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Franz Kafka

RINUNCIA! OVVERO LA PARALISI DELL’INNOVAZIONE

«Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla»

F. Kafka Il castello

Sarà forse perché è caduta la prima neve e la stagione volge a quella invernale, sarà l’assidua lettura del nuovo decreto sul FUS, ma mi risulta difficile, se non impossibile, non pensare ad alcune immagini, tremende e sublimi, sorte dal mondo ovattato e innevato de Il Castello di Kafka. Ne sono incapace probabilmente perché queste, in qualche modo oscuro e potente, riescono non solo a descrivere alcune malattie croniche del nostro teatro, che il nuovo decreto anziché sanare probabilmente aggraverà, ma a volerle ascoltare, senza il turbamento che provocano, scuotono e invitano a ricercare un’alternativa radicale allo stato attuale.

Kafka chiamava le immagini con la parola tedesca Sinnbilder: un lemma composto da Sinn «senso, significato» e Bild «immagine»: immagini che hanno significato. In italiano potremmo usare il termine simbolo ma con il senso che vi attribuivano i Greci: qualsiasi cosa capace di suscitare nella mente un’idea differente rispetto a quanto viene visto nella realtà e, nello stesso tempo, metà di una parte. Questo secondo significato rimanda a un’antica tradizione secondo cui un oggetto veniva tagliato irregolarmente e ciascuna delle due parti veniva affidata a due amici o famiglie come simbolo di riconoscimento della reciproca amicizia. Due metà attraverso cui agisce un’identificazione e quindi si palesa un significato nascosto a tutta prima non percepibile.

Immagini parlanti alla realtà perché in qualche modo la rispecchiano, donano un senso nuovo pronto a risvegliare energie sopite. La prima pronta a sorgere dalle stradine innevate del villaggio è l’amministrazione stessa del Castello ele sue funzioni che noi possiamo desumere dal colloquio di K. con il sindaco. In poche frasi Kafka riesce a tratteggiare un universo inquietante di cui, sempre più inconsapevoli, facciamo tutti parte. Vediamo quali sono tali caratteristiche e proviamo, per gioco, a scoprire se in esse riconosciamo il simbolo come metà mancante capace di illuminare il reale.

Franz Kafka

K. prima ancora di essere introdotto dal sindaco si accorge, reduce dal primo scontro con l’ostessa, di aver iniziato una battaglia quasi impossibile e il motivo essenzialmente risiede nella natura stessa della lotta: «l’autorità non aveva che da difendere in nome di signori lontani e invisibili cose altrettanto lontane e invisibili, mentre K. lottava per qualcosa di molto vivo e vicino». L’impossibilità di avere ragione dell’amministrazione sta proprio nel fatto che quest’ultima non è personalmente coinvolta nel processo se non in quanto agente-macchina, mentre per K. è questione di vita o di morte. Da una parte non vi è coinvolgimento alcuno, è solo questione, nella migliore delle ipotesi, di attenersi alle norme e alle direttive, nella peggiore di emanarle senza conoscere veramente la realtà (è il caso di K. nominato agrimensore del conte senza che ve ne fosse alcun bisogno reale), mentre dall’altra vi sono la vita e il destino dei singoli.

Quando il sindaco si dilunga a spiegare i meccanismi che hanno portato alla sua nomina per un servizio di cui nessuno aveva reale necessità, ossia il disguido tra l”ufficio A e l’ufficio B e il susseguente intervento di Sordini, K con sarcasmo nota: «Mi diverte soltanto questo […] perché mi dà un’idea del ridicolo imbroglio che in certe circostanze può decidere della vita d’un uomo».

Ciò che è ancora più sconcertante è il fatto che nessuno di fatto ha sbagliato. Ognuno ha seguito la natura del suo ufficio e del relativo regolamento governante l’attività sua specifica. Le carte si sono in qualche modo perse senza alcuna ragione apparente, e come per il Cacciatore Graccus, è ormai impossibile per K. trovare la via d’uscita dal limbo in cui è caduto. Infatti come viene notato dal sindaco: «Uno dei principi che regolano il lavoro dell’amministrazione è che non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio».

Quello che rende ancor più difficile, se non impossibile, la lotta di K. sono le due ulteriori caratteristiche dell’amministrazione del Castello: l’inerzia, ossia come viene detto in un passo espunto: « le autorità badavano soltanto a difendere», e l’arbitrarietà. Vediamo di esaminarle con attenzione.

K. già nella sua cameretta all’Osteria del Ponte aveva percepito un certo fastidio quando, in stato di debolezza, Frieda e gli assistenti accorrono ad aiutarlo: «non era ancora tanto in forze da rifiutare i loro servigi, vedeva bene che accettandoli cadeva in una specie di dipendenza che poteva avere conseguenze spiacevoli». Più avanti a colloquio dal sindaco ecco ripresentarsi la stessa sensazione: «in tal modo lo viziavano e lo indebolivano, escludevano qualsiasi conflitto e lo relegavano in un’esistenza torbida, strana, che era fuori dalla vita ufficiale».

Fotogramma da Delitti e segreti di Steven Soderbergh ispirato a Il processo e il Castello di Kafka

Questo atteggiamento apparentemente conciliante dell’amministrazione, connessa con la passività di chi gioca in difesa e lascia all’attaccante la prima mossa, conduce inevitabilmente a facili vittorie su cose di nessuna importanza e, nello steso tempo, a essere incapaci di ottenere qualcosa di veramente cruciale. Inoltre la sicurezza di non sbagliare mai e la conseguente messa in discussione dell’operato del richiedente mina «la conseguente ben fondata sicurezza per altre lotte più importanti», con il risultato: «che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri […] egli, illuso dal favore che in apparenza gli si dimostrava, regolasse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire in pieno».

Ecco la chiave di volta dell’intero pensiero di K.: le minuscole concessioni, le carezzevoli rassicurazioni, conducono solo in un cul de sac da cui è impossibile fuggire e dove il fallimento è certo. Tutto rimane uguale, niente cambia mai, perché nessuno è mai messo in condizione di poter agire in maniera efficace proprio per l’inerzia di tutta l’amministrazione.

Quello che K. scopre pian piano è che tutti fanno parte dell’autorità e della burocrazia del Castello: l’ostessa, il carrettiere Gerstächer, il maestro, gli aiutanti e Frieda, tutti, persino Barnabas, sono parte dell’ingranaggio e non hanno nessuna intenzione di indebolirne le fondamenta. L’unica estranea, colei che mai ha voluto esser parte del Castello, è Amalia e come ribelle è totalmente esclusa dalla vita della comunità. In un diverso inizio, in seguito eliminato da Kafka, K. in uno scambio con Elisabeth, una cameriera dell’Osteria, dice apertamente di non fidarsi di nessuno di loro perché: «siete tutta una congrega».

K. però non si accorge di un fatto essenziale: lui stesso, nell’accettare la lotta diviene parte di quella comunità che intende combattere. Benché voglia cambiare le regole, nonostante le sue irrituali irruzioni all’Albergo dei Signori, l’aver strappato Frieda a Klamm, egli di fatto diviene parte del sistema che detesta e vuole abbattere. Si direbbe, in fondo, che il suo sogno rivoluzionario sia in fondo riducibile all’essere accettato dal sistema.

Il sindaco a K. aveva fatto intravedere una soluzione, o una sorta di via di uscita dall’impasse: «nessuno vuol trattenerla qui, ma questo non vuol dire neppure che si voglia cacciarla via». Parole molto simili vengono pronunciate dal predicatore ne Il processo: «Il tribunale non vuole nulla da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai». Per cambiare veramente occorre uscire dal sistema, andarsene, come Amalia. Cosa apparentemente semplice perché nessuno ci trattiene. Eppure nessuno compie questa scelta.

La facilità è infatti solo un’illusione. Tutto congiura nel farci credere nella potenza delle forze che ci avvinghiano a un sistema malato. Chiunque provi o semplicemente minacci il tentativo di fuoriuscita o di ribellione viene imbrigliato e congelato, da una parte dai piccoli vizi concessi dall’amministrazione, e dall’altra dalla comunità stessa che nega la partecipazione a un’azione comune. Se il Castello esiste è perché tutti lo tengono in piedi. K. se ne rende conto in maniera flebile, quasi inconscia, il suo primo giorno quando non può fare a meno di dirsi: «egli capiva chiaramente che anche soltanto pochi giorni trascorsi qui senza costrutto lo avrebbero reso per sempre inabile a un’azione risolutiva».

Il Castello di Peter Haneke

Vi è un piccolo racconto scritto da Kafka nel 1922 durante la stesura de Il Castello che ha un titolo esemplificativo Rinuncia! e vorrei riportare per intero: «Era la mattina per tempo, le vie pulite e deserte. Andavo alla stazione. Confrontando il mio orologio con quello d’un campanile, vidi che era molto più tardi di quanto avessi pensato, dovevo affrettarmi assai, lo spavento di quella scoperta mi rese incerto sulla via, non conoscevo ancora bene questa città; fortunatamente vidi una guardia poco distante, corsi da lui e senza fiato gli domandai la strada, Egli sorrise e disse: “Da me vuoi sapere la via?”

”Appunto” risposi “ Dato che non so trovarla da me”

”Rinuncia, rinuncia!” E si girò con grande slancio come chi vuol esser solo con la propria risata».

Tutto congiura contro una vera riforma del sistema. Lo abbiamo visto in questi due anni. Allo slancio iniziale sono seguite le prime pallide riaperture, i ristori, l’allargamento del FUS, etc. Tanto è bastato perché le spinte riformatrici si inaridissero. Ora si profila, con il nuovo decreto, un’ennesima restaurazione del sistema, solo che nel frattempo è successo un evento drammatico e devastante, cui nessuno sembra pensare nonostante ancora lo si stia attraversando e le cui conseguenze ancora non si siano del tutto palesate.

A tal proposito vorrei concludere con un’ultima immagine kafkiana contenuta nei diari e datata 28 febbraio 1913, un racconto semplicemente abbozzato e non finito. Il signor Ernst Liman giunge a Istanbul e vuole alloggiare al suo solito Hotel. È già il suo decimo viaggio. Salito sulla carrozza non esita a fornire al vetturino l’indirizzo dell’Hotel Kingston. Durante la sua assenza però l’albergo è bruciato in un incendio. Il vetturino lo sa ma vi conduce Liman ugualmente. Giunto sul posto scarica le valigie tra le proteste di Liman. Nel frattempo giunge il capoportiere dell’Hotel. Gli impiegati infatti abitano ancora le poche parti non bruciate dell’albergo circondati dalle macerie, nell’attesa della ricostruzione, annunciata ma per nulla cominciata. Costui cerca di convincere il signor Liman a rimanere in una delle case di proprietà dell’albergo e per convincere la reticenza incrollabile dell’uomo ricorre a Fili, una prostituta dipendente dall’albergo. Il racconto finisce improvvisamente con Fili che si aggiusta la camicetta e Liman che afferma: «È inaudito».

Stiamo abitando una casa bruciata? E cosa faremo per trattenere quel pubblico che, a parte i grandi eventi, sembra essersi allontanato dalle nostre case? E come ci comporteremo con un’amministrazione pronta a disinnescare qualsiasi battaglia per una reale riforma del settore?

Dobbiamo tornare a porci domande scomode, a scuoterci dall’inerzia che ci opprime. Non abbiamo altra soluzione. Le minacce del guardiano alla porta della Legge sono inconsistenti, non c’è nessun altro ulteriore tremendo custode. C’è solo un enorme campo libero dove provare a ricostruire o magari un luogo sgombro di limiti dove provare e reinventare la realtà e il mondo. Non c’è più tempo, come in Favoletta altro racconto breve kafkiano che ho già più volte citato ma non guasta riproporlo in chiusura:

«”Ahi” disse il topo, “il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente i muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro così in fretta che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò”. “non avevi che da correre in altra direzione”, disse il gatto, e lo mangiò».

Davanti alla porta della Legge

DAVANTI ALLA LEGGE: RIFLESSIONI IN FORMA D’ALLEGORIA

Davanti alla porta della Legge è una parabola enigmatica contenuta ne Il processo. Viene raccontata dal predicatore del tribunale a Josef K, nell’ombra incombente del duomo. Kafka era un maestro di scrittura per enigmi, è stato il creatore di un universo mitico, disciplinato da regole alquanto astruse e inquietanti, ma tali da fotografare lampi e frammenti di verità della realtà presente e viva.

In qualche modo, rileggendo alcuni passi degli scritti di Kafka, alcune immagini mi sono rimaste fortemente impresse perché sembrano parlare del presente e in determinati passi addirittura sembrano riferirsi ai fondamenti del sistema teatro italiano e, nello stesso tempo, paiono sussurrare possibilità di fuga dalle grinfie dei suoi tentacoli più molesti e velenosi, se solo sapessimo ascoltare.

Facciamoci dunque suggestionare insieme da queste immagini e vediamo se riusciamo a farle parlare.

Cosa racconta l’apologo dell’uomo di fronte alla Legge? Un uomo giunge davanti alla porta della Legge. Il portone è aperto ma vigilato da un custode. L’uomo chiede di poter accedere alla Legge ma il guardiano dice che: «al momento non può assicurargli l’ingresso». L’uomo chiede allora se questo potrà avvenire più tardi e la risposta che ottiene è tanto enigmatica quanto ambigua: «È possibile, ma non ora». La speranza è alimentata, ma la durata e il motivo del divieto rimangono misteriosi.

L’uomo, nell’attesa, si sporge a sbirciare oltre il portone e il custode ora lo tenta e spaventa: «se ti alletta tanto, prova pure a entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo il custode di grado più basso. Sala dopo sala vi sono guardiani uno più potente dell’altro. Già solo la vista del terzo io non la posso sopportare». Tanto basta a calmare ogni velleità di ribellione dell’uomo.

Costui quindi passa tutta la vita davanti al portone cercando di ottenere l’agognato permesso usando ogni mezzo possibile, e giunto infine agli ultimi istanti, mentre già gli occhi vedono solo buio in cui si intravede una luce fievole provenire dal portone della Legge, chiede al custode: perché in tutto questo tempo nessuno oltre me è mai giunto? Il guardiano strilla: «qui nessuno poteva ottenere di entrare perché questo ingresso era destinato solo a te. Adesso vado e lo chiudo».

Orson Wells Il Processo

In questa maniera crudele e repentina termina la parabola. Josef K. e il predicatore cominciano a fare una lunga e complicata esegesi del racconto. Il primo è convinto che l’uomo sia stato ingannato, mentre il secondo afferma che dopotutto il custode non è altro che un servitore della legge e ha fatto, forse ignaro, forse no, nient’altro che il suo dovere.

Eppure le spiegazioni non convincono. L’essenza non è stata esplicitata. Perché l’uomo non se n’è andato visto che nulla lo tratteneva? Perché per lui era così importante accedere alla Legge? E se era così vitale, perché non ha ignorato il divieto? E poi: qual è il significato di quella luce finale che traspare dal portone della legge? Forse mancano degli elementi che dobbiamo rintracciare altrove.

Spostiamoci un momento nel paesaggio innevato, nebbioso e oppressivo de Il Castello. L’agrimensore K. è a colloquio dal sindaco riguardo la sua assunzione, di cui tutti, tranne K. sembrano dubitare. In effetti rispetto alla posizione del povero K. vi sono elementi ambigui e divergenti. C’è ovviamente la lettera di Klamm ma vi sono anche altri documenti che attestano il contrario. Insomma K. rimane tra color che son sospesi. Anche qui la legge è barriera, ma trasformata però in norme e disposizioni amministrative, lacciuoli stringenti, di difficile comprensione e applicazione, opera di una serie di funzionari plenipotenziari del conte Westwest che nessuno ha però mai veduto. Alcuni di questi burocrati sono chiamati signori e hanno un loro personalissimo albergo. Sono dispotici, dispettosi, lussuriosi, viziati, onnipotenti.

Orson Wells Il Processo

Tre sono i particolari inquietanti all’interno del mondo macchinoso e burocratico del castello: la strada che dovrebbe portare le persone alla fortezza sul colle apparentemente si dirige verso le sue mura ma poi diverge per portare altrove. Sembra dunque che non ci si possa arrivare, che il Castello sia di fatto isolato benché dalla sua azione tutto dipenda. Secondo punto: nessuno sembra volerci andare e effettivamente nessuno oltre K. prova a compiere l’impresa. Come per la porta della Legge nessuno oltre l’uomo vi si presenta. Terzo: come fa notare Roberto Calasso, al mondo del castello non appartengono né religione né cultura. La chiesa è solo un edificio fra tanti, libri non compaiono mai, e i quadri ritraggono solo funzionari per altro di basso livello. Esiste solo la tirannica e impossibile burocrazia adorata come un Dio e compulsata, annotata, commentata come fosse la Divina Commedia

La legge e la burocrazia escludono la cultura. Sono totalizzanti e non permettono altro pensiero. L’arte necessita, e lo sapevano bene gli antichi, di otium, e invece bisogna occuparsi dei procedimenti e delle disposizioni perché i signori del Castello non ammettono errori, benché nulla sembri procedere in alcuna direzione.

L’assenza di cultura risulta, pur se meno evidente, anche ne il Processo: l’unico libro che Josef K. trova in possesso di un giudice del tribunale è un’opera colma di immagini oscene, e il pittore da cui spera aiuto dipinge solo ritratti di giudici per lo più di basso rango le cui commissioni hanno un unico scopo: pura e semplice vanagloria.

Oscenità e decorativismo. Due elementi che accomunano l’universo kafkiano con il sogno del bordello-museo di Baudelaire. Ciò che invece avvicina e rende simili l’agrimensore K. e l’uomo davanti al portone della Legge è il fatto di essere essenzialmente liberi di andarsene. Niente obbliga uno o l’altro a restare vincolati alla missione autoimposta. K. potrebbe ritornare da dove è venuto oppure potrebbe, come suggerito da Frieda, andarsene via con lei altrove. Persino l’uomo potrebbe tornare in campagna. Sembra però che una volta avvinti dalla forza gravitazionale di questo buco nero burocratico amministrativo non se ne possa uscire.

Nonostante questa apparente paralisi entrambi sono manifestazione di un mondo potenziale. Se ora sono inutili e umiliati niente vieta che in un istante diventino potenti. Il mistero è perché non vogliano esercitare questa energia per svincolarsi dai sentieri forzati posti di fronte al loro cammino.

Questo è il punto veramente fondamentale: si potrebbe pensare a soluzione alternative ma queste non vengono minimamente prese in considerazione. Se l’eroe della tragedia greca lottava contro il fato tanto da rimanerne sconfitto, nella cosmologia kafkiana si lotta per avere ragione del regime burocratico, senza voler esercitare l’unica possibilità di vittoria: ignorare il sistema e inventarne uno diverso.

Pensiamo a Josef K. a cui si nega, innocente, la possibilità di assoluzione. Ciò che gli resta sono la dilazione e l’assoluzione fittizia e in entrambi i casi sono metodi incapaci di garantire una sicura e permanente libertà dai nascosti e invisibili tentacoli del tribunale. Potrebbe fuggire perché, anche se arrestato, è libero di andare dove vuole e in possesso di tutti i suoi documenti. Ma non lo fa. Decide di combattere ma senza voler seguire le strade battute. Vuole rivoluzionare il sistema dall’interno. Il finale lo conosciamo: ucciso nella cava come un cane da due pessimi attori di cabaret.

Vi è un altro elemento parallelo tra queste storie incompiute (tutte le storie migliori lo sono, non hanno mai fine e hanno infinite chiavi di lettura): nessuno ha mai visto chi dirige il tribunale o regna sul castello. Vi è un frammento che potrebbe metterci sulla strada giusta e lo riporto interamente:

«Ci sono molti che aspettano. Una moltitudine immensa, che si perde nel buio. Che cosa vuole? Evidentemente accampa determinate pretese. Ascolterò queste pretese e poi risponderò. Ma non uscirò sul balcone; né lo potrei, anche se volessi. D’inverno la porta del balcone viene chiusa e la chiave non si trova. Non mi affaccerò nemmeno alla finestra. Non voglio vedere nessuno, non voglio lasciarmi turbare dalla vista di niente; dietro lo scrittoio, ecco il mio posto, la testa fra le mani, ecco il mio atteggiamento».

Quest’uomo (forse il conte Westwest?) è chiuso nella sua stanza con balcone. È inverno (come ne Il Castello dove, lo dice la camerierina Pepi, è sempre inverno a parte qualche rara eccezione) e l’uomo non esce mai benché molti richiedano qualcosa da lui. Non risponderà in nessun caso anche se forse all’inizio ne aveva intenzione. Vuole rimanere allo scrittoio, gli occhi fissi sul piano.

Elias Canetti in Der andere prozess sembra darci qualche elemento in più. Anche in questo caso è giusto riportare l’intero frammento: «Io ero inerme di fronte a quella figura, che sedeva quieta al tavolo e ne guardava il piano. Io giravo intorno a lei e da lei mi sentivo strangolato. Intorno a me girava un terzo e da me si sentiva strangolato. Intorno al terzo girava un quarto e si sentiva da lui strangolato. E così si proseguiva sino ai moti degli astri e oltre. Tutto sentiva la stretta al collo».

L’uomo ritratto da Canetti sembra proprio lo stesso del frammento di Kafka: la testa tra le mani e lo sguardo fisso sul piano della scrivania. Intorno a lui gravitano un numero imprecisato di persone. Si parla di quattro ma sappiamo che la serie è infinita. Tutti si sentono soffocare dal gravitare degli altri in queste orbite concentriche il cui centro sembra disinteressarsi di loro. Canetti, cogliendo il segno di universalità delle sue immagini, sembra dar forma cosmologica a ciò che Kafka aveva immaginato.

Anthony Perkins In Il Processo di Orson Wells

Canetti ne Il frutto del fuoco afferma essere le immagini una sorta di rete da pesca attraverso cui far affiorare i punti nodali su cui poggia la nostra comprensione del mondo. Quelle potentissime di Kafka, affioranti dal suo universo allo stesso tempo mitico e burocratico amministrativo, ci aiutano a determinare la particolare situazione in cui versa il teatro italiano. O per lo meno a farci un’idea dei pericoli e umiliazioni cui è sottoposto.

Innanzitutto il legislatore (di ogni ordine e grado, sia inteso) appare come l’uomo nella torre del frammento: lontano, chiuso nel suo studio, con le mani a stringere la testa e lo sguardo fisso sul piano del tavolo. Anche se volesse non avrebbe la chiave per aprire il balcone e osservare il mondo che dovrebbe governare.

Le leggi e le disposizioni sono quindi svincolate dalla realtà, come nel caso dell’assunzione di K. come agrimensore del Castello. Tutto appare arbitrario, di difficile comprensione e applicazione (basta provare a leggere l’ultimo decreto sulla ripartizione del FUS nel prossimo triennio 2022-24).

Artisti e operatori si trovano quindi nella stessa situazione di Josef K.: mai assolti e sempre in stato di giudizio, obbligati a occuparsi ogni giorno dei propri procedimenti e pratiche, al fine di soddisfare i funzionari di questo orrendo tribunale. Per di più, come nel Castello, sparisce la cultura e resta la burocrazia. Il tempo eroso per sottoporre l’attenzione alle procedure amministrative impedisce lo svolgersi di un’azione artistica efficace e inoltre ne abbassa i livelli per rispondere alle caratteristiche indicate e volute.

La legge diventa quindi l’obiettivo, entrare nella sua porta per tutelare la propria attività, anche se niente garantisce che ci sia qualcosa o qualcuno al di là di quella benedetta porta. Potrebbe essere tutto un inganno del custode o semplicemente della Legge stessa per garantirsi una raison d’être che altrimenti verrebbe meno. Molti vengono respinti, ma tutti si presentano di fronte a quel portone che è lì solo per loro. La funzione del teatro non è più propria a se stesso. Come nel Gran Teatro di Oklahoma una volta entrati si viene rapiti da un vortice amministrativo solo per essere assunti.

Ora di certo questo gioco allegorico è solo una piccola provocazione a fin di bene però è giusto ricordare che come per K. o per l’uomo di campagna, non vi è nessun obbligo a rimanere in questo stato. Si può e si deve, per quanto difficile sia, costringere il legislatore a uscire sul balcone e ascoltare coloro che vogliono parlargli. Di certo non come le discordanti trombe del Gran Teatro di Oklahoma, ma con una voce unitaria. Non si può più accettare che il mondo dell’arte venga risucchiato in un gorgo burocratico amministrativo fatto di domande, ricorsi, rendiconti, ritardi nei pagamenti, corsi di aggiornamento, regole e pratiche emergenziali o meno.

Urge trovare il modo di parlare con i signori del Castello e con il conte Westwest e non importa che la strada sia difficile da percorrere, ne va della salute del teatro. A non provarci si rischia la fine di Josef K, offrire il collo docilmente a un destino ineluttabile.

sua maestà l'algoritmo

PERICOLI DIGITALI: L’IMPERO DEI NUMERI E SUA MAESTÀ L’ALGORITMO

:«Conterò poco, è vero – diceva l’uno ar Zero – Ma tu che vali? Gnente: proprio gnente». Così diceva Trilussa. Eppure uno e zero, da poco e “gnente”, son diventati tutto. E non solo loro. Ci siamo messi tutti a dare i numeri: quelli dei morti, dei sopravvissuti, dei disoccupati, dei nuovi poveri. Numeri freddi, solidi e sfacciati, privi di pietas, senza storia né dolore, buttati lì senza riguardo alcuno. E poi i numeri teatrali, quelli che contano ancora meno di “gnente”: quelli del pubblico, delle repliche, dei borderò, e ora, alla fine di questa corsa senza ragione, i numeri delle visualizzazioni. A questi numeri brutali ci inchiniamo convinti dal pensiero economico che sian tutto: «con dati sufficienti, i numeri parlano da soli», diceva Chris Anderson su Wired.

È l’imperio del pensiero computazionale, il dominio assoluto del pensiero algoritmico portato dal neocapitalismo digitale che ha infestato ogni campo dell’umano agire patire. Abitiamo il tempo dalla Datafication, dell’ingegnerizzazione della vita quotidiana, un mondo del numero in cui non esiste alcuna etica, se non quella della crescita.

Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911 Frederick Taylor aveva già impresso il marchio ai successivi sviluppi di questo pensiero. Ecco i suoi sei assiomi nella loro adamantina evidenza: unico e principale obiettivo del lavoro è l’efficienza; il calcolo tecnico è sempre superiore al giudizio umano; il giudizio umano non è affidabile; la soggettività è un ostacolo; tutto ciò che non si può misurare non esiste o comunque non ha valore; gli affari dei cittadini devono essere guidati da esperti.

Frrederick Taylor

Tale assiomi non solo sono stati implementati nel capitalismo fordista ma rinnovati e riadattati nell’industria digitale neocapitalista, pensiamo ai lavoratori di Amazon, umani robotizzati e spinti al limite della nevrosi, e in particolare da Google che tutto quantifica e per cui i dati sono tutto. Inoltre tali principi hanno sconfinato in ambiti all’economia distanti, per esempio quello artistico, e sono divenuti i veri dittatori di un pensiero culturale dove, in tutta teoria, dovrebbe annidarsi una piccola scintilla di opposizione al pensiero unico e fideistico nell’onnipotenza del numero.

Ma i numeri dicono davvero sempre la verità? Sono veramente questa potenza oggettiva e inconfutabile? Davvero quello che è zero oggi, inqualificabile, merita di non essere nemmeno indicizzato? Vogliamo davvero creare e abitare un mondo culturale la cui logica algoritmica favorisce l’omologazione e le echo chambers piuttosto che il confronto con il diverso e l’inaspettato?

L’impero dei numero è governato da molti sovrani dal potere assoluto: gli algoritmi, enti oramai semidivinizzati ma per niente neutrali e super partes. Sono creati dagli uomini e si portano dietro i perenni umani difetti. Come dice Kelly McBride del Paynter Institute: «gli algoritmi sono pezzi di codici che prendono decisioni e in ogni decisione che prendono danno la priorità ad alcune informazioni rispetto ad altre» e ancora :«Le aziende che scrivono gli algoritmi possono, nella migliore delle ipotesi, contribuire alla diminuzione dello spettro delle idee e dei punti di vista, tralasciando alcune informazioni e dando la precedenza ad altre, Nella peggiore, invece, possono usare i codici per filtrare alcuni pezzi di informazione e così arrivare a influenzare l’opinione pubblica». Il caso Cambridge Analytica avrebbe dovuto far risuonare più di un campanello d’allarme.

Brittany Kaiser, nella sua biografia in cui racconta l’esperienza in Cambridge Analytica, illustra con chiarezza i principi del capitalismo digitale basato sul modeling, tecnica scientifica che serve a prevedere il comportamento degli individui, sull’analisi dei dati (che continuiamo a fornire gratuitamente ogni giorno scegliendo un film, scrivendo un post o cercando un indirizzo su Google maps), e sul microtargeting comportamentale, attraverso cui si confezionano messaggi specifici creati per certi tipi di personalità attentamente individuati tra gli utenti. Gli effetti di queste operazioni non sono paragonabili alla semplice pubblicità in cui a furia di vedere una bottiglia di Coca Cola ci vien voglia di comprarla, qui si tratta di prevedere il comportamento degli individui, di orientarli e indurli a compiere determinate scelte. Creare insomma le condizioni che portino il pubblico a comportarsi come ci si aspetta che facciano. O diano il loro voto a questa piuttosto che quella fazione politica. Questo è già avvenuto per importanti elezioni, mettendo a rischio e in dubbio il concetto stesso di democrazia.

Brittany Kaiser

Vogliamo veramente importare questo pensiero e tali processi in campo culturale? Se qualcuno pensasse che sia un pensiero complottista o esagerato invito a considerare che uno dei motti di Cambridge Analytica era: la soluzione è nel pubblico, pensiero che, guarda caso, si sente ripetere negli ultimi anni come un tormentone da qualsiasi ente finanziatore in ambito culturale, sotto la bandiera audience engagement o audience development.

In questi mesi di lontananza dai teatri e dai palcoscenici, le arti dal vivo si sono precipitate nel mondo digitale, unico luogo pronto ad accogliere ciò che era proibito in presenza. Festival digitali, residenze digitali, corsi digitali di regia, di recitazione e di danza, performance digitali e infine riunioni fiume su zoom e similari. Tutto ciò nell’emergenza è avvenuto senza ponderare le conseguenze. E poi dall’esternazione del Ministro Franceschini su una Netflix della cultura, e che ora pare diventare realtà, ecco ancora il gran dibattito vertere più sulla sua utilità e modalità che sulle sue conseguenze, eppure queste sono dietro l’angolo e guarda caso hanno a che fare con i numeri, l’imperio dell’algoritmo e l’etica, se mai ci fosse, del neocapitalismo digitale.

La piattaforma: ecco un’altra parola chiave offerta come fosse un luogo di incontro aperto, accessibile. Queste sulla rete non sono elementi neutri ma si configurano come incarnazione di una nuova forma di politica. Le piattaforme sono dei possedimenti privati che tendono a configurarsi come dei monopoli e quindi come ecosistemi chiusi. Chi possiede la piattaforma non solo sceglie le regole del gioco ma controlla dati e accessi degli utenti, nonché i contenuti da trasmettere. È quello che tecnicamente si chiama Gatekeeper, ossia qualcosa di simile al kafkiano guardiano posto a sorvegliare la porta della legge. Come dice Nick Srnicek: «le sviolinate sull’era dell’accesso sono una retorica priva di significato che oscura la realtà della situazione: le piattaforme stanno diventando proprietarie delle infrastrutture della società».

Nick Srnicek

Ancora una volta il principio che apre la porta sono i numeri. E poi c’è sua maestà l’algoritmo il quale suggerisce all’utente contenuti simili, o relazionati a quelli scelti da altri che come lui hanno visto quel contenuto. Come dice Massimo Airoldi: «la cultura risultante rispetta i canoni di significazione statistica stabiliti dal codice software, l’algoritmo registrerà e riproporrà le correlazioni più forti, nascondendo quelle statisticamente non significative». Quindi la vista dalla cima dell’Everest è meno bella perché l’hanno vista in pochi? O se oggi Grotowsky facesse la prima de Il principe costante a Woclaw sarebbe ininfluente perché pochi spettatori ne avrebbero l’accesso?

A essere sotto attacco e a rischio di estinzione sarebbero, secondo questo principio e come nel film Divergent, i cosiddetti Outlier, tutti coloro che non seguono il modello statistico, la cultura così normalizzata dalla production of prediction. E ad affondare nell’oceano scuro e profondo della rete tutti coloro che non riescono a trovare le catene di parole chiavi giuste o a investire sulla visibilità. Il numero infatti vive dell’immediato pronto a essere sostituito da un nuovo numero il giorno successivo. Nessun pensiero sull’impatto a lungo termine di un’azione civile, artistica o politica, solo risultato immediato prima di essere sommersi da un altro contenuto inneggiato da migliaia di like.

Ma oltre a questo, a frammentarsi sarebbe una comunità che dal vivo, benché ridotta ormai a riserva indiana, (e questo nonostante a teatro ci vada molta più gente che negli anni ’90), era comunque presente. Ma cos’altro aspettarsi dall’etica e dalla pratica del neocapitalismo? Come afferma il sociologo Todd McGowan: «la società contemporanea ci sollecita a massimizzare il godimento individuale. Il godimento privato diventa di importanza primaria mentre a recedere è l’importanza dell’ordine sociale nel suo insieme». Il neocapitalismo corrode il concetto di comunità per accedere all’individuo ben più facilmente misurabile, manipolabile, e controllabile ai fini del mercato.

La cultura tutta e il teatro soprattutto, nato luogo da cui si guarda, nato agorà civile laddove si dibatte i temi laceranti della società, non dovrebbe provare a resistere a questa tendenza? Non dovrebbe provare a recuperare, anche clandestinamente, i luoghi suoi propri, luoghi di incontro e ritrovare le sue funzioni, invece di soggiacere alla logica del produrre a qualsiasi costo e su qualsiasi mezzo qualunque sia il sacrificio? Bastano pochi mesi di inattività per mettere in crisi la presenza?

Nel racconto di fantascienza di Ted Chiang dal titolo Respiro leggiamo questo pensiero: «se la durata di un universo è calcolabile, non lo è la varietà della vita generata al suo interno. Gli edifici che abbiamo edificato, i quadri che abbiamo dipinto, la musica e i versi che abbiamo composto […] niente di tutto questo avrebbe potuto essere predetto, perché niente di tutto ciò era inevitabile». Non lasciamo dunque che i pensieri e le funzioni dell’arte siano decisi da economisti e informatici. Gli artisti sono i massimi esperti del loro campo, sappiano scegliere il meglio per la loro arte, perché le scelte che stiamo facendo oggi condizioneranno il nostro futuro. Quando si adotta uno strumento questo difficilmente verrà abbandonato. Facciamo dunque in modo che serva gli scopi dell’arte e non di sua maestà l’algoritmo, figlio del capitale. C’è un bellissimo racconto breve di Kafka che vorrei mettere a chiusura di questo fugace ragionamento. Si intitola Piccola favola e forse ci induce a riflettere sul momento attuale e sulle conseguenze derivanti dalle scelte affrettate

:«Ahi!» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era così ampio che avevo paura. Continuavo a correre ed ero felice finalmente di vedere a sinistra e a destra in lontananza delle pareti, ma queste lunghe pareti si corrono incontro l’un l’altra così rapidamente che io sono già nell’ultima stanza, e lì, nell’angolo, c’è la trappola nella quale cadrò».

«Dovevi solo cambiare la direzione della corsa» disse il gatto e lo mangiò».

Piccola bibliografia

Nick Srnicek Capitalismo digitale, Luiss University Press, 2017

Andy Bown Capitalismo e Candy Crush, Nero Edizioni, 2019

Brittany Kaiser La dittatura dei dati, Harper Collins Italia, 2019

Daniele Gambetta, antologia a cura di, Datacrazia: politica, cultura algoritmica e conflitti ai tempi dei big data, D Editore, 2018

James Bridle Nuova era oscura, Nero edizioni, 2019

Manfred Spitzer Solitudine digitale, Corbaccio, 2016

Il giardino dei ciliegi

ALESSANDRO SERRA: IL GIARDINO DEI CILIEGI

L’immagine iniziale de Il giardino dei ciliegi diretto da Alessandro Serra ricorda un bellissimo racconto breve di Kafka intitolato Di notte: “Sprofondato nella notte. […] Gli uomini intorno dormono. Una piccola commedia, un’innocente illusione che dormano nelle loro case, nei letti solidi, sotto un tetto solido”, e giunge un lume da dietro il fondale, poi entro la stanza: “uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”. Da questo momento ecco il risveglio, tutto prende vita, inizia il vortice di risolini e piccoli pianti intorno al destino del giardino dei ciliegi.

Alessandro Serra fa danzare il testo di Čechov. La sua più che una regia è una coreografia, e la danza è quella degli appestati, di coloro che festeggiano sull’orlo dell’abisso che incombe solo un passo più in là. Le immagini evocate appaiono tutte a prima vista innocenti, serene, carezzevoli. Eppure un retrogusto di stantio, di muffo, di defunto non abbandona il palato. I fermo-immagine color seppia che evocano i ferrotipi e gli ambrotipi non parlano forse di un mondo morto? E gli oggetti? Il carrello, le sedie da giardino in ferro battuto, le valigie e le cappelliere, gli ombrellini da passeggio in pizzo? Non siamo di fronte a una ricostruzione suppur un poco surreale, per quanto a prima vista possa parere. È un mondo di fantasmi quello che appare davanti ai nostri occhi, di anime morte ignare del fulmine che si abbatteva su di loro. E non ci sono nemmeno vincitori e sconfitti tra quei balli, festicciole, e ritrovi di famiglia e amici. Tutti saranno travolti dalla nera tempesta che si profilava all’orizzonte e verso la quale nessuno volge gli occhi. Nel finale infatti si torna alla landa desolata i cui tutti dormono. Solo Firs si aggira tra loro, ma poi si accascia, si sdraia bocconi e, dopo un ultimo risolino, il silenzio. Non vi è nemmeno più colui che veglia.

Il giardino dei ciliegi
Il giardino dei ciliegi ph:@Alessandro Serra

Il movimento e il ritmo, di cui Alessandro Serra è padrone, sono proprio i sintomi più evidenti di tale sprofondare nell’abisso. Come diceva Ernesto De Martino: “In tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione; il mondo crolla, sprofonda”.

Le immagini sono cesellate, frutto di estrema cura. I quadri si susseguono come in una galleria. Ogni gesto o movimento è dosato e mai abusato. Tutto concorre a far emergere un gusto complesso, di dolce, di zuccheroso a nascondere il marcio che pur affiora. Probabilmente tutto ciò sfugge alle intenzioni volte più a far risaltare, come recita il programma di sala, una stanza per bambini e un sentimento legato a un’età lontana e come dimenticata. Ma l’opera spesso sfugge dalle mani dell’autore, rivela altri sentieri, sollecita altre visioni, e questo rivela la ricchezza di una scrittura al di là del tempo e delle interpretazioni.

Il giardino dei ciliegi

Il giardino dei ciliegi è stata l’ultima opera di Čechov ad andare in scena. Era il 1904 al Teatro d’arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij. Se Čechov aveva concepito l’opera come una commedia, Stanislavskij la interpretò come una tragedia. C’era dunque presente un’ambivalenza nella vicenda che faceva oscillare da un estremo all’altro, una ricchezza di punti di vista per un piccolo enigma. Passati sei mesi da quella prima Čechov morì di tubercolosi. Il grande scrittore se ne andava poco prima dei colpi di cannone. Nel 1905 scoppiarono infatti in tutta la Russia moti contadini e operai, un prologo a quella definitiva del 1917 che mise fine alla Russia zarista. La maggior parte non si aspettava un tale esito. Come i personaggi de Il giardino dei ciliegi molti non compresero i segnali di tempesta che incombevano su una società morente. Oggi come allora siamo ciechi. Tra feste e balli facciamo di tutto per ignorare i colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi

Visto al Teatro Astra di Torino il 15 febbraio 2020

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa

UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA: di Eugenio Barba e Lorenzo Gleijeses

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di Lorenzo Gleijeses, in prima italiana al Teatro Astra di Torino, è operacui è difficile affidare una paternità. Potremmo dire semplicemente che ha molti padri, ma non daremmo l’idea del complesso venire al mondo di questo lavoro.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è frutto del progetto 58mo Parallelo Nord (quello che passa per Holstebro, la casa dell’Odin Teatret). Insieme alla performance Corcovado, lo spettacolo nasce sotto l’egida di diverse supervisioni artistiche. Il materiale viene sottoposto via via all’occhio di un diverso artista che agisce trasformando a sua volta quanto emerso dagli incontri precedenti. Una sorta di catena di trasfigurazioni fino al raggiungimento di una forma non frutto dell’artista creatore quanto di una galassia teatrale alquanto eterogenea.

In questo progetto sono stati coinvolti oltre ai già citati Eugenio Barba e Julia Varley, anche Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK) e lo scenografo Roberto Crea. Uniche presenze costanti sono il corpo scenico di Lorenzo Gleijeses e l’intenso lavoro sul suono e l’illuminotecnica di Mirto Baliani.

Gregorio Samsa è un danzatore che prova un nuovo pezzo prossimo al debutto. Ripete costantemente e ossessivamente i movimenti coreografici non solo sulla scena, ma anche nella sua vita quotidiana, mentre mangia o telefona alla fidanzata, persino quando va in bagno. La sua abitazione non è nient’altro che un’estensione dello spazio scenico. La compulsione alla ricerca di una perfezione irraggiungibile allontana Gregorio da tutto ciò che lo circonda, lo trasforma in una creatura aliena incapace di comunicare. Gregorio vive una solitudine agghiacciante, da lui non avvertita perché il suo pensiero è diretto esclusivamente al debutto e a quell’eccellenza vanamente perseguita. I suoi movimenti extraquotidiani, di insetto che si contorce, non hanno niente in comune con ciò che è consueto alla vita. Il padre/maestro è l’unica presenza/assenza che acquista un significato per Gregorio, rapporto che si esplicita nell’impossibilità di quest’ultimo di soddisfarne le aspettative. Da questi elementi affiora una risonanza con la vicenda narrata da La metamorfosi di Kafka.

Eccellente l’uso della luce sempre segno che disegna spazi e ambienti. La casa di Gregorio, semplice area di tappeto bianco, con la luce diventa creatura viva. I luoghi affiorano dalla superficie e in un attimo scompaiono per nuovamente mutare. Suoni e luci disegnano una partitura che si integra con il movimento dell’attore/danzatore come in un unico complesso linguaggio.

Pochi e semplici oggetti contribuiscono inoltre a esplicitare l’ambiente. Il robot che ossessivo pulisce il pavimento è personaggio anch’esso e non semplice decoro. Come Gregorio attraversa lo spazio con gli stessi movimenti, compiendo le stesse funzioni ancora e ancora. Quasi una seconda voce che amplifica il canto.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa si sostanzia come una partitura fisica intensa e complessa che coinvolge tutti i materiali a disposizione. All’apparenza dunque questo lavoro a più mani, prodotto dalla Fondazione TPE insieme a Nordisk Teaterlaboratorium, braccio produttivo dell’Odin, è eccellente seppur con qualche difetto emendabile nelle repliche successive, come per esempio il finale che par non concludersi mai in un continuo ribadire il concetto. Vi sono tutti gli elementi per essere un’opera significativa e importante: un’ottima produzione, artisti di fama mondiale vi hanno contribuito, un interprete di grande livello, un apparato tecnico eccellente. Eppure tutto questo non basta.

L’oggetto scenico che si è costruito sembra alieno, incapace di comunicare la sua funzione a chi lo osserva. Come gli oggetti abbandonati nella Zona attraversata dagli stalker, nel romanzo dei fratelli Strugatski, sono semplici testimonianze di una civiltà che ci ha abbandonato senza spiegazioni, o come una vita sintetica creata in laboratorio che non riesce a scaldare il cuore, perché manca di quell’imperfezione che rende calda e viva un’esecuzione. Materiali e tecniche, seppur perfette, non sono nulla senza una funzione. Manca uno scopo e una direzione a questo lavoro. L’eccellenza non crea nessuna fiamma, non fomenta pensieri, non appesta come vorrebbe Artaud.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa diLorenzo Gleijeses è dunque un esercizio di maniera, lavorato con un team di super esperti e con un interprete con un grande bagaglio tecnico che padroneggia con esperienza ma che alla fine risulta freddo del tutto staccato dai bisogni della comunità pubblico in questo momento storico.

È questo purtroppo un difetto che affligge in teatro sempre più. Con tutto il parlare che si fa di audience engagement ci si dimentica di ripensare alle funzioni del teatro, alla sua possibile utilità. Attirare il pubblico non è semplicemente un affare da strateghi del marketing, ma frutto di una costante comunicazione con lo spettatore, un incontro con le sue esigenze un condividere uno sguardo sul mondo che sia comune e su cui si possa discutere. Purtroppo il lavoro di Lorenzo Gleijeses è un oggetto culturale che non tiene conto di questi aspetti. Cerca la qualità sia tecnica che compositiva che da sola non basta. Sono le imperfezioni ad attirare lo sguardo, sono i difetti che in fondo creano la personalità.

Ph:@ Tommaso Le Pera