento prima vago.
Abbiamo bisogno, insomma, di un tempo lungo e non precisamente
quantificabile, che cerchiamo poi di quadrare sulla base delle
necessità produttive, in un equilibrio delicato e difficile.
Ed
eccoci a un’altra condizione necessaria: lavorando sulla base di
libere associazioni, ragionamenti e improvvisazioni, non possiamo
stabilire a monte un piano di regia ma costruiamo lo spettacolo un
passo alla volta, arrivando spesso a terminare il montaggio e a
fermare la scrittura proprio al momento del debutto o anche oltre, se
necessario. Questo vale per tutti gli elementi compositivi: la
drammaturgia, le scene, i costumi, le musiche, le luci, gli attori
stessi, tutto è oggetto di messa in discussione fino a che non
acquista un suo senso e si accorda con il resto. Nella restituzione
cerchiamo di essere il più possibile aderenti al processo di
elaborazione, di portare il processo al centro della scena e dobbiamo
assumerci, quindi, la libertà e la responsabilità di cambiare.
D: Oggi
gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto
evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle
residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da
fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione
sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli
nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa
sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Questa
domanda avrebbe una risposta molto semplice e una molto complessa.
Cominciando da quella semplice: lo Stato dovrebbe investire più
soldi, molti più soldi. Non esiste in realtà molto margine di
miglioramento se non si immaginano azioni che si aggiungano a quelle
esistenti anziché sostituirle.
Per quanto
riguarda la risposta complessa si potrebbe riassumere così: mettendo
al centro le esigenze dell’artista. Molto spesso accade,
soprattutto negli spazi più istituzionali, che sia l’artista,
soprattutto se giovane, a doversi adeguare alle modalità produttive
proposte dalla struttura. Dovrebbe essere tutto il contrario: sarebbe
la struttura, per quanto grande e complessa sia (anzi, vien da dire,
più è grande più dovrebbe avere risorse per farlo), a doversi
modellare sulle esigenze del gruppo, del regista, dell’opera
stessa. Il ritmo, le modalità, i tempi, dovrebbero essere dettati
dal piano artistico, mentre la struttura amministrativa,
organizzativa, tecnica, logistica, dovrebbe accompagnare dolcemente e
ponendosi continuamente la stessa domanda che si pone ogni giorno un
regista: con questa mia azione sto aiutando l’opera o il corretto
svolgersi delle azioni richieste dal ministero?
Anche perché
il teatro ha, come sua necessità, quella di rinnovarsi costantemente
e se una giovane compagnia è costretta ad aderire a modalità
produttive pensate per altri processi creativi precedenti, rischia di
adeguare anche la propria opera al contesto nel quale è costretta.
Purtroppo le
regole alle quali Nazionali, Tric e Centri di produzione devono
rispondere rendono questo ascolto e accompagnamento difficilmente
praticabili, anche se abbiamo visto con i nostri occhi tentativi
molto generosi.
Il complesso
problema della produzione sembra di una semplicità disarmante, di
fronte all’inestricabile groviglio di dati, problemi,
calcificazioni che evoca la distribuzione in Italia. Ancora una volta
c’è una risposta semplice: in presenza di contributi così
miserabili al teatro è ovvio che la distribuzione fatichi ad avere
una propria logica che non sia quella della sopravvivenza di ciascuno
(che non necessariamente coincide con la sopravvivenza del sistema).
Ci sarebbero molte contraddizioni da portare alla luce, parlando di
distribuzione, alcune delle quali legate al carattere peculiare del
popolo italiano, altre ancora fanno riferimento, ancora una volta, a
problemi sistemici. Una possibile risposta sintetica, molto vaga, ce
ne rendiamo conto, potrebbe essere questa: mettendo al centro lo
spettatore e le sue esigenze. Noi in qualche modo, con le pratiche
messe in campo da Festival 20 30, abbiamo tentato una risposta, che
passa attraverso la permanenza di qualche giorno delle compagnie
coinvolte nel festival. Probabilmente un modello di tournèe
“novecentesco”, in cui il rapporto con la comunità di
riferimento passa soltanto attraverso la “somministrazione” dello
spettacolo, è oggi immaginabile soltanto in pochi casi. In molti
altri ci pare abbia senso aprire un dialogo singolo e specifico tra
le compagnie e le comunità nelle quali queste arrivano.
D: La
distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto
debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono
impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la
visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un
vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente
solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo
tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e
prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o
professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di
distribuzione?
Per
rispondere a questa domanda, forse, torna utile una piccola storia di
censura portoghese che racconta spesso Tiago Rodrigues, direttore del
Teatro Nacional Dona Maria di Lisbona. Pare che durante il regime, in
Portogallo, la censura fosse particolarmente pervasiva e efficiente,
così come lo erano le astuzie e i sotterfugi messi in campo dagli
artisti per aggirarla. Nel 1958 uscì un film, con Sophia Loren,
ispirato a “Desiderio sotto gli olmi” di O’Neill, la cui
sceneggiatura era piuttosto simile alla drammaturgia originale. Un
gruppo di attori portoghesi, anche per sfruttare il buon successo de
film, decise di mettere in scena il testo di O’Neill e chiese
dunque l’autorizzazione ai censori portoghesi, fiduciosi di
ottenerla, dato che il testo del film era stato approvato dalla
stessa censura. Ebbene, i censori portoghesi rispondono che no, non
si può mettere in scena quel testo. Gli attori, stupiti, rispondono
con una lettera gentilissima, dai toni davvero garbati (i censori
portoghesi non dovevano essere dei tipi amichevoli) nella quale si
chiedeva con chiarezza: ma come, il testo del film è pressoché
identico e lo avete approvato, perché il nostro spettacolo no,
spiegateci, vi prego. I censori portoghesi rispondono, premettendo
che loro non sono tenuti a fornire alcuna spiegazione e infatti
generalmente non rispondono a domande simili, ma che in quello
specifico caso lo avrebbero fatto volentieri, perché il punto che si
andava a toccare era interessante. Rispondono che il problema sta
nella presenza fisica, che nel film con Sophia Loren accadono
situazioni scabrose e oscene che sono tollerabili soltanto se
interpretate da attori stranieri, che le hanno agite in un luogo
lontano e che pervengono al pubblico portoghese solo come
testimonianza impressa su pellicola. Gli attori portoghesi stanno
invece domandando di fare accadere quelle stesse azioni lì, in
Portogallo, in presenza di altri portoghesi, testimoni di loro
connazionali che, sotto il naso del regime, compiono davvero quelle
azioni oscene. È la presenza, la differenza. Ecco, in un contesto,
come il nostro, in cui gran parte dell’esistenza è mediata da
apparati tecnologici che sostituiscono la presenza fisica, il
riproporsi di quest’ultima, nella sua spietata unicità, ha forse
un significato politico ancora più detonante che durante la censura
portoghese. La differenza è che oggi il regime al quale ribellarsi
con la propria presenza fisica è assai più difficile da delineare e
non c’è nemmeno una casella di posta di censori (peraltro
brillanti) a cui scrivere.
D: La
società contemporanea si caratterizza sempre più in un
inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più
difficile distinguere tra online
e offline.
In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le
funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento
da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo
compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i
nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e
irripetibile ad ogni replica?
Anton Cechov
era solito aggirarsi per i caffè di Mosca con un quaderno in tasca
sul quale appuntava ossessivamente stralci di conversazioni, frasi,
pettegolezzi. Esistono diverse testimonianze di taluni nobili o
borghesi moscoviti che si sono sentiti offesi (o lusingati) per aver
riconosciuto una propria battuta all’interno di un testo
rappresentato al Teatro d’Arte.
Sono
molteplici gli esempi di un teatro, anche in epoche differenti dalla
nostra, in cui la realtà si è manifestata in scena con filtri più
o meno spessi, non credo sia una vera novità del nostro tempo.
Tuttavia negli ultimi anni ha tenuto banco un teatro che affonda le
sue radici nelle teorie artaudiane (penso uno per tutti a Romeo
Castellucci), con risultati di trasfigurazione della realtà in
immaginazione arrivati in alcuni casi a confondere e disorientare lo
spettatore al punto di dimenticarsi di lui e allontanarlo. Oggi
sembra emergere a gran voce una risposta totalmente opposta che
chiede disperatamente un contatto con il reale inteso come una forma
di rispecchiamento tra palco e platea. Questo tentativo nel nostro
caso si è declinato nel coinvolgimento in scena di
non-professionisti chiamati a raccontarsi e nella costruzione (con
attori professionisti) di “reportage teatrali” atti a mettere in
scena le nostre ricerche nel reale. Il risultato è stato ottenere un
dialogo con quella comunità di spettatori che difficilmente una
compagnia emergente riesce a intercettare. Portare sul palco questi
individui (cittadini comuni, o giovani studenti universitari, come
durante Festival 20 30) è servito da tramite per poter innescare il
dialogo palco-platea in una forma molto liquida in cui la distanza
tra chi siede in platea e chi sta sul palco è molto sottile. La
difficoltà forse sta nell’esplorare tutte le possibilità (e i
limiti) che offre questa sottigliezza.
D: Con la
proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali
grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo
definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea
di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra
arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa
come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea
non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi
sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con
il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per
confrontarsi con esso?
È difficile
indicare quali strumenti possano essere efficaci oggi per approcciare
il reale, forse ogni nuova opera ne richiede di diversi a seconda del
campo di indagine. Ad esempio, per quanto paradossale, il nostro
primo spettacolo di teatro partecipato [ndr.
Il Giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato
d’uso] ha adottato come strumento di
indagine un testo russo di inizio novecento: la realtà ha una forza
drammaturgica autonoma al pari di qualsiasi altra fonte di partenza,
sia esso un testo teatrale nuovo o vecchio che sia, un romanzo, un
saggio, un film.
Così come
si parte dall’analisi del testo per indagare un testo di
drammaturgia, sarebbe importante partire da una analisi del reale.
Milo Rau è un esempio in questo: i suoi riferimenti sono la
sociologia, l’antropologia, l’analisi sociale e politica, molto
più che la letteratura.
Nel nostro
caso ci piace dire che la lettura della realtà che tentiamo di
fornire sia inscritta in un diagramma che ha come ascissa il pensiero
di Marx e per ordinata quello di Freud. Ovvero tentiamo di
individuare come le dinamiche economiche proprie del capitalismo
influenzino gli aspetti psicologici degli individui e viceversa. Di
tutta questa teoria poi negli spettacoli forse emerge esplicitamente
ben poco, speriamo piuttosto lasci spazio, ancora una volta, alla
magia del teatro.
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