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Davanti alla porta della Legge

DAVANTI ALLA LEGGE: RIFLESSIONI IN FORMA D’ALLEGORIA

Davanti alla porta della Legge è una parabola enigmatica contenuta ne Il processo. Viene raccontata dal predicatore del tribunale a Josef K, nell’ombra incombente del duomo. Kafka era un maestro di scrittura per enigmi, è stato il creatore di un universo mitico, disciplinato da regole alquanto astruse e inquietanti, ma tali da fotografare lampi e frammenti di verità della realtà presente e viva.

In qualche modo, rileggendo alcuni passi degli scritti di Kafka, alcune immagini mi sono rimaste fortemente impresse perché sembrano parlare del presente e in determinati passi addirittura sembrano riferirsi ai fondamenti del sistema teatro italiano e, nello stesso tempo, paiono sussurrare possibilità di fuga dalle grinfie dei suoi tentacoli più molesti e velenosi, se solo sapessimo ascoltare.

Facciamoci dunque suggestionare insieme da queste immagini e vediamo se riusciamo a farle parlare.

Cosa racconta l’apologo dell’uomo di fronte alla Legge? Un uomo giunge davanti alla porta della Legge. Il portone è aperto ma vigilato da un custode. L’uomo chiede di poter accedere alla Legge ma il guardiano dice che: «al momento non può assicurargli l’ingresso». L’uomo chiede allora se questo potrà avvenire più tardi e la risposta che ottiene è tanto enigmatica quanto ambigua: «È possibile, ma non ora». La speranza è alimentata, ma la durata e il motivo del divieto rimangono misteriosi.

L’uomo, nell’attesa, si sporge a sbirciare oltre il portone e il custode ora lo tenta e spaventa: «se ti alletta tanto, prova pure a entrare nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo il custode di grado più basso. Sala dopo sala vi sono guardiani uno più potente dell’altro. Già solo la vista del terzo io non la posso sopportare». Tanto basta a calmare ogni velleità di ribellione dell’uomo.

Costui quindi passa tutta la vita davanti al portone cercando di ottenere l’agognato permesso usando ogni mezzo possibile, e giunto infine agli ultimi istanti, mentre già gli occhi vedono solo buio in cui si intravede una luce fievole provenire dal portone della Legge, chiede al custode: perché in tutto questo tempo nessuno oltre me è mai giunto? Il guardiano strilla: «qui nessuno poteva ottenere di entrare perché questo ingresso era destinato solo a te. Adesso vado e lo chiudo».

Orson Wells Il Processo

In questa maniera crudele e repentina termina la parabola. Josef K. e il predicatore cominciano a fare una lunga e complicata esegesi del racconto. Il primo è convinto che l’uomo sia stato ingannato, mentre il secondo afferma che dopotutto il custode non è altro che un servitore della legge e ha fatto, forse ignaro, forse no, nient’altro che il suo dovere.

Eppure le spiegazioni non convincono. L’essenza non è stata esplicitata. Perché l’uomo non se n’è andato visto che nulla lo tratteneva? Perché per lui era così importante accedere alla Legge? E se era così vitale, perché non ha ignorato il divieto? E poi: qual è il significato di quella luce finale che traspare dal portone della legge? Forse mancano degli elementi che dobbiamo rintracciare altrove.

Spostiamoci un momento nel paesaggio innevato, nebbioso e oppressivo de Il Castello. L’agrimensore K. è a colloquio dal sindaco riguardo la sua assunzione, di cui tutti, tranne K. sembrano dubitare. In effetti rispetto alla posizione del povero K. vi sono elementi ambigui e divergenti. C’è ovviamente la lettera di Klamm ma vi sono anche altri documenti che attestano il contrario. Insomma K. rimane tra color che son sospesi. Anche qui la legge è barriera, ma trasformata però in norme e disposizioni amministrative, lacciuoli stringenti, di difficile comprensione e applicazione, opera di una serie di funzionari plenipotenziari del conte Westwest che nessuno ha però mai veduto. Alcuni di questi burocrati sono chiamati signori e hanno un loro personalissimo albergo. Sono dispotici, dispettosi, lussuriosi, viziati, onnipotenti.

Orson Wells Il Processo

Tre sono i particolari inquietanti all’interno del mondo macchinoso e burocratico del castello: la strada che dovrebbe portare le persone alla fortezza sul colle apparentemente si dirige verso le sue mura ma poi diverge per portare altrove. Sembra dunque che non ci si possa arrivare, che il Castello sia di fatto isolato benché dalla sua azione tutto dipenda. Secondo punto: nessuno sembra volerci andare e effettivamente nessuno oltre K. prova a compiere l’impresa. Come per la porta della Legge nessuno oltre l’uomo vi si presenta. Terzo: come fa notare Roberto Calasso, al mondo del castello non appartengono né religione né cultura. La chiesa è solo un edificio fra tanti, libri non compaiono mai, e i quadri ritraggono solo funzionari per altro di basso livello. Esiste solo la tirannica e impossibile burocrazia adorata come un Dio e compulsata, annotata, commentata come fosse la Divina Commedia

La legge e la burocrazia escludono la cultura. Sono totalizzanti e non permettono altro pensiero. L’arte necessita, e lo sapevano bene gli antichi, di otium, e invece bisogna occuparsi dei procedimenti e delle disposizioni perché i signori del Castello non ammettono errori, benché nulla sembri procedere in alcuna direzione.

L’assenza di cultura risulta, pur se meno evidente, anche ne il Processo: l’unico libro che Josef K. trova in possesso di un giudice del tribunale è un’opera colma di immagini oscene, e il pittore da cui spera aiuto dipinge solo ritratti di giudici per lo più di basso rango le cui commissioni hanno un unico scopo: pura e semplice vanagloria.

Oscenità e decorativismo. Due elementi che accomunano l’universo kafkiano con il sogno del bordello-museo di Baudelaire. Ciò che invece avvicina e rende simili l’agrimensore K. e l’uomo davanti al portone della Legge è il fatto di essere essenzialmente liberi di andarsene. Niente obbliga uno o l’altro a restare vincolati alla missione autoimposta. K. potrebbe ritornare da dove è venuto oppure potrebbe, come suggerito da Frieda, andarsene via con lei altrove. Persino l’uomo potrebbe tornare in campagna. Sembra però che una volta avvinti dalla forza gravitazionale di questo buco nero burocratico amministrativo non se ne possa uscire.

Nonostante questa apparente paralisi entrambi sono manifestazione di un mondo potenziale. Se ora sono inutili e umiliati niente vieta che in un istante diventino potenti. Il mistero è perché non vogliano esercitare questa energia per svincolarsi dai sentieri forzati posti di fronte al loro cammino.

Questo è il punto veramente fondamentale: si potrebbe pensare a soluzione alternative ma queste non vengono minimamente prese in considerazione. Se l’eroe della tragedia greca lottava contro il fato tanto da rimanerne sconfitto, nella cosmologia kafkiana si lotta per avere ragione del regime burocratico, senza voler esercitare l’unica possibilità di vittoria: ignorare il sistema e inventarne uno diverso.

Pensiamo a Josef K. a cui si nega, innocente, la possibilità di assoluzione. Ciò che gli resta sono la dilazione e l’assoluzione fittizia e in entrambi i casi sono metodi incapaci di garantire una sicura e permanente libertà dai nascosti e invisibili tentacoli del tribunale. Potrebbe fuggire perché, anche se arrestato, è libero di andare dove vuole e in possesso di tutti i suoi documenti. Ma non lo fa. Decide di combattere ma senza voler seguire le strade battute. Vuole rivoluzionare il sistema dall’interno. Il finale lo conosciamo: ucciso nella cava come un cane da due pessimi attori di cabaret.

Vi è un altro elemento parallelo tra queste storie incompiute (tutte le storie migliori lo sono, non hanno mai fine e hanno infinite chiavi di lettura): nessuno ha mai visto chi dirige il tribunale o regna sul castello. Vi è un frammento che potrebbe metterci sulla strada giusta e lo riporto interamente:

«Ci sono molti che aspettano. Una moltitudine immensa, che si perde nel buio. Che cosa vuole? Evidentemente accampa determinate pretese. Ascolterò queste pretese e poi risponderò. Ma non uscirò sul balcone; né lo potrei, anche se volessi. D’inverno la porta del balcone viene chiusa e la chiave non si trova. Non mi affaccerò nemmeno alla finestra. Non voglio vedere nessuno, non voglio lasciarmi turbare dalla vista di niente; dietro lo scrittoio, ecco il mio posto, la testa fra le mani, ecco il mio atteggiamento».

Quest’uomo (forse il conte Westwest?) è chiuso nella sua stanza con balcone. È inverno (come ne Il Castello dove, lo dice la camerierina Pepi, è sempre inverno a parte qualche rara eccezione) e l’uomo non esce mai benché molti richiedano qualcosa da lui. Non risponderà in nessun caso anche se forse all’inizio ne aveva intenzione. Vuole rimanere allo scrittoio, gli occhi fissi sul piano.

Elias Canetti in Der andere prozess sembra darci qualche elemento in più. Anche in questo caso è giusto riportare l’intero frammento: «Io ero inerme di fronte a quella figura, che sedeva quieta al tavolo e ne guardava il piano. Io giravo intorno a lei e da lei mi sentivo strangolato. Intorno a me girava un terzo e da me si sentiva strangolato. Intorno al terzo girava un quarto e si sentiva da lui strangolato. E così si proseguiva sino ai moti degli astri e oltre. Tutto sentiva la stretta al collo».

L’uomo ritratto da Canetti sembra proprio lo stesso del frammento di Kafka: la testa tra le mani e lo sguardo fisso sul piano della scrivania. Intorno a lui gravitano un numero imprecisato di persone. Si parla di quattro ma sappiamo che la serie è infinita. Tutti si sentono soffocare dal gravitare degli altri in queste orbite concentriche il cui centro sembra disinteressarsi di loro. Canetti, cogliendo il segno di universalità delle sue immagini, sembra dar forma cosmologica a ciò che Kafka aveva immaginato.

Anthony Perkins In Il Processo di Orson Wells

Canetti ne Il frutto del fuoco afferma essere le immagini una sorta di rete da pesca attraverso cui far affiorare i punti nodali su cui poggia la nostra comprensione del mondo. Quelle potentissime di Kafka, affioranti dal suo universo allo stesso tempo mitico e burocratico amministrativo, ci aiutano a determinare la particolare situazione in cui versa il teatro italiano. O per lo meno a farci un’idea dei pericoli e umiliazioni cui è sottoposto.

Innanzitutto il legislatore (di ogni ordine e grado, sia inteso) appare come l’uomo nella torre del frammento: lontano, chiuso nel suo studio, con le mani a stringere la testa e lo sguardo fisso sul piano del tavolo. Anche se volesse non avrebbe la chiave per aprire il balcone e osservare il mondo che dovrebbe governare.

Le leggi e le disposizioni sono quindi svincolate dalla realtà, come nel caso dell’assunzione di K. come agrimensore del Castello. Tutto appare arbitrario, di difficile comprensione e applicazione (basta provare a leggere l’ultimo decreto sulla ripartizione del FUS nel prossimo triennio 2022-24).

Artisti e operatori si trovano quindi nella stessa situazione di Josef K.: mai assolti e sempre in stato di giudizio, obbligati a occuparsi ogni giorno dei propri procedimenti e pratiche, al fine di soddisfare i funzionari di questo orrendo tribunale. Per di più, come nel Castello, sparisce la cultura e resta la burocrazia. Il tempo eroso per sottoporre l’attenzione alle procedure amministrative impedisce lo svolgersi di un’azione artistica efficace e inoltre ne abbassa i livelli per rispondere alle caratteristiche indicate e volute.

La legge diventa quindi l’obiettivo, entrare nella sua porta per tutelare la propria attività, anche se niente garantisce che ci sia qualcosa o qualcuno al di là di quella benedetta porta. Potrebbe essere tutto un inganno del custode o semplicemente della Legge stessa per garantirsi una raison d’être che altrimenti verrebbe meno. Molti vengono respinti, ma tutti si presentano di fronte a quel portone che è lì solo per loro. La funzione del teatro non è più propria a se stesso. Come nel Gran Teatro di Oklahoma una volta entrati si viene rapiti da un vortice amministrativo solo per essere assunti.

Ora di certo questo gioco allegorico è solo una piccola provocazione a fin di bene però è giusto ricordare che come per K. o per l’uomo di campagna, non vi è nessun obbligo a rimanere in questo stato. Si può e si deve, per quanto difficile sia, costringere il legislatore a uscire sul balcone e ascoltare coloro che vogliono parlargli. Di certo non come le discordanti trombe del Gran Teatro di Oklahoma, ma con una voce unitaria. Non si può più accettare che il mondo dell’arte venga risucchiato in un gorgo burocratico amministrativo fatto di domande, ricorsi, rendiconti, ritardi nei pagamenti, corsi di aggiornamento, regole e pratiche emergenziali o meno.

Urge trovare il modo di parlare con i signori del Castello e con il conte Westwest e non importa che la strada sia difficile da percorrere, ne va della salute del teatro. A non provarci si rischia la fine di Josef K, offrire il collo docilmente a un destino ineluttabile.

Kollaps

IL MULINO DI AMLETO: KOLLAPS DI PHILLIP LÖHLE

Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.

Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.

Kollaps ph: @Andrea Macchia

La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.

Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?

Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.

Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.

Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»

Il mulino di Amleto Ph:@Andrea Macchia

Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.

La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.

Kollaps Ph:@Andrea Macchia

Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.

Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.

Mangiafoco

Fuoco cammina con me: il Mangiafoco di Roberto Latini

Elias Canetti diceva che le immagini sono “una via verso la realtà […], sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane”. Il libro da cui è tratta questa due breve citazione è Il frutto del fuoco, un’opera che curiosamente trova risonanze curiose e interessanti con l’ultimo lavoro di Roberto Latini Mangiafoco.

Le avventure di Pinocchio è sicuramente uno dei libri che più ha acceso la fantasia creativa degli artisti in questo ultimo secolo. Pensiamo solamente a Carmelo Bene, Luigi Comencini o Maurizio Cattelan per citare i giganti. Pinocchio è un’efficacissima rete da pesca per far affiorare la realtà. Le immagini però, sempre secondo Canetti, hanno anche un’altra funzione, quella di accordarsi all’esperienza, soprattutto quando quest’ultima tende a fuggire, restia a farsi interpretare. Immagine ed esperienza si accendono vicendevolmente, entrambi acceleranti con lo scopo di mantenere vivo il fuoco della vita.

Ecco dunque apparire il primo tema di Mangiafoco: un intreccio di immagini ed esperienze a produrre immaginazione. Gli attori, tutti straordinari, si presentano, precipitati da uno scivolo che è strumento di mise en abîme, e raccontano il loro curriculum vitae all’interno di una cornice: la scena di quando Pinocchio vende l’abbecedario e irrompe nello spettacolo di burattini mettendo in subbuglio il teatro di Mangiafoco. Il testo qui è pre-testo, il fiammifero necessario a innescare l’incendio perché nei racconti si accenda l’immaginario. Gli attori danno vita ad altri simulacri: Nora di Casa di Bambola, Enrico V di Shakespeare, e poi Čechov, Pirandello, Pasolini. Una catena interminabile che non è vuoto citazionismo, ma icone di un loro passato vissuto sulle scene che altre ne chiamano a raccolta in un gioco di specchi illuminanti. Quello che appare con forza è la bottega dell’artificio, l’apprendistato, il percorso. Viene dunque evocato un passato teatrale, le figure che hanno abitato la scena, i maestri Mangiafoco. Su tutti Leo De Berardinis artista indimenticabile. L frammento e il racconto di vita non sono banale e triste amarcord ma strumenti per indagare le funzioni della scena. Cos’è e cosa serve quel burattino che si anima sulla scena. E chi è il burattinaio? Chi veramente tira i fili? Il pubblico? Il regista? L’autore? O forse siamo di fronte all’antico rito della maschera che parla la voce dell’oracolo?

Il teatro nel teatro è artificio spesso stucchevole, un rimando autoreferente e autogiustificante. Roberto Latini da molti anni indaga il meccanismo e ha imparato a padroneggiarlo utilizzandolo come una sorta di gioco delle perle di vetro, un mosaico di frammenti distanti e apparentemente alieni che ricompongono per prossimità un affresco mirabile in cui appare la funzione propria della scena: il luogo in cui le bugie sono portatrici di verità. Non una, asseverante e tirannica, ma molte, una per ciascun osservatore, acceso dalle immagini, scagliato verso un immaginario suo personale dalla forza propulsiva e centrifuga della creazione scenica.

L’occhio che guarda in Mangiafoco non è solo in platea, ma abita la scena sotto la maschera di Topolino. Una presenza aliena, inquietante, ma nello stesso tempo infantile, portatrice di ricordi e fantasie. Un pubblico impossibile seppur presente, uno sguardo forse funestato dalla ricerca di intrattenimento o, magari, solo manifestazione della fantasia collettiva. Videmus nunc per speculum in aenigmate diceva S. Paolo ai Corinzi, vediamo enigmi in uno specchio.

L’ardore è l’altro tema peculiare. Non solo il fuoco ma anche il ghiaccio. Elementi che bruciano, elementi che dissolvono e si dissolvono. Entrambi estremi lontani da quel tiepido rinnegato dall’angelo nell’Apocalisse. Essi sono simboli di una creazione, quella teatrale, in bilico perenne tra il bruciare energie e conservare la pienezza e l’essenza della maschera. Di certo elementi di una mutazione, difficili da conservare, pronti a svanire, lasciando cicatrici frutto di un percorso difficile ed estenuante verso la conoscenza e la consapevolezza.

Su tutto Mangiafoco aleggia un grande e devoto amore verso il teatro, questo artificio straordinario che spesso appare impolverato e dissestato ma, una volta illuminato con la giusta luce, sa riflettere e far riflettere con potenza smisurata le possibilità del reale.

Vorremmo concludere questa breve riflessione con un’ultima citazione di Elias Canetti: ”Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto”. Roberto Latini ci offre una cornucopia di immagini non tanto su Pinocchio quanto sul teatro: su quello che significa per chi lo osserva e frequenta e per chi lo fa e vive. Entrambi si nutrono delle immagini che scaturiscono da questa straordinaria Wunderkammer, meccanismo meraviglioso per comprendere chi siamo e dove viviamo.

Visto a Milano al Piccolo Studio Melato il 12 dicembre 2019