La coscienza di Zeno per la regia di Paolo Valerio è di quelle opere teatrali che di norma non vado a vedere. Essenzialmente la ragione risiede nell’essere convinto che il pubblico che assiste agli spettacoli tratti dai libri si possa dividere in due grandi categorie: quelli che hanno letto il libro e vanno a ricercare nostalgicamente le emozioni provate; e quelli che non leggono, e vanno a teatro come se fosse un surrogato della letteratura. Non è quindi il teatro ciò che ne muove l’interesse, ma la letteratura. L’arte teatrale in genere si piega a questa aspirazione e si sostanzia accomodante come una semplice messa in scena in forma ridotta di romanzo condensato modello Reader’s Digest. Ovviamente ci sono delle illustri eccezioni, ma in generale il processo porta a presentare un teatro confortevole e riconoscibile.
Scegliendo di assistere al Teatro Carignano di Torino a La Coscienza di Zeno, ho voluto, come critico, mettermi a confronto con i miei pregiudizi, vedere quello che non voglio vedere, e capire se la realtà può sorprendere. In fondo lo dice anche Zeno Cosini: «la vita non è né bella né brutta, è originale». E comunque, imitando Zeno, devo confessare che a giocare un ruolo non indifferente nel “nobile” atto di combattere i propri pregiudizi, è stato un sentimento nostalgico dettato dall’amore per Trieste, una città in cui trovo amici cari, situata in un angolo straordinario del mondo dove si mischiano territori e culture. Sotto la sua veste severa veneto-asburgica, dove il leone di San Marco si unisce in nozze equivoche con l’aquila bicipite, si trova sempre una certa illuminante follia. Anch’io dunque non ero spinto solo dall’amore del teatro.
La mia confessione non è posta a caso in questo articolo, è parte integrante del processo innescato da Zeno Cosini, interpretato magistralmente da Alessandro Haber. Lui confessa tutti i suoi pensieri più disdicevoli, ma senza prenderli sul serio, con leggerezza, facendoci ridere di lui e di noi stessi. Le sue memorie dovrebbero aiutarlo a guarire e a conoscersi meglio. Di fatto Zeno è già guarito, è stato malato di vita e l’ha sempre saputo.
Il suo monologo interiore ci fa entrare in contatto con le contraddizioni del suo animo, ma soprattutto tra ciò che succede nella sua testa e cosa appare a chi gli sta intorno. Un esempio è il suo desiderio di uccidere Guido perché ha sposato Ada al posto suo. Un pensiero omicida che nasce da gelosia e antipatia e compare improvviso durante un passeggiata. Questo sentimento si scontra con l’opinione di tutti i suoi familiari che lo considerano il più grande amico e l’unico sostegno del cognato. Persino i suoi tradimenti diventano ridicoli, senza malizia, piccole sbadataggini innocue. Ma ricordiamo: sono confessioni, memorie, e come tali falsate. Il racconto è sempre una mistificazione della realtà.
I ricordi di Zeno, per quanto ci facciano sorridere, rappresentano il conflitto tra rappresentazione interiore e ciò che comprendono gli altri delle nostre intenzioni e sentimenti. Un conflitto insanabile che assume tratti tragicomici, come quando sbaglia funerale ma riesce, mentendo, a passare per parente sollecito dei bisogni di Ada. Solo Lei non gli crede perché sa, in fondo, che Zeno ha sopportato Guido per amor suo e non per empatia verso il cognato.
La scenografia rende visibile ciò che si proietta nella mente di Zeno, le immagini della città dal Canal Grande con al fondo la Chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo e le cupole della Chiesa Ortodossa, a Piazza Unità, a Piazza della Borsa. Ma anche le foto di famiglia, il mare, la luna. Un occhio, interiore ed esteriore, che guarda questa vita e quelli che l’hanno vissuta con lui.
Paolo Valerio ha creato volutamente una messa in scena metateatrale, La sua coscienza di Zeno vede il confronto tra il Cosini del passato e il Cosini presente, uno Zeno bicipite come l’aquila degli Asburgo. Giovinezza e vecchiaia si guardano, ma quest’ultima è una regista esigente. Mette in scena gli anni che furono e quando l’azione non corrisponde all’intenzione del racconto a posteriori, viene fatta rifare con indicazioni registiche quasi si fosse in prova, finché non diventa convincente. Il gioco della verità a teatro riesce solo se tutti mettono una maschera e iniziano a mentire.
Zeno sembrerebbe malato immaginario, sempre in balia di medici e psichiatri, ma la sua infermità è la vita con le sue contraddizioni, con le sue leggi e regole il più delle volte incomprensibili. Come dice nel bellissimo monologo finale: «Forse la malattia che mi procurava quei misteriosi dolori è semplicemente la vita. Non è una malattia da poco. Tant’è vero che è sempre mortale. Tentare di guarirne, di progredire, è un’illusione».
L’ultimo pensiero prima di calare il sipario è sulla guerra. Quella di allora e quelle di oggi. E quelle odierne ci avvicinano sempre più alla predizione finale di Zeno: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e malattie». A schiacciare il bottone per la grande esplosione sarà un uomo più malato degli altri.