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Yin e yang

YIN E YANG: L’INSOSTENIBILE MUTEVOLEZZA DELL’ESSERE

In cinese i caratteri per Yin e Yang indicano una montagna con a fianco la luna o il sole a determinare il versante assolato o ombroso del monte. Nella rappresentazione ideografica dei due principi motori del Tao vi è implicita la transizione degli astri, un movimento dinamico non il permanere statico. Lao Tze, patriarca del taoismo, recita nel Tao Te Ching (Il libro della via e della virtù): la Via veramente Via non è una Via costante.

Yin e Yang si alternano, non si oppongono: quando uno ascende, l’altro all’opposto decresce. Nell’I-Ching (Libro dei Mutamenti), la linea intera (Yang) e la linea spezzata (Yin) generano dapprima gli otto trigrammi (gli elementi) e in seguito i sessantaquattro esagrammi, vessilli grafici degli stati mutevoli dell’essere, sempre transeunte. L’essere che si pone davanti ai nostri occhi non è dunque un monolite fatto di opposizioni manichee, ma è un caleidoscopio in perenne creazione di stati mutevoli. Il mondo si manifesta in infinite varianti generate dall’alternanza dei due principi in cui niente permane ma sempre si trasforma.

L’Occidente al tramonto, lontano ormai da quell’alba greca in cui la metamorfosi era fondamento della creazione e della meraviglia, si fossilizza sempre più nell’opposizione intransigente. O piace o non piace, o funziona o non funziona. Nessuna possibilità nel mezzo.

Evoluzione dei caratteri Yin e Yang nei secoli

In questo momento così fragile, complesso e problematico, le opposizioni non sfumano ma diventano granitiche. Qualsiasi idea o progetto si attui immediatamente genera partigiani e oppositori. Non si ha la pazienza di attendere, di comprendere, di osservare. Ci si scaglia o si difende a spada tratta. Non si ha nemmeno la compassione di comprendere la difficoltà di qualsiasi agire.

Questo avviene per i vari progetti di delivery teatrali e simili (Kepler-452, Spazio Franco, Teatro dei venti) così come il progetto Zona Rossa del Teatro Bellini di Napoli. Quest’ultimo poi è stato gravato dall’etichetta “Grande Fratello teatrale” banalizzando le intenzioni sottese a un atto che prova a essere di resistenza, coinvolgimento, creazione nonostante le difficoltà.

Sei artisti (non li chiamo attori perché le personalità coinvolte sono difficilmente inscrivibili in una sola categoria) Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, PierGiuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna, si chiuderanno in teatro senza sapere quando ne usciranno. In questa volontaria clausura faranno quello che sanno fare: proveranno a creare, ma senza l’assillo del risultato. E questo lo faranno davanti alle telecamere, esponendosi nel momento più fragile e solitamente più protetto. Potrebbe essere un fallimento, così come un momento meraviglioso ed eccitante di creazione. Non importa il risultato. Importa farlo nonostante tutto. Importa provare a comunicare la difficoltà e la meraviglia che accompagna qualsiasi atto creativo.

Alla fine del processo, potremo stare a disquisire di estetica, tecnica, funzionalità, etc. Oggi, nelle condizioni in cui siamo, possiamo solo sostenere chi ha deciso di impegnarsi in questo come in altri progetti. Proviamo per una volta a essere occhi che osservano senza giudizio, proviamo a esercitare la compassione verso le tensioni o aspirazioni altrui.

Questo non è un invito a lasciar perdere il senso critico. Anzi. Esercitiamolo con benevolenza e intento costruttivo. Esponiamo piuttosto punti di vista che possano essere utili e questo senza porsi come tanti Gesù nel tempio. Siamo solleciti nel proporre possibili variazioni e cambi di rotta laddove si presume esista una questione problematica, ma senza l’arroganza di chi pensa di avere la verità in tasca.

Il teatro, e le arti sceniche tutte, necessitano dell’apporto di ognuno per superare un momento che vedrà molti cambiamenti e non tutti positivi. Le difficoltà per il settore non finiranno insieme all’emergenza sanitaria, così come non sono cominciate con essa. Bisogna trovare insieme non una o due soluzioni, ma molte varianti perché l’evoluzione non procede per linea retta ma è un albero con infinite fronde.

Dellavalle/Petris

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DELLAVALLE/PETRIS

Per la trentaseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Thea Dellavalle e Irene Petris della Compagnia Dellavalle/Petris. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

La Compagnia Dellavalle/Petris nel 2013 realizza Un ballo (adattamento da Irène Némirowsky), nel 2014 Suzannah di Jon Fosse e nel 2018 con lo spettacolo The Dead Dogs dal testo di Jon Fosse ha vinto la seconda edizione di Forever Young. A febbraio 2020 collabora allo spettacoloEuthalia della scrittrice Luisa Stella che debutta allo Spazio Franco di Palermo.

D: Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica nasce sempre in un incontro tra più soggetti artistici; per quanto si possa progettare, predisporre e programmare, l’idea o il desiderio che la muove deve incarnarsi e attraversare diversi materiali, ma per primo il materiale umano, è soggetta al tempo e allo spazio e deve essere aperta a quello che l’incontro può portare e aggiungere, anche attraverso la crisi. Spesso accade, si rivela in modo imprevedibile e lo sforzo maggiore è rendere riproducibile l’atto dell’accadere. Le condizioni ideali sono quelle in cui si resta incerti ma liberi di affrontare il rischio con la consapevolezza che non si è mai soli, e questa non-solitudine include ovviamente il pubblico. E’ opportuno non dimenticare che le condizioni ideali per manifestarsi hanno bisogno di tempo, di corrispettivi materiali. E di alchimia.

Dellavalle/Petris
Euthalia
Dellavalle/Petris ph: @alessandro d’amico

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Nonostante i molti sforzi tesi a far funzionare il sistema, a rendere virtuosi i circuiti esistenti, ad aumentare le occasioni di produzione spesso la sensazione che prevale è quella di una grande fatica, anche per chi ottiene  risultati e riconoscimenti,  non solo per chi procede in direzione ostinata e contraria. L’eccezionalità del momento presente, lo stop forzato, ha rivelato in modo crudo il quadro di fragilità e purtroppo anche di storture che con fatica si teneva insieme. Nella “normalità” ci si muove a tutti i livelli in un contesto sempre precario, di incertezza che si ripercuote e riproduce dal grande al piccolo e che per tanti coincide con uno sforzo esistenziale nel tentativo di conciliare scelta artistica/lavorativa e sopravvivenza. Potremmo dirci che una crisi permanente è una condizione ideale: estremamente fertile e auspicabile in campo artistico dove può portare a risultati straordinari. Ma questa visione porta con sé un’ambiguità e in parte anche il rischio di un isolamento. Il fascino effimero dell’Arte del teatro non dev’essere scusa per non affrontare aspetti concreti, deve essere in confronto diretto con ciò che accade, parte di un contesto. Le difficoltà e anche le soluzioni si collocano quindi in un ambito più generale che non bisogna perdere di vista; servirebbe un maggiore investimento nella cultura, non solo in termini economici, né tanto meno retorici, ma un cambio di visione che restituisca dignità al lavoro culturale e artistico (ma forse in questo momento al lavoro in generale) e interesse e fiducia nel pubblico. È la percezione della cultura e del lavoro culturale che più ci distanzia dagli altri paesi europei con tutto ciò che in concreto questa percezione porta con sé: diritti dei lavoratori, garanzie economiche, dignità, un concetto di valore differente, non immediatamente monetizzabile. Per lo specifico teatrale sarebbe importante che l’orizzonte della progettualità artistica e della programmazione potesse includere tra le opzioni la scommessa e il fallimento, la possibilità di assumersi dei rischi per sostenere un’idea, per dare spazio al nuovo e per promuovere una fruizione che non sia solo a scopo di intrattenimento. E, sulla spinta anche di questo momento in cui la rappresentazione è negata o comunque “non libera”, dare spazio, dignità e diffusione alla distribuzione delle idee e sostegno a tutta quella parte di lavoro e ricerca che precede lo spettacolo.

Dellavalle/Petris
Dellavalle/Petris Dead Dogs

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione fino a ieri è stata questione misteriosa. Altre figure possono meglio di noi suggerire e individuare soluzioni pratiche di miglioramento della situazione presente, e su queste figure, sulle nuove visioni, bisognerebbe poter investire. Una distribuzione che funziona apre alla possibilità che uno spettacolo incontri più pubblico, che parli a un maggior numero di persone, che si confronti con diverse realtà ma c’è bisogno di un approccio di sistema. Possiamo analizzare il contesto in modo critico, individuare i punti deboli ma gli strumenti per risolverli non si possono trovare guardando solo al settore della distribuzione che continua ad oscillare tra instabilità, se troppo influenzato dai meccanismi di mercato, e fissità, quando preorganizzato (blindato) al momento della programmazione artistica (contestualmente alla scelta di un titolo ma prima della produzione vera e propria). Ci sembra, per esempio, che i limiti che tu evidenzi nella tua domanda contengano già in sé possibili risposte: rendere più permeabili i circuiti esistenti, dotare i festival di maggior forza economica, creare nuove reti aperte al mercato internazionale, ma anche dare vita più lunga agli spettacoli abituando il pubblico al repertorio. Forse occorrerebbe incrociare un po’ le logiche, farle comunicare tra loro per creare una proposta di correttivi efficaci al decreto ministeriale che tanto peso ha nell’orientare la politica teatrale. Tralasciando le splendide, fortunate e virtuosissime eccezioni, che, per fortuna, esistono ma tuttavia non bastano, ci si confronta spesso con situazioni paradossali: proprio le realtà più coraggiose e aperte e che promuovono il nuovo diventano i tuoi primi creditori o la prima causa di un debito che aumenta perché mancano delle risorse per pagare i cachet, non hanno abbastanza pubblico, o posti a sedere per garantire un incasso. Alcune logiche non dipendono solo dalla riforma del FUS. Molto dipende da noi: il nostro agire è sostenibile? a che punto smette di esserlo, a spese di chi? In Europa, in Francia per esempio, cosa cambia? Non crediamo che sia tutto rose e fiori, non siamo  sicure che la distribuzione funzioni effettivamente meglio. Ma ci sono più tutele. Se lo spettacolo debutta e non fa repliche, l’artista accusa il danno morale ma meno quello materiale: “c’est l’intermittance messieurs-dames”, e non è una piccola differenza. In assenza di tutele si alimentano circoli viziosi. Questo era vero fino a ieri ed è emerso adesso con forza drammatica. Siamo in un tempo sospeso in cui nessuno sa quale sarà il teatro futuro da distribuire, a chi e come… ad oggi non sappiamo neanche se ci sarà…, non sappiamo niente ma, anche ammesso che si tratti di una bolla, l’idea di un ritorno alla normalità non è poi così rassicurante, se la normalità “restaura”, se il ritorno al teatro spegne gli interrogativi. Anche la normalità va risignificata, occorre essere attenti, prendersi il tempo di pensare, non farsi troppo spaventare. Il thatcheriano “There is no alternative”, va per la maggiore in ambiti ben più estesi e rilevanti di quello teatrale, ma questo tempo che ha sovvertito le nostre abitudini ci ha insegnato e ci insegna che non c’è niente di immutabile. Quando il ritornello, che ha il sapore di un alibi, si sente risuonare nei pressi del palcoscenico è preoccupante. Proprio noi che ci vogliamo occupare di cultura e di arte, non possiamo rinunciare a immaginare e a creare deviazioni, quelle mutazioni del codice genetico che portano al salto evolutivo.

Dellavalle/Petris
Suzannah Bruna Rossi ph:@riccardo salari

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il teatro per come lo conosciamo è un’esperienza senza filtro, un incontro senza schermo. A teatro il nostro essere presenti entro il limite del corpo nello spazio e nel tempo, circondati dal confine sensibile della pelle, non è vissuto come un limite, possiamo fare a meno delle protesi tecnologiche che ci fingono più veloci, efficienti e potenti di quanto non siamo, possiamo essere uomini e basta. Possiamo ricordarci che essere uomini basta. Un buon promemoria. A cui secondo noi è importante non rinunciare.

Questo non vuol dire che non si possano sperimentare altre forme e altri mezzi che mettano in discussione le abitudini. Il vincolo del presente può essere un’occasione se dà spazio ad una vera ricerca, se la sperimentazione è guidata dalla curiosità verso i mezzi, gli artisti e il pubblico, se, a partire da elementi base, presenza, relazione, sguardo, distanza, si pone in forma di domanda non se vuole essere risposta frettolosa, automatica e univoca per sostituire un’esperienza al momento non possibile. Verso che orizzonte vogliamo guardare?

Dellavalle/Petris
The Dead Dogs _ luca mammoli irene petris giusto cucchiarini federica fabiani ph: @andrea macchia

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Al di là delle forme o delle stilistiche, dei vari ismi, che sono poi nomi che diamo alle esperienze per raccoglierle e catalogarle, il teatro è in azione nel reale. Indipendentemente dal tema che sceglie è nel presente perché rivolge domande a un pubblico che vive nel presente e che riporta ciò che vede e sente a teatro alla propria esperienza. Agisce nello scarto, a volte sottile a volte abissale, tra il reale e il rappresentato; in base alle scelte di linguaggio puoi giocare con questa distanza che può tendere all’infinito senza che i due piani si possano escludere o tendere ad annullarsi senza che possano coincidere davvero. Gli strumenti variano di volta in volta ma ogni lavoro artistico continua a godere dello statuto speciale della rappresentazione: in teatro si può fare tutto, per finta, per davvero.

Giuseppe Provinzano

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GIUSEPPE PROVINZANO

Per la ventiquattresima intervista de Lo Stato delle cose incontriamo nella stupenda Palermo Giuseppe Provinzano. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Giuseppe Provinzano è Attore, regista e autore. Diplomatosi alla Scuola di Recitazione del Teatro Biondo di Palermo, studia inoltre all’Ecole des Maitres e all’ Heiner Muller Geselshaft. Inizia la carriera nel 2001 nel Candelaio di Ronconi. Dirige lo Spazio Franco a Palermo.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Credo sia difficile per chiunque si muova all’interno di un percorso di ricerca definire nettamente la peculiarità della propria creazione scenica: essa é composta da diversi elementi la cui composizione va a definire il proprio lavoro. Questa “composizione”, se parliamo di un percorso di ricerca, è sempre in continua mutazione laddove, se cosí non dovesse essere, potremmo parlare piuttosto di un percorso assimilabile alla definizione di bestie da stile di pasoliniana memoria ( una “cosa” funziona, piace e la ripeto stilisticamente quante più volte, finché funziona). Per quanto mi riguarda credo che la peculiarità della creazione scenica stia proprio in questa continua ricerca di una “nuova ricetta” tra i vari elementi che la compongono, nella definizione di una nuova “formula”: che sia una nuova storia da scrivere su un tema di cui sento necessario lo studio, la stesura di nuove strutture drammaturgiche che definiscono nuove relazioni tra nuovi personaggi, nuove parole e nuovi linguaggi, nuove interpretazioni di un testo così come nuove traduzioni (che contemplino l’etimologico significato di tradere), nuove modalità di approccio nel lavoro registico, attoriale e scenico, nuovi percorsi per interpretarli. In ogni pratica del lavoro teatrale, ritengo peculiare la capacità del processo creativo (e in qualche modo anche della singola creazione) di essere sempre diversi da se stessi, o meglio ancora, di percorrere un processo in continua evoluzione (da un lavoro a un altro ma anche da una recita a un’altra): in riferimento agli spazi sempre diversi che si attraversano, al tempo che scorre, ai luoghi e i suoi contesti sociali, ai temi affrontati e alla loro contemporaneità mutevole.

Io personalmente amo gli artisti che rischiano (nel teatro, nella danza, nel cinema, nella musica ecc ecc), quelli di cui percepisco il rischio che si prendono nel cercare sempre qualcosa di diverso e/o in evoluzione, disattendendo (e fregandosene) le aspettative stilistiche da parte di pubblico e operatori, mentre, sebbene ne riconosca e ne apprezzi le qualità, sono meno curioso nei confronti dei “bei confezionamenti” anche quando questi risultano splendidi. L’assunzione e la consapevolezza di un rischio li considero elementi peculiari in una creazione scenica.

Inoltre peculiare é per me la coltivazione di un continuo dubbio da dirimere, da vivere e interpretare ogni singola replica e da restituire al pubblico, coltivare le domande che fanno necessaria la creazione come materia viva. Tenere vivo il processo e l’atto creativo in un continuum che va oltre la rappresentazione in sé. Questo si collega in qualche modo con la necessità di un’efficacia o a che cosa sia necessario perché lo sia: credo che il teatro sia sempre un atto politico, un atto sociale che si rivolge a un pubblico vivo e di cui avere sempre grande rispetto: credo molto alla funzione sociale, politica e culturale dell’atto teatrale. Ogni volta che mi trovo in difficoltà ho la fortuna, a Palermo, di passare davanti al Teatro Massimo e leggere sul frontone la seguente frase che in merito scioglie spesso i miei dubbi. L’ARTE RINNOVA I POPOLI E NE RIVELA LA VITA, VANO DELLE SCENE IL DILETTO OVE NON MIRI A PREPARAR L’AVVENIRE.

Giuseppe Provinzano Munnizza

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Rispondere a questa domanda proprio in questi giorni di emergenza nazionale, le cui misure restrittive stanno mettendo a dura prova tutti i settori produttivi, dando però la netta sensazione di quanto fragile sia lo spettacolo dal vivo, sposta di molto la sostanza della mia risposta. Siamo in attesa delle contro-misure ma mi sembra oggettivo che questo stia ricevendo una mazzata dalla quale risollevarsi sarà ben più complesso che in altri settori se non prevedendo degli interventi Pubblici concreti e massicci e probabilmente, lo spero davvero, ci troviamo di fronte a un punto di non ritorno.

Partendo dalla tua sollecitazione, laddove mi citi a confronto (e giustamente) “un contesto europeo più agile ed efficiente”, qualche settimana fa ti avrei forse parlato della necessità di migliorare i modelli di produzione e renderli capaci di una sostenibilità di medio-lungo termine, sviluppando quei modelli capaci di dirigersi verso quella che all’estero viene definita creazione produttiva sovvertendo il focus semantico rispetto alla comune produzione creativa; ti avrei detto, senza troppi giri di parole, di non poter nemmeno paragonare i modelli europei se non partendo dalla condizione necessaria di investimenti maggiori sulla cultura da parte dello Stato pari almeno alla media europea; ti avrei parlato della necessità di una più adeguata professionalizzazione dei mestieri dello spettacolo a tutela dei lavoratori stessi, avrei accennato alla mobilità internazionale, insomma avrei forse risposto elencando tutte quelle tendenze, di mia conoscenza, del comparto dello spettacolo verso la cui direzione si muove il resto d’Europa e che si possono sintetizzare nella necessità di andare oltre al concetto pseudo-capitalistico che sta ammantando il nostro settore del produci-debutta-crepa-produci di nuovo, puntando piuttosto al percorso di crescita, di sostegno e consolidamento del lavoro e delle pratiche degli artisti e degli operatori e del loro impatto sul mercato… ecc ecc . Beh tutti ragionamenti che, in questi giorni in cui abbiamo visto emergere la fragilità del nostro sistema lasciano il tempo che trovano: ci siamo scoperti di colpo inconsistenti, pur sapendolo già, abbiamo scoperto quanto é vano ed etereo il nostro lavoro, non certo da un punto di vista artistico o culturale, ma sicuramente da un punto di vista, chiamiamolo per intenderci, “sindacale”. Spero che, superata l’emergenza, un punto dal quale ripartire sia quello di andare a consolidare alla base il nostro lavoro con maggiori investimenti pubblici, come servizio essenziale successivo solo a Sanità e Istruzione. Per entrare nel dettaglio delle nostre pratiche vorrei si ragionasse una volta per tutte su una nuova, agognata da tempo, considerazione della dinamica del nostro lavoro e aver riconosciuto anche in Italia il concetto di lavoro intermittente quale naturale riconoscimento dello stato delle cose dei mestieri dello spettacolo. E se il primo di questi aspetti può sembrare un’utopia, il secondo sarebbe anche di facile attuazione laddove si riesca, una volta per tutte, a essere coesi e richiedere come comparto una svolta epocale ma, alla luce di quanto disastrosamente in atto, fondamentale. 


D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Nel nostro ultimo spettacolo “To play or to die” affrontiamo la crisi culturale in cui verte il nostro paese attraverso lo specchio deformante della crisi dello spettacolo dal vivo, una crisi rappresentata, vista e vissuta attraverso la metaforica situazione di 2 attori che avrebbero dovuto interpretare i personaggi di Amleto e di Ofelia, rimasti soli nella difficile condizione di scegliere se fermarsi o continuare con tutti i mezzi che il teatro (ci) permette. In un passaggio dello spettacolo c’é una battuta che può dare il là a un ragionamento: “ (..) per ogni spettacolo che va in scena ce ne sono 2 che restano nella sala prove (..)” . E’ bene partire dai freddi numeri per innescare un meccanismo: in Italia la richiesta é 3 volte inferiore all’offerta. Il numero delle programmazioni sono 3 volte inferiori al numero di spettacoli prodotti ogni anno in Italia: questo crea, senza ombra di dubbio, una disfunzione alla base di qualsiasi ragionamento o strategia che può starci attorno alla distribuzione di qualsiasi spettacolo a ogni livello. Inoltre questo squilibrio tra domanda e offerta soffre di sbalzi notevoli tra Nord, Centro e Sud dell’Italia laddove, e parlo da teatrante del Sud, la forbice si ampia spaventosamente raggiungendo in certi territori percentuali ben più preoccupanti (al Sud parliamo di un numero di programmazioni 5/6 volte inferiore alle produzioni) Quindi tra le prime misure da prendere direi che bisognerebbe partire da questo: o si producono meno spettacoli ( e sto provocando) o si aumenta il numero di programmazioni ( e sto invocando). Non é un caso che negli ultimi 10/15 anni é del tutto scomparsa quella che é ormai a tutti gli effetti una figura mitologica: IL DISTRIBUTORE. Non esiste per svariati motivi: perché i numeri di cui sopra non permettono e non prevedono delle figure dedicate in un mercato saturo e in un costante over-booking; perché la distribuzione oramai é diventata solamente una pratica del management e dell’organizzazione il che prevederebbe maggiore applicazione e professionalizzazione ma troppo spesso è soggetta all’improvvisazione; perché il nostro sistema dove non é clientelare, è amicale e dove non è amicale e modaiolo. Se poi vogliamo confrontarci con i meccanismi di distribuzione internazionale allora ritorniamo alla risposta precedente: gli altri paesi Europei investono cifre ben più sostanziose sulla mobilità dei propri artisti oltre i propri confini, esistono dei programmi strutturati e dei specifici dipartimenti in alcuni paesi che fanno promozione a più livelli dei propri artisti: portano in giro per l’Europa sia gli artisti di livello assoluto ma anche tanti altri artisti che in Italia sarebbero definiti “compagnia giovane” (pur avendo tutti figli a carico e tanti anni di palcoscenico sulle spalle). L’ultimo decreto ministeriale che regolamenta il teatro italiano guarda a suo modo all’Europa, richiedendo piuttosto una maggiore stanzialità nei territori (senza interventi strutturali nei territori), non stimolando più di tanto la natura girovaga del teatro italiano e ispirandosi in qualche modo a quello che avviene, lo si dice spesso e grossolanamente, a quello che avviene in paesi come la Germania. C’è bisogno che specifichi quali e quante differenze ci siano tra le due realtà in termini di strutture, modalità di produzione, investimenti sulla cultura, welfare, finanziamenti ecc ecc ? Ti dico solo che in Germania, nel fronteggiare il Covid-19 e assumere le misure restrittive, il Ministro della Cultura ha chiesto che la Cultura fosse considerato tra i beni prioritari da tutelare in questo momento in termini di sostegno. Franceschini che ha detto? Fate più streaming possibile.

Spazio Franco a Palermo

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile sviluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Anche questa risposta subisce in qualche modo riflessioni differenti relativamente ai giorni che stiamo passando. Il blocco delle programmazioni ha spinto molti a reagire provando a trasportare il teatro in video, cercando di trasporsi dal vettore analogico allo streaming. Detto che il web ha altri vettori, una differente e nettamente piú veloce tempistica di assorbimento e dissolvimento dell’atto creativo, tempi emotivi e relazionali ben diversi da quelli del teatro o in generale dello spettacolo dal vivo, a mio modesto avviso, nel pieno rispetto di chiunque si sta adoperando in questa direzione, io vedo questa come la morte del teatro stesso, laddove conveniamo tutti ( chi si sta adoperando e chi no) che questa non si puó definire nemmeno un’alternativa ma piuttosto un surrogato. Il Teatro é un atto sociale che necessita di relazioni, un processo vivo e vivente che presuppone un’azione e una reazione tra creazione scenica e pubblico. In assenza di questo rapporto non possiamo piú parlare di teatro. Il Teatro non si può misurare con gli ascolti come invece può avvenire per chi produce musica ( vd. Il rapporto tra musicisti e piattaforme quali Spotify) o con le visualizzazioni di un video … perché, sebbene anche queste abbiano bisogno di una qualche reazione da parte del fruitore, il rapporto con il Live é qualcosa che rende magnificente qualsiasi opera d’arte. Lo é per la musica lo é soprattutto con il teatro. Quando si dice, frase che sembra scontata ma non lo é, che “uno spettacolo non é mai uguale” .. ecco, l’essenza semantica di questa frase credo che sia proprio nelle relazioni ( visive, cognitive, intellettuali, sonore, ematiche ed emotive ecc) che mette in moto uno spettacolo dal vivo: per uno spettacolo essere uguale ogni giorno dovrebbe esserci ogni giorno lo stesso pubblico che reagisce allo stesso modo ( di fatto impossibile quando vedi una cosa per la seconda volta) a una creazione scenica che viene recitata allo stesso modo (cosa che accade ma che spesso evidenzia tutti i suoi limiti). In conclusione, a rendere unico e irripetibile ogni replica non é la replica in sé ma ciò che questa scatena e di cui si nutre.

D.: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Ho sempre detto agli attori che lavorano con me che a mio avviso non é piu tempo per un teatro naturalistico/riproduttivo, che non mi interessa imitare la realtà ma piuttosto rappresentarla, che non basta rappresentarla ma interpretarla per attraversarla e/o porla davanti a uno specchio deformante. Faccio questo ragionamento: il secolo scorso ci ha regalato la Fotografia prima e il Cinema poi (e tutto quanto ne è conseguito) e credo che a queste due Arti spetti, perché meglio capaci, la funzione di riprodurre la realtà. Il confronto con la realtà, per un teatro che, come suddetto, considero come atto politico e sociale, è conditio sine qua non ma il rapporto possibile con la realtà tocca gli strumenti del linguaggio scenico e credo che il teatro contemporaneo risulti efficace solo se capace di andare oltre a qualsiasi processo di semplice riproduzione.

Vedo nei ragazzi più giovani che frequentano lo Spazio Franco e/o il Progetto Amuni (il percorso di formazione ai mestieri dello spettacolo rivolto a ragazzi stranieri e italiani di seconda generazione) un maggiore interesse per il teatro quando non é reale: quando vogliono vedere la realtà si rivolgono al web, ai video, ai film … mentre si innamorano del teatro quando vedono la trasformazione della realtà seppure in un processo vivo vero e reale come la creazione scenica. Vedono qualcosa di vero tangibile e sudato che non é reale nel riprodurre ma lo è nelle emozioni.

Ti racconto questa: durante le prove di “To play or to die” l’attrice che lavorava con me (Chiara Muscato), durante una pausa, si trovò a discutere con un giovane studente del Centro Sperimentale di Cinematografia a cui chiese che senso avesse il teatro per uno che studiava cinema. La risposta fu spiazzante e ci ha fatto discutere a lungo: “ (..) che senso ha continuare ad usare la zappa quando hanno inventato l’aratro (..)”. Ecco, il ragazzo non aveva torto se consideriamo il solo processo riproduttivo e naturalistico della realtà: il cinema é nettamente superiore al teatro, come la realtà virtuale lo sarà del cinema, dissi istintivamente io. Però giungemmo a un’altra considerazione dopo qualche giorno per potergli rispondere: “ (.. fare teatro ..) ha lo stesso senso per cui preferiamo fare sesso dal vivo piuttosto che guardare materiale pornografico o fare sesso virtuale”. Annuì. Venne a vederci qualche settimana dopo.