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Il giardino dei ciliegi

ALESSANDRO SERRA: IL GIARDINO DEI CILIEGI

L’immagine iniziale de Il giardino dei ciliegi diretto da Alessandro Serra ricorda un bellissimo racconto breve di Kafka intitolato Di notte: “Sprofondato nella notte. […] Gli uomini intorno dormono. Una piccola commedia, un’innocente illusione che dormano nelle loro case, nei letti solidi, sotto un tetto solido”, e giunge un lume da dietro il fondale, poi entro la stanza: “uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”. Da questo momento ecco il risveglio, tutto prende vita, inizia il vortice di risolini e piccoli pianti intorno al destino del giardino dei ciliegi.

Alessandro Serra fa danzare il testo di Čechov. La sua più che una regia è una coreografia, e la danza è quella degli appestati, di coloro che festeggiano sull’orlo dell’abisso che incombe solo un passo più in là. Le immagini evocate appaiono tutte a prima vista innocenti, serene, carezzevoli. Eppure un retrogusto di stantio, di muffo, di defunto non abbandona il palato. I fermo-immagine color seppia che evocano i ferrotipi e gli ambrotipi non parlano forse di un mondo morto? E gli oggetti? Il carrello, le sedie da giardino in ferro battuto, le valigie e le cappelliere, gli ombrellini da passeggio in pizzo? Non siamo di fronte a una ricostruzione suppur un poco surreale, per quanto a prima vista possa parere. È un mondo di fantasmi quello che appare davanti ai nostri occhi, di anime morte ignare del fulmine che si abbatteva su di loro. E non ci sono nemmeno vincitori e sconfitti tra quei balli, festicciole, e ritrovi di famiglia e amici. Tutti saranno travolti dalla nera tempesta che si profilava all’orizzonte e verso la quale nessuno volge gli occhi. Nel finale infatti si torna alla landa desolata i cui tutti dormono. Solo Firs si aggira tra loro, ma poi si accascia, si sdraia bocconi e, dopo un ultimo risolino, il silenzio. Non vi è nemmeno più colui che veglia.

Il giardino dei ciliegi
Il giardino dei ciliegi ph:@Alessandro Serra

Il movimento e il ritmo, di cui Alessandro Serra è padrone, sono proprio i sintomi più evidenti di tale sprofondare nell’abisso. Come diceva Ernesto De Martino: “In tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione; il mondo crolla, sprofonda”.

Le immagini sono cesellate, frutto di estrema cura. I quadri si susseguono come in una galleria. Ogni gesto o movimento è dosato e mai abusato. Tutto concorre a far emergere un gusto complesso, di dolce, di zuccheroso a nascondere il marcio che pur affiora. Probabilmente tutto ciò sfugge alle intenzioni volte più a far risaltare, come recita il programma di sala, una stanza per bambini e un sentimento legato a un’età lontana e come dimenticata. Ma l’opera spesso sfugge dalle mani dell’autore, rivela altri sentieri, sollecita altre visioni, e questo rivela la ricchezza di una scrittura al di là del tempo e delle interpretazioni.

Il giardino dei ciliegi

Il giardino dei ciliegi è stata l’ultima opera di Čechov ad andare in scena. Era il 1904 al Teatro d’arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij. Se Čechov aveva concepito l’opera come una commedia, Stanislavskij la interpretò come una tragedia. C’era dunque presente un’ambivalenza nella vicenda che faceva oscillare da un estremo all’altro, una ricchezza di punti di vista per un piccolo enigma. Passati sei mesi da quella prima Čechov morì di tubercolosi. Il grande scrittore se ne andava poco prima dei colpi di cannone. Nel 1905 scoppiarono infatti in tutta la Russia moti contadini e operai, un prologo a quella definitiva del 1917 che mise fine alla Russia zarista. La maggior parte non si aspettava un tale esito. Come i personaggi de Il giardino dei ciliegi molti non compresero i segnali di tempesta che incombevano su una società morente. Oggi come allora siamo ciechi. Tra feste e balli facciamo di tutto per ignorare i colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi

Visto al Teatro Astra di Torino il 15 febbraio 2020

Kepler-452

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A KEPLER-452

Decima intervista per Lo Stato delle cose. Questa settimana siamo a Bologna per incontrare i Kepler-452. Anche a loro abbiamo posto le consuete cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Kepler-452 nasce nel 2015 a Bologna dall’incontro tra Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello. Nel 2018 i Kepler-452 hanno vinto il Premio Rete Critica con Il giardino dei Ciliegi. Sono fondatori del Festival 20-30 di Bologna.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica per noi necessita di alcune condizioni che, di fatto, ne determinano la peculiarità.

Una volta messo a fuoco il tema di ricerca, proviamo a costruire nella realtà delle relazioni con persone che abbiano a che fare con questo tema: nel caso del Giardino dei ciliegi abbiamo incontrato Giuliano e Annalisa Bianchi, che sono chi sarebbero, secondo il nostro punto di vista, Ljuba e Gaev oggi; nel caso di F.-Perdere le cose abbiamo portato in scena F., un immigrato nigeriano che ci ha irresistibilmente centrati su alcune domande su identità, legalità e possibilità dell’incontro che, abbiamo via via scoperto, sarebbero state al centro del processo di costruzione dello spettacolo. Quello che gli spettatori vedranno, poi, sarà un estratto, una sintesi o anche un resoconto di questa relazione, restituita attraverso il ricorso a dispositivi molto diversi tra loro che ci vengono in qualche modo suggeriti dalla relazione stessa. È come se noi salissimo lungo una scala buia e illuminassimo gli scalini alle nostre spalle: il pubblico procederà subito dietro di noi, senza saltare nessuna tappa, ma il suo percorso sarà libero dagli inciampi non necessari.

Da questa premessa discendono una serie di bisogni che determinano la possibilità di creazione: innanzitutto, il tempo. Siamo abituati a procedere a tentoni, un passo alla volta, senza forzare i tempi di ricerca, individuazione, avvicinamento, ragionamento e costruzione. Abbiamo bisogno di tempo per scegliere i nostri attori-mondo, i non professionisti che parteciperanno al lavoro, abbiamo bisogno di tempo per conoscerci, per trovare un modo di stare insieme, per farci delle domande. Abbiamo bisogno anche di tempi morti, di “stare nel brodo”, diciamo così, di trascorrere ore e giorni interi a ricacciare l’urgenza di essere produttivi per concentrarci su dettagli apparentemente poco significativi e che invece, non sempre ma spesso, possono rivelarsi la chiave di volta per l’individuazione di una strada da seguire, fertile da un punto di vista creativo. È successo molte volte: un oggetto usato durante un’improvvisazione brutta e lasciato in un angolo diventa poi il centro di un’altra scena, una serata che pare trascorsa in chiacchiere spalanca un immaginario che finalmente mette a fuoco un ragionamento prima vago. Abbiamo bisogno, insomma, di un tempo lungo e non precisamente quantificabile, che cerchiamo poi di quadrare sulla base delle necessità produttive, in un equilibrio delicato e difficile.

Ed eccoci a un’altra condizione necessaria: lavorando sulla base di libere associazioni, ragionamenti e improvvisazioni, non possiamo stabilire a monte un piano di regia ma costruiamo lo spettacolo un passo alla volta, arrivando spesso a terminare il montaggio e a fermare la scrittura proprio al momento del debutto o anche oltre, se necessario. Questo vale per tutti gli elementi compositivi: la drammaturgia, le scene, i costumi, le musiche, le luci, gli attori stessi, tutto è oggetto di messa in discussione fino a che non acquista un suo senso e si accorda con il resto. Nella restituzione cerchiamo di essere il più possibile aderenti al processo di elaborazione, di portare il processo al centro della scena e dobbiamo assumerci, quindi, la libertà e la responsabilità di cambiare.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Questa domanda avrebbe una risposta molto semplice e una molto complessa. Cominciando da quella semplice: lo Stato dovrebbe investire più soldi, molti più soldi. Non esiste in realtà molto margine di miglioramento se non si immaginano azioni che si aggiungano a quelle esistenti anziché sostituirle.

Per quanto riguarda la risposta complessa si potrebbe riassumere così: mettendo al centro le esigenze dell’artista. Molto spesso accade, soprattutto negli spazi più istituzionali, che sia l’artista, soprattutto se giovane, a doversi adeguare alle modalità produttive proposte dalla struttura. Dovrebbe essere tutto il contrario: sarebbe la struttura, per quanto grande e complessa sia (anzi, vien da dire, più è grande più dovrebbe avere risorse per farlo), a doversi modellare sulle esigenze del gruppo, del regista, dell’opera stessa. Il ritmo, le modalità, i tempi, dovrebbero essere dettati dal piano artistico, mentre la struttura amministrativa, organizzativa, tecnica, logistica, dovrebbe accompagnare dolcemente e ponendosi continuamente la stessa domanda che si pone ogni giorno un regista: con questa mia azione sto aiutando l’opera o il corretto svolgersi delle azioni richieste dal ministero?

Anche perché il teatro ha, come sua necessità, quella di rinnovarsi costantemente e se una giovane compagnia è costretta ad aderire a modalità produttive pensate per altri processi creativi precedenti, rischia di adeguare anche la propria opera al contesto nel quale è costretta.

Purtroppo le regole alle quali Nazionali, Tric e Centri di produzione devono rispondere rendono questo ascolto e accompagnamento difficilmente praticabili, anche se abbiamo visto con i nostri occhi tentativi molto generosi.

Il complesso problema della produzione sembra di una semplicità disarmante, di fronte all’inestricabile groviglio di dati, problemi, calcificazioni che evoca la distribuzione in Italia. Ancora una volta c’è una risposta semplice: in presenza di contributi così miserabili al teatro è ovvio che la distribuzione fatichi ad avere una propria logica che non sia quella della sopravvivenza di ciascuno (che non necessariamente coincide con la sopravvivenza del sistema). Ci sarebbero molte contraddizioni da portare alla luce, parlando di distribuzione, alcune delle quali legate al carattere peculiare del popolo italiano, altre ancora fanno riferimento, ancora una volta, a problemi sistemici. Una possibile risposta sintetica, molto vaga, ce ne rendiamo conto, potrebbe essere questa: mettendo al centro lo spettatore e le sue esigenze. Noi in qualche modo, con le pratiche messe in campo da Festival 20 30, abbiamo tentato una risposta, che passa attraverso la permanenza di qualche giorno delle compagnie coinvolte nel festival. Probabilmente un modello di tournèe “novecentesco”, in cui il rapporto con la comunità di riferimento passa soltanto attraverso la “somministrazione” dello spettacolo, è oggi immaginabile soltanto in pochi casi. In molti altri ci pare abbia senso aprire un dialogo singolo e specifico tra le compagnie e le comunità nelle quali queste arrivano.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Per rispondere a questa domanda, forse, torna utile una piccola storia di censura portoghese che racconta spesso Tiago Rodrigues, direttore del Teatro Nacional Dona Maria di Lisbona. Pare che durante il regime, in Portogallo, la censura fosse particolarmente pervasiva e efficiente, così come lo erano le astuzie e i sotterfugi messi in campo dagli artisti per aggirarla. Nel 1958 uscì un film, con Sophia Loren, ispirato a “Desiderio sotto gli olmi” di O’Neill, la cui sceneggiatura era piuttosto simile alla drammaturgia originale. Un gruppo di attori portoghesi, anche per sfruttare il buon successo de film, decise di mettere in scena il testo di O’Neill e chiese dunque l’autorizzazione ai censori portoghesi, fiduciosi di ottenerla, dato che il testo del film era stato approvato dalla stessa censura. Ebbene, i censori portoghesi rispondono che no, non si può mettere in scena quel testo. Gli attori, stupiti, rispondono con una lettera gentilissima, dai toni davvero garbati (i censori portoghesi non dovevano essere dei tipi amichevoli) nella quale si chiedeva con chiarezza: ma come, il testo del film è pressoché identico e lo avete approvato, perché il nostro spettacolo no, spiegateci, vi prego. I censori portoghesi rispondono, premettendo che loro non sono tenuti a fornire alcuna spiegazione e infatti generalmente non rispondono a domande simili, ma che in quello specifico caso lo avrebbero fatto volentieri, perché il punto che si andava a toccare era interessante. Rispondono che il problema sta nella presenza fisica, che nel film con Sophia Loren accadono situazioni scabrose e oscene che sono tollerabili soltanto se interpretate da attori stranieri, che le hanno agite in un luogo lontano e che pervengono al pubblico portoghese solo come testimonianza impressa su pellicola. Gli attori portoghesi stanno invece domandando di fare accadere quelle stesse azioni lì, in Portogallo, in presenza di altri portoghesi, testimoni di loro connazionali che, sotto il naso del regime, compiono davvero quelle azioni oscene. È la presenza, la differenza. Ecco, in un contesto, come il nostro, in cui gran parte dell’esistenza è mediata da apparati tecnologici che sostituiscono la presenza fisica, il riproporsi di quest’ultima, nella sua spietata unicità, ha forse un significato politico ancora più detonante che durante la censura portoghese. La differenza è che oggi il regime al quale ribellarsi con la propria presenza fisica è assai più difficile da delineare e non c’è nemmeno una casella di posta di censori (peraltro brillanti) a cui scrivere.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Anton Cechov era solito aggirarsi per i caffè di Mosca con un quaderno in tasca sul quale appuntava ossessivamente stralci di conversazioni, frasi, pettegolezzi. Esistono diverse testimonianze di taluni nobili o borghesi moscoviti che si sono sentiti offesi (o lusingati) per aver riconosciuto una propria battuta all’interno di un testo rappresentato al Teatro d’Arte.

Sono molteplici gli esempi di un teatro, anche in epoche differenti dalla nostra, in cui la realtà si è manifestata in scena con filtri più o meno spessi, non credo sia una vera novità del nostro tempo. Tuttavia negli ultimi anni ha tenuto banco un teatro che affonda le sue radici nelle teorie artaudiane (penso uno per tutti a Romeo Castellucci), con risultati di trasfigurazione della realtà in immaginazione arrivati in alcuni casi a confondere e disorientare lo spettatore al punto di dimenticarsi di lui e allontanarlo. Oggi sembra emergere a gran voce una risposta totalmente opposta che chiede disperatamente un contatto con il reale inteso come una forma di rispecchiamento tra palco e platea. Questo tentativo nel nostro caso si è declinato nel coinvolgimento in scena di non-professionisti chiamati a raccontarsi e nella costruzione (con attori professionisti) di “reportage teatrali” atti a mettere in scena le nostre ricerche nel reale. Il risultato è stato ottenere un dialogo con quella comunità di spettatori che difficilmente una compagnia emergente riesce a intercettare. Portare sul palco questi individui (cittadini comuni, o giovani studenti universitari, come durante Festival 20 30) è servito da tramite per poter innescare il dialogo palco-platea in una forma molto liquida in cui la distanza tra chi siede in platea e chi sta sul palco è molto sottile. La difficoltà forse sta nell’esplorare tutte le possibilità (e i limiti) che offre questa sottigliezza.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

È difficile indicare quali strumenti possano essere efficaci oggi per approcciare il reale, forse ogni nuova opera ne richiede di diversi a seconda del campo di indagine. Ad esempio, per quanto paradossale, il nostro primo spettacolo di teatro partecipato [ndr. Il Giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso] ha adottato come strumento di indagine un testo russo di inizio novecento: la realtà ha una forza drammaturgica autonoma al pari di qualsiasi altra fonte di partenza, sia esso un testo teatrale nuovo o vecchio che sia, un romanzo, un saggio, un film.

Così come si parte dall’analisi del testo per indagare un testo di drammaturgia, sarebbe importante partire da una analisi del reale. Milo Rau è un esempio in questo: i suoi riferimenti sono la sociologia, l’antropologia, l’analisi sociale e politica, molto più che la letteratura.

Nel nostro caso ci piace dire che la lettura della realtà che tentiamo di fornire sia inscritta in un diagramma che ha come ascissa il pensiero di Marx e per ordinata quello di Freud. Ovvero tentiamo di individuare come le dinamiche economiche proprie del capitalismo influenzino gli aspetti psicologici degli individui e viceversa. Di tutta questa teoria poi negli spettacoli forse emerge esplicitamente ben poco, speriamo piuttosto lasci spazio, ancora una volta, alla magia del teatro.

Alessandro Serra

INTERVISTA AD ALESSANDRO SERRA

Dopo aver visto Macbettu al Festival delle Colline Torinesi ho incontrato Alessandro Serra in una lunga conversazione da cui è tratta questa intervista. Abbiamo parlato di molti aspetti di quest’opera che, al di là dei premi, convince e incontra il pubblico senza facili ammiccamenti e soprattutto salvaguardando un ricerca di linguaggio.

Enrico Pastore: Come è nata l’idea di portare la Scozia in Sardegna?

Alessandro Serra: Macbeth è un’opera che ho sempre amato per la sua forza filosofica. Trovo che Macbeth ci dica molto dell’epoca che stiamo vivendo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il soprannaturale e la nostra incapacità di una via spirituale.

Penso a una frase di Simone Weil, che cito a memoria: “quando un essere non è in grado di ricevere il soprannaturale lo trasforma in male”. Le streghe che predicono a Macbeth un futuro di gloria, sono foriere di prosperità, ma Macbeth non sa gestire questo evento sovrumano, non è spiritualmente pronto, non sa aspettare e di conseguenza uccide. Non c’è alcun motivo per cui debba compiere questo atto orrendo e inutile e Macbeth ne è perfettamente consapevole. Il secondo aspetto è l’incapacità di vivere il presente, di essere presenti e vigili. Noi viviamo sempre costantemente proiettati nel futuro spinti dal desiderio. Consumiamo il presente in cerca di un futuro che non vivremo mai davvero. L’ultimo aspetto, e vengo alla Sardegna, è il rapporto di questo testo con gli archetipi e le forze primordiali della natura che ho in qualche modo intravisto, più di dieci anni fa, in un viaggio fotografico che feci in Barbagia, partendo da Lula, il paese di mio padre, per vedere i carnevali. Il più impressionante di tutti fu quello di Mamoiada, dove sfilano i Mamuthones. In quell’occasione, come ho scritto più volte, ho avuto la visione della foresta che avanza con i campanacci che sentivo da lontano, l’incedere di un ritmo antico che incuteva terrore. Sono mille gli stimoli che ho carpito in quel viaggio, i suoni, i materiali, le sensazioni, il sangue. Nel paese di mio padre per esempio hanno ricostruito una maschera, Su Battileddu, è la personificazione dello scemo del villaggio che gira per il paese con questo stomaco di bue pieno di sangue. Quando viene abbattuto di fronte al pubblico, che fa cerchio intorno a lui, lo stomaco viene letteralmente strappato. Quindi gli schizzi di sangue, il sughero che scurisce i volti, una scena molto violenta, che a può sembrare lontana dallo spirito del carnevale ma che invece gli appartiene profondamente. I demoni attraversano quindi il paese ma vengono anche tenuti a bada. A Mamoiada ci sono anche le maschere degli Issohadores, figure molto eleganti, vestite di rosso, che danno il ritmo e tengono a bada i Mamuthones e che prendono al lazzo le fanciulle. Nel Macbettu poi ci sono le streghe, maschere comiche e grottesche. Hanno le barbe. Anche per le streghe abbiamo attinto ai carnevali sardi, in particolare al carnevale di Bosa. Sono le Attittadoras, uomini vestiti da vecchie che implorano unu tikkirigheddu de latte tra urla e sorrisi sardonici accompagnati da sconce allusioni sessuali. Ma potrei parlarti anche de Sa Filonzana, una vecchia orrenda che fila e minaccia con le forbici di tagliare il filo del tuo destino. I riferimenti quindi sono tantissimi e hanno costituito il materiale con cui abbiamo costruito il Macbettu.

Enrico Pastore: Se vogliamo poi notare una curiosa coincidenza il giardiniere de I Simpson in originale è scozzese e nel doppiaggio italiano parla in sardo.

Alessandro Serra: Sono stato tentato una volta in un’intervista di dirlo, poi mi sono frenato per timore di essere frainteso. Ma in questa arte antica non si può prescindere dal pubblico, dalle conoscenze collettive che spesso sono cliché o mode ma che a volte sfiorano il mito e fondano la realtà. I Simpson hanno più volte dimostrato di possedere una grande forza comunicativa a tratti divinatoria. Ci sono puntate memorabili, non ultima quella di 15 anni fa in cui Lisa succede a Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il teatro è anche un’arte popolare e la risata può essere spesso una privilegiata chiave d’accesso al rito. A proposito di Pinocchio Elémire Zolla sosteneva che “In vernacolo, ridendo, conviene esporre le verità più segrete”.

Enrico Pastore: Mi ha molto colpito la tensione tua e degli attori nell’evitare ogni affettazione nella recitazione. La ricerca di una spontaneità che sottragga la parola all’artificio, affinché sia viva, più assimilabile al canto che allo scritto. Come avete proceduto per rivitalizzare la lingua scritta, il morto orale come lo chiamava Carmelo Bene?

Alessandro Serra: Questa per me è una domanda cruciale. Soprattutto in questi giorni in cui sono reduce dalla prima settimana di prove su Il giardino dei ciliegi. In Cechov il problema è ancora più presente, direi quasi più grave perché la lingua sembra parlata ma il risultato è spesso enfatico e, per quanto mi riguarda, sgradevole e noioso.

Shakespeare ha un problema analogo che contrariamente a Cechov però può essere risolto con il canto. Con Cechov bisognerebbe semplicemente dire, nel senso più profondo del termine. L’attore deve manifestare nella parola il senso di ciò che dice, così come si fa nella vita. Fare questo in teatro richiede una grande tecnica e un grande sforzo fisico. Questo perché per dire una frase e dirla davvero, portando con sé il senso, l’emotività e la logica delle conseguenze, e nello stesso tempo farla arrivare a quaranta metri di distanza è un’impresa quasi impossibile. E lì si cade.

In Shakespeare la musica ti può aiutare, perché non essendo un teatro naturalistico, in qualche modo si può attingere al canto.

Esistono tre livelli di comunicazione: il primo è quello del significato. Il secondo è quello musicale, attraverso il suono io posso raccontare e incantare. Questo è credo ciò che siamo riusciti a fare usando il sardo. In Macbettu credo che ci sia anche il terzo livello, quello magico, in cui la parola diviene mantra, non significa più, semplicemente è, agisce come una forza e non come un significato. Questo sarebbe stato impossibile usando l’italiano, soprattutto quello delle traduzioni letterarie.

I testi di Shakespeare devono essere trattati come dei copioni. Non bisogna aver paura di smembrarli, dilaniarli, perché sono talmente grandi che restano sempre integri. Anche perché c’è una drammaturgia perfetta e sublime che è talmente oltre il luogo comune che non ce la fai a distruggerli. Tutto ciò a patto che la scrittura di scena sia alleata del testo, ne al servizio né contro. Il testo è materia.

Per quello che ci riguarda abbiamo distrutto Macbeth ma con un grande amore, fedeltà e rispetto. Grazie a questo amore e rispetto per l’opera ho cercato non di raccontare o recitare ma di evocare una immagine che sta oltre e dietro il testo.

Questo si può fare in Shakespeare grazie alla lingua. Grazie al fatto che lui, essendo un attore, è sempre riuscito all’interno delle sue opere, a fornirti le chiavi d’accesso. E gli strumenti della scrittura di scena sono proprio nelle parole, in quelle particolari formule magiche che Peter Brook chiama Parole radianti.

Tornando al sardo, quando ho riascoltato quella lingua con la quale avevo un conto in sospeso, una lingua che da bambino mi faceva molta paura perché mi ricordava una certa brutalità barbaricina. Quando l’ho riascoltata dopo tanto tempo ho pensato che fosse la lingua giusta per Macbeth. In sardo non esiste la parola Ti amo, una lingua in cui, come dice Angelo Pira, la parola è la cosa. In questo è unica.

In Macbeth non potevo usare l’italiano, che è una lingua letteraria, costruita a tavolino. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori perché bisogna sempre porsi il problema di trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili, perché altrimenti ci si limita a ri-ferire un testo, il che il più delle volte, diventa di una noia mortale.

Enrico Pastore: La recitazione di Macbettu è molto fisica, il corpo dell’attore è potente, presente e altamente significante. Mi piacerebbe sapere come è stato il lavoro in prova con l’attore, come avete costruito la partitura gestuale?

Alessandro Serra: In Macbettu c’è stato un lungo periodo di preparazione perché nessuno degli attori aveva mai lavorato con me, anche se fortunatamente avevano avuto precedenti esperienze di teatro fisico e lavoro con il corpo.

Il primo step è stato quello di suggerirgli un modo di ripensarsi in scena attraverso il corpo e questo non poteva che avvenire attraverso il training. Non riesco ad immaginare una messa in scena che non parta dal corpo dell’attore. Occorre arrivare al testo con il corpo presente e vigile, attivo, pronto ad accogliere e a trasformare la poesia scritta in immagini, danza e canto. Rispetto a questo aspetto i miei punti cardinali sono Grotowski, Mejerchol’d, Decroux. Grandi maestri di cui oggi, ahimè, non si sente più parlare. Rilke parlava di un’umanità come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita.

Mi pare impossibile praticare un’arte millenaria prescindendo da ciò che è stato. Ciò che resta sono i testi, la letteratura. Ma l’essenziale non si può trascrivere, si può solo trasmettere. Oppure cercare di ripensarlo, scoprirlo di nuovo. Il teatro è un’incessante ricerca di qualcosa di dimenticato.

Il training è per me l’unica via possibile per accedere all’impossibile. Con Macbettu si iniziava la mattina con il training, il mio, ma anche e soprattutto quello guidato da Chiara Michelini, finché abbiamo trovato una pratica nuova, semplice ma funzionale a questa specifica messa in scena. Ogni nuova creazione impone un nuovo training. Nel corso delle prime settimane abbiamo affrontato anche alcuni principi delle arti marziali cinesi. La fortuna con la produzione di Sardegna Teatro è stato avere dei periodi di prova lunghi e distribuiti nel tempo. Non si provava mai per più di una settimana di seguito, ma per 10 ore al giorno, producendo una quantità di materiali, azioni, immagini, suoni, sensi talmente densi che al settimo giorno si era completamente spossati. A questo punto occorre allontanarsi e lasciare decantare ciò che si è manifestato davanti ai miei occhi ma soprattutto nei corpi degli attori.

Le prime settimane sono state senza testo che, benché fosse già stato riscritto da me e studiato dagli attori, è stato messo da parte. Si lavorava soltanto sull’immagine. Il compito era: raccontare senza recitare. Questo ci ha consentito di togliere verbosità. Se una scena la vivi, non c’è molto altro da dire. La parola diventa quasi superflua.

Decroux diceva: “io non sono contro le parole, ma devono essere necessarie” oppure devono essere un suono. Se non sono necessarie e non sono suono, sono inutili. Ed essendo inutili diventano anche dannose.

Enrico Pastore: In questo periodo nel teatro italiano sta ritornando prepotente la tendenza a fare del testo il centro della rappresentazione verso cui si piegano tutti gli elementi della scena. Nel caso di Macbettu invece sembra avvenire proprio il contrario dove il teatro flette il testo alle sue esigenze e così facendo lo esalta e gli ridà nuova vita. È nata da questa esigenza la volontà di far tradurre il testo a un attore? Per trovare una forma del dire che fosse agli attori congeniale e più veritiera possibile? In parte hai già risposto affermativamente ma magari vuoi precisare

Alessandro Serra: Ho studiato sempre e solo con gli attori, non solo con quelli che sono stati i miei maestri, ma soprattutto con coloro che hanno avuto la forza di seguirmi nelle mie scritture di scena. Spesso mi capita di passare moltissimo tempo per ricomporre una frase perché suoni e significhi col minor sforzo possibile ma quando poi l’attore finalmente la dice, mi accorgo che ci sono ancora blocchi… e insomma… bisogna scrivere, tradurre e comporre da attori, inscrivendo nei corpi ogni fase della creazione. Il fatto che oggi non si scriva più con la penna è una grave mutilazione al gesto creativo della scrittura. Simone Weil diceva ai suoi allievi che il greco si impara con il corpo… ripetere il gesto grafico della lettera alfa è una danza. Nell’atto stesso dello scrivere in fondo, si danza.

Quando lavoro sui testi, il lavoro di riscrittura lo faccio a casa, parola per parola… ma ad alta voce, spesso i piedi, sussurrando e gridando… Vedo dunque il teatro con occhi d’attore, e questo benché io non sia tale anche se ho studiato per esserlo.

Scrivo ad alta voce e cerco di dire le parole. Ma non solo. Quando lavoriamo sul testo se una frase o una parola non funziona, non risuona, si cambia. La parola deve essere organica al corpo dell’attore.

Enrico Pastore: Esatto. O la parola diventa qualcosa di vivo e organico alla scena oppure se resta un elemento puramente letterario si riduce a un elemento esterno noioso e sterile. Per usare le parole del mio maestro Antonio Attisani, diventa il teatro per chi non legge.

Alessandro Serra: oppure, peggio ancora, diventa un teatro per chi vuole sentirsi dire delle cose e si compiace nel sentirle. Non si racconta ma si informa su qualcosa che già si conosce tra l’altro. Anche Milo Rau informa, ma nello stesso tempo racconta. Ho visto per esempio Five easy pieces e in questo lui è straordinario.

Enrico Pastore: Milo Rau è molto ancorato all’idea di un teatro, come quello greco antico, luogo dove la comunità affronta e dibatte le crisi che la attraversano. E in questo senso sonda la scena nei suoi limite, prova a capire cosa si possa fare o meno con la scena per poter essere efficace e significativo nel trattare il reale. Ti mette sempre nella condizione scomoda di essere giudice e imputato. Pensa proprio a Five easy pieces dove nel terzo capitolo in cui ti senti di essere Dutroux.

Alessandro Serra: Quello che dici di Milo Rau è giustissimo. Io non ho quella profondità politica, antropologica. Non riuscirei a toccare un fatto del tempo presente senza cadere. Nel mio piccolo sondo gli archetipi e questo anche nel teatro di prosa. Con archetipi intendo anche quei meccanismi della natura umana che sono sempre presenti nelle fiabe e in tutte le opere di Shakespeare. Pensa a Otello: si parla di femminicidio e di gelosia. Ma il vero geloso è Jago, non Otello. Otello non uccide per gelosia ma perché ama a tal punto Desdemona da non poter concepire che lei possa vivere nel peccato. È un pensiero contraddittorio, doloroso, fastidioso, eppure è così. Inoltre si tratta di un islamico convertito al cristianesimo. Se si parlasse di gelosia sarebbe una telenovela e non un capolavoro dell’umanità. In Shakespeare i meccanismi dell’essere umano sono puri e distillati in forma di simbolo, e in quanto tali non si può che contemplarli, non si possono volgere in prosa. In Shakespeare non è ammessa parafrasi. Sono contraddittori, e inafferrabili. Il lavoro di Milo Rau è stupendo perché guarda al tempo presente. In quella scena che hai appena ricordato sei lì che guardi e i tuoi occhi si contaminano, prendi coscienza di quanto sono contaminati, perché in fondo se fai finta di niente sei complice di quanto avviene nel mondo. Nei grandi testi della tradizione o nelle fiabe sono presenti gli stessi meccanismi che sono poi quelli che mi interessano.

Enrico Pastore: Pensi che ci possa essere un’evoluzione alla ricerca che avete compiuto con Macbettu, oppure è un esito in qualche modo irripetibile? Mi spiego meglio che non vorrei la domanda sia interpretata come provocatoria o maliziosa. In Macbettu siete riusciti a risvegliare le forze antiche del teatro, quelle che animavano l’antica tragedia, e ci siete riusciti abbinandola a un elemento etnografico di grande potenza come la tradizione popolare sarda ancora molto legata a qualcosa di ancestrale. Pensi che questa ricerca che avete avviato possa in qualche modo continuare senza produrre un clone o un doppione?

Alessandro Serra: Ti rispondo molto semplicemente. Per me quel luogo è come tornare alle mie origini. È casa. Ma dopo Macbettu ho necessità di allontanarmi per un po’. È per me molto faticoso emotivamente, quindi per il momento ho bisogno di andare da un’altra parte. Ci tornerò. Mi piacerebbe completare una trilogia di Shakespeare sul potere e anche affrontare la tragedia greca alla quale mi sto avvicinando da anni a partire dallo studio del coro e della maschera. E non è un caso forse che dopo il coro greco abbia sentito il bisogno di tornare a Cechov, che resta l’autore che più amo, proprio perché credo che Il giardino dei ciliegi sia la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta. Un’opera priva di centro in cui i gesti e le parole dei personaggi che agiscono e parlano si nutrono degli altri. Un coro e una moltitudine, come nella vita.