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Leonardo Lidi

Il misantropo secondo Leonardo Lidi

Deitaro Suzuki, maestro Zen, per mostrare ai suoi allievi l’azione nefasta dell’ego, disegnava un cerchio in cui figurava solo una piccola apertura, una strettoia o, meglio, un’angusta porticina, unico varco entro cui il mondo esterno poteva accedere all’interno del cerchio della mente.

La scena che Leonardo Lidi allestisce per questa riscrittura de Il Misantropo di Moliere, a quattrocento anni dalla nascita del grande uomo di teatro, ricorda il disegno di Suzuki: un semicerchio di ferro altissimo in cui al centro si apre un pertugio. L’ambiente all’interno: nient’altro che un arido deserto.

I personaggi per entrare in scena devono chinarsi, piegare la schiena come sotto delle forche caudine, e giunti sulla desolata landa, giocare il proprio ruolo e poi uscire, nuovamente prostrati dall’angustia della fessura.

La scena per farsi specchio del mondo deve forse riflettere i meandri desolati di una sola mente (quella ferita è angustiata di Alceste), metafora di tutte le altre? Siamo così desolatamente soli da non più misurare il nostro agire nella relazione con gli altri ma solo nel dialogo con i nostri stessi fantasmi? Leonardo Lidi sembra porci proprio questa precisa domanda.

La vicenda di Alceste, quest’uomo di nobile lignaggio, deluso dal mondo e dalle sue continue ipocrisie, uomo desideroso di verità fino al dolore, è intriso di rabbia, cede alla nefasta tentazione di vedere tutto in rovina, senza soluzione, avvinto e imbrigliato dalle false convenzioni della società. Eppure Alceste compie fin dall’inizio quel peccato mortale che gli preclude ogni salvazione: non ascolta, si rinchiude nel boschetto fortificato della sua fantasia e non può che proferire a ogni piè sospinto: “io…, io…, io…”. Non c’è spazio per le parole degli altri, per le loro qualità, ma solo per i difetti, unici elementi a risvegliare la sua attenzione, limitata e colma di pregiudizi, riuscendo ad entrare in quella strettoia che conduce all’interno della sua mente.

Christian La Rosae Giuliana Vigogna ne Il misantropo di Moliere per la regia di Leonardo Lidi Ph:@ Luigi De Palma

La riscrittura di Leonardo Lidi de Il Misantropo si impernia totalmente in questo viluppo che porta l’io all’io senza passare per l’altro, le sue opinioni, le sue mancanze, i suoi dolori. Non c’è compassione. Neppure amore, benché tutti in qualche modo siano innamorati di qualcuno: Alceste di Celimene, Eliante e Arsinoé di Alceste, Filinte di Eliante, Oronte di Celimene, Celimene della vita nel suo insieme.

Si parla d’amore benché sia assente. Vi è solo gelosia e desiderio di possesso o di rivalsa. Non può essere altrimenti: se l’altro non è un elemento di accesso al mondo, ma solo una lastra fotografica su cui imprimere le nostre aspettative, non vi è spazio per i sentimenti. Non vi è dono ma solo richieste e pretese.

Leonardo Lidi da una commedia ricava un dramma amaro, pregno di solitudine, in cui il riso, se c’è, è quasi un intruso e riconferma la sua volontà di aggiornare i testi della tradizione in una forma più adatta al presente, più vicina al pubblico di oggi.

La vicenda si sviluppa in frammenti, in scene singole, come un florilegio di arie dell’Opera di Pechino. I personaggi convengono in questo deserto pur non incontrandosi mai, proferiscono le loro battute o i loro monologhi, e poi escono o si aggirano senza meta tra le sabbie. Non sono mai uniti, anche nelle scene d’insieme. Soli persino in compagnia. La folla è anonima, priva di volti, senza interesse per i personaggi principali se non per essere oggetto di strali o di vanità.

Bravi gli interpreti nel conformarsi a questo mondo arido, e capaci di toccare i cuori disidratati e disseccati di noi spettatori.

Vi sono però anche alcuni elementi di perplessità. Il personaggio di Lui, per esempio, presente già in La casa di Bernarda Alba di Lorca: se in quell’occasione aveva un pregnanza evocativa, emblema di una presenza maschile fagocitante seppur assente, in questo allestimento sembra superfluo, utile a raccordare scene e situazioni ma non veramente significante nel meccanismo generale della regia.

Anche la pioggia nel finale, benché suggestiva (e per altro già utilizzata ne Gli spettri di Ibsen), non aggiunge e non toglie nulla alla catena di significanti che rendono fecondo l’allestimento. Così come la canzone Guarda che luna di Fred Buscaglione, più nota di colore romantico e pop che effettivo elemento pregnante della vicenda.

Leonardo Lidi ne Il Misantropo riafferma i suoi stilemi registici e interpretativi che lo hanno portato all’attenzione di pubblico e critica. È indubbio che i suoi allestimenti funzionino e sappiano sia far rendere gli attori che donare al pubblico emozioni e domande che necessitano di riflessione. Lo fa tenendo fede alla sua estetica ormai formata e sicura. Forse però, è questo non è che l’umile parere di un critico, è venuta l’ora di andare oltre, superare le proprie sicurezze per non venire imprigionato come Alceste nella sua fortezza mentale. Forse è il momento di osare di più perché sicuramente Leonardo Lidi ha le qualità e abilità tecniche per affrontare le terre incognite.

Durata 1h20′ senza intervallo

In scena al Teatro Stabile di Torino dal 3 al 22 maggio 2022

Visto al Teatro Carignano il 15 maggio 2022

Kollaps

IL MULINO DI AMLETO: KOLLAPS DI PHILLIP LÖHLE

Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.

Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.

Kollaps ph: @Andrea Macchia

La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.

Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?

Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.

Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.

Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»

Il mulino di Amleto Ph:@Andrea Macchia

Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.

La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.

Kollaps Ph:@Andrea Macchia

Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.

Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.

Enrico IV di Pirandello

ENRICO IV di Pirandello: Carlo Cecchi e il folle gioco tra verità e finzione

In questo Enrico IV di Pirandello riscritto da Carlo Cecchi, in scena al Teatro Carignano fino al 25 febbraio prossimo, si assiste a un gioco di specchi e risonanze che come in un romanzo di Philip K. Dick fa domandare dove sia la realtà.

Carmelo Bene in una sua magistrale lezione dal titolo Cos’è il teatro edita da Marsilio diceva, parlando del teatro tradizionale, quello con le parti, i copioni e le interpretazioni, che far finta di credere di essere una persona che non si è mentre la gente ti guarda e fa finta di credere che tu sia proprio quel personaggio che non sei, era un’operazione da Croce Verde. Una follia che Enrico IV di Pirandello fa diventare protagonista e Carlo Cecchi, nel riadattarlo, rende esponenziale. Uno spettacolo che, come recita il programma di sala: “parla di teatro, di teatro nel teatro e di teatro del teatro”.

Un uomo finge una pazzia, finge di essere l’imperatore Enrico IV di Germania, gli altri, i familiari, gli amici, lo assecondano, e la recita diventa la realtà, messa in scena per fuggire alla realtà. E così questo gioco di finzione fa sì che il concetto stesso di realtà diventi ambiguo, sfuggente, indefinibile.

Cosa è vero in questa vita dove ognuno indossa una maschera e recita una parte? Dov’è il confine tra vero e falso in un mondo in cui il reame di reale e virtuale si confondono sempre più?

Carlo Cecchi in questo Enrico IV rilancia il tema Pirandelliano della maschera e lo estremizza. Siamo nella rappresentazione elevata a potenza. Il teatro che si balocca con se stesso, specchiandosi come un Narciso, fino all’ultima battuta dove si dice all’attore che impersona il Barone Tito, ucciso da poco: ”Alzati che domani abbiamo un’altra replica”. Finzione nella finzione che gioca a svelare se stessa, ma la verità, quella greca, l’aletheia, è au contraire ciò che velandosi disvela.

Un’operazione questa di Carlo Cecchi molto intellettuale e un poco cervellotica. Una prova da grande attore, di un maestro della scena, in un testo pensato e scritto per un Grande attore come Ruggero Ruggeri. La regia è quasi nulla, nessuno si muove, tutte belle statuine, vicino alle sculture vere e proprie di Matilda di Canossa e dell’imperatore Enrico IV. Questo è uno spettacolo tutto nel suono della voce, quella di Cecchi, che quando appare fagocita quella di tutti gli altri personaggi. Ci lasciamo trasportare dai pensieri di Enrico IV, dal suo arguto gioco per sfuggire alla realtà, ma nello stesso tempo ci lasciamo suggerire da quella stessa voce che quello a cui stiamo assistendo è un gioco del teatro per il teatro, e questo si rende evidente proprio nella citazione  del Theatre et son double.

In questo Enrico IV di Pirandello si assiste dunque una rappresentazione che gioca con se stessa, perché come dice Carlo Cecchi: “questo (intendendo il teatro) è l’ultimo luogo in cui si può giocare”. Un ludo ripeto un po’ troppo complicato, complesso, e che parla di un tipo di rappresentazione che ha una patina polverosa e stantia. Un classico che diventa reperto archeologico laddove sulle scene contemporanee si assiste ad altri processi e a più fini elaborazioni.

Non vedevo Carlo Cecchi da un lontano Finale di Partita visto al Teatro Goldoni di Venezia. Era il 1995 e quell’anno vinse pure il Premio Ubu come Miglior Spettacolo e Miglior regia. Rimasi affascinato ora come oggi dal grande attore, da quella sua voce capace di rendere viva una realtà di finzione. Eppure nonostante il fascino e l’ammirazione per tanta tecnica, supremo talento e bravura, resto convinto che quel tipo di rappresentazione, quello che Carmelo chiamava da Croce Verde, sia appunto una fuga dalla realtà, esattamente come in Enrico IV. Ho sempre creduto che il teatro sia l’occhio che guarda il mondo, Teatron, e che non fugga da esso. Lo insegue, lo rimodula, lo ripensa. Come diceva Demetrio Stratos in una vecchia canzone degli Area: “giocare col mondo facendolo a pezzi”.

Simon Stone

LES TROIS SOEURS: Cechov riscritto e rivisitato da Simon Stone

Lo dico subito così non resta alcun dubbio: questa versione de Le tre sorelle diretta da Simon Stone e in scena al Teatro Carignano fino al 26 gennaio prossimo,  è grande regia e non fa per niente parte di quella categoria di spettacoli di cui ci si dimentica dopo dieci minuti che si è usciti da teatro.

Cercheremo in questa breve disamina di capire in cosa consistono i punti di forza ma anche di individuarne i difetti, e non per fare i puntigliosi che cercano in ogni occasione il pelo nell’uovo, ma per assolvere uno dei compiti della critica, che non è quello di accodarsi al pubblico plaudente ma quello di sollevare questioni e problemi che siano utili all’arte scenica.

Simon Stone fa riscrivere completamente Cechov. Tutta l’azione e il dialogo sono riferiti al nostro presente. C’è tutto: da Donald Trump a The Walking Dead. La scrittura è aggiornata anche sulle questioni di genere con inserti e personaggi del mondo LGBT. Un’operazione che richiama le riscritture filmiche dei grandi romanzi.

Tutta l’azione, divisa in tre atti, avviene in uno chalet girevole, una casetta per vacanze con vari locali su due piani e giardino. Noi spettatori voyeur, abituati a curiosare nelle vite degli altri su Facebook, siamo i guardoni che vedono la vita degli altri scorrere senza parteciparvi come tanti Tonio Kroger.

Tre atti e tre momenti nella vita di questa piccola comunità che gravita intorno alle tre sorelle: un’estate, un natale, e il momento in cui lo chalet si vende e avviene il suicidio. Tutta l’azione scorre davanti a noi nelle varie stanze in un sapiente montaggio di dialoghi e situazioni. Benché non accada quasi nulla e le conversazioni siano per la gran parte quelle di una famiglia qualsiasi, il flusso narrativo è intrigante, senza mai un momento di pausa.

Le scene orchestrate da Simon Stone sono sempre multifocali. Non c’è un solo punto di vista, ma molteplici. Se l’azione principale avviene in cucina, in giardino, in salotto o in bagno qualcos’altro accade che porta avanti la narrazione e tocca a noi pubblico fare il nostro montaggio.

Gli attori sono straordinari. I personaggi credibili. L’illusione di trovarsi di fronte a qualcosa di reale è massima. Sembra di essere al cinema e vedere tre episodi di una serie tv. Non di fronte alla vita vera, quella è ben più caotica, disperata, deludente. Una vita ricostruita dal cinema, che coincide quasi con la nostra, se non per i dialoghi perfetti, per i colpi di scena abilmente posizionati al posto e al momento giusto. Ma l’arte è questo: è artificio che parla della vita, non è la vita stessa, anche se per qualcuno il binomio doveva essere perfetto.

Così alla fine di questa breve descrizione ci troviamo di fronte a una delle questioni che sollevano Les Trois Soeurs di Simon Stone: convenzione vs iperrealismo.

Mentre osservavo e, lo ripeto a scanso di equivoci, mi godevo lo spettacolo, nello stesso tempo mi frullavano nel cervello le lezioni di Mejerchol’d del 1918 in cui parla dei Meininger. Il grande maestro russo parla dell’opposizione tra il naturalismo spinto all’estremo che non lascia nulla all’immaginazione e la convenzione che spinge la fantasia dello spettatore a riempire i vuoti e ammirare il mistero. E guarda caso questa disamina parte proprio da Cechov, il quale criticò Stanislavskij il quale aveva avuto il demerito di aver portato le regie delle sue opere troppo vicino alle posizioni iperrealiste dei Meininger.

Cechov stesso, secondo Mejerchol’d chiedeva di condurre le sue opere verso un mondo più convenzionale, magari sognate, ma che facesse emergere una sorta di mistero dal testo.

A questo pensavo mentre vedevo scorrere di fronte a me la regia di Simon Stone, pensavo alla curiosa coincidenza in cui vedevo questo Cechov giusto cento anni dopo le lezioni di Mejerchol’d e che quanto detto allora valeva ancora oggi. Cosa avrebbe detto Cechov di fronte a questo chalet perfettamente costruito e rotante, queste scene così aderenti al vero, questi personaggi così credibili in questa versione moderna dei Meininger? E questa forma di realismo estremizzato, dove in ogni scena c’è tutto, perfino le forchette nei cassetti, l’asciugamano di fianco al lavandino e le birre nel frigo, non è parte anche di un mondo produttivo elitario?

Chi mai nel teatro normale, quello che si dibatte nei problemi di finanziamento e distribuzione potrebbe mai permettersi questa forma di rappresentazione? Ed è forse poi necessaria, al di là di un risultato sopraffino, questa ricerca del reale a tutti i costi?

Mejerchol’d abbandonò nel 1918 il grande teatro, quello dei velluti e delle risorse infinite, per intraprendere una nuova avventura, che aderisse al momento rivoluzionario. Un teatro diverso, fatto di poveri mezzi ma di grande inventiva. E da questa scelta si creò una polemica in seno alla scena russa, proprio in merito alle due polarità di realismo e convenzione. Le stesso domande che assillavano Mejerchol’d e la scena russa abitata anche da Cechov, si possono curiosamente riferire anche all’oggi e ci fanno capire che in fondo benché molte condizioni siano mutate non molto è cambiato in cento anni.

Ma questa curiosa coincidenza riferita allo spettacolo di Simon Stone e al suo Cechov fa sì che la domanda che viene posta sia riformulata rispetto al presente. Questo iperrealismo cinematografico, al di là degli splendidi risultati, è una strada utile per il teatro di oggi? Questo osservare un’azione che si svolge davanti a noi indipendentemente da noi, non è una modalità rappresentativa d’altri tempi? Le Live arts non si stanno spostando gradualmente ma pare in maniera inequivocabile, verso una modalità performativa partecipata e processuale?

Ripeto queste sono domande che mi sorgono spontanee nel vedere uno spettacolo quasi perfetto e acclamato da numerosi e lunghi applausi del pubblico. Sono domande di sistema che vanno al di là dei meriti indubbi di un regista giovane ma già assai maturo e con ampi e valenti mezzi espressivi al suo arco. Sono domande che riguardano il teatro in generale e sorgono proprio di fronte a una delle sue migliori manifestazioni. Les trois soeurs di Simon Stone, questo Cechov riscritto e riattualizzato, è la Rappresentazione con la maiuscola. Ma non si era fatto di tutto per uscirne?

foto @Thierry Depagne

Bones in pages

BONES IN PAGES di Saburo Teshigawara

Vi è qualcosa nell’estetica giapponese che colpisce per la sua grazia e perfezione. Un rigore inesorabile per la precisione del gesto e del segno, come nella cerimonia del tè o in una calligrafia. Ogni movimento, ogni gesto nella sua severa impeccabilità è colmo di bellezza profonda, ma non è solo quella che avvince. É quell’essere compresi in un flusso, quel sentire il mondo e respirare con lui, che danno una qualità inesorabile e perfetta. Ogni cosa è giusta perché così deve essere.

Ma c’è un altro aspetto importante. L’emozione è generata ma non è presente. La concentrazione, l’essere completamente assorbiti in quello che si fa, nello spazio e nel tempo, insieme a tutto il creato, è cosa priva di emozione, è un’assenza dell’io e delle sue perturbazioni. È presenza del sé, quella parte che appartiene al mondo e si fonde con esso.

Bones in Pages è un viaggio nelle gabbie della nostra mente e una fuga dalle stesse. Quelle centinaia di volumi aperti sulle pareti, e schierati sul palco come un esercito di terracotta, quelle gabbie di plexiglas, il corvo appollaiato, corvo vivo che si muove e gracchia imponderabile come il destino, sono dentro di noi e ci pongono delle domande. Mi son domandato per tutta la performance e dopo se il vedere, il mio vedere, non fosse ingabbiato dalle migliaia di pagine lette, dai mille e mille spettacoli visti, dagli artisti frequentati e conosciuti, dai maestri che ho avuto. Se il mio fosse davvero uno sguardo che possa appartenermi e non sia invece frutto di schemi e schermi. Questa è la domanda che continua a rollarmi nella testa come dadi che si rifiutano di fornire un risultato. Se dalle pagine di quei libri incollati alle pareti, si sviluppano immagini che fanno danzare sulla scena, non è forse il mio sguardo danzato dalle mie conoscenze, un vedere quello che posso vedere e non un meravigliarsi fanciullesco di fronte a ciò che vedo per la prima volta. Il rimbalzo da un’immagine all’altra nella mia memoria e nella mia anima mi permette davvero di vedere? Alcuni pensano che sia un vedere più profondo, vedere lo schema dietro la trama, un cogliere il messaggio che è racchiuso più in profondità. Altri possono pensare che sia uno sguardo intellettualistico, mediato, freddo e distaccato come quello di un medico di fronte al paziente, uno sguardo privo di emozione e compassione. Si può pensare inoltre che tutto il mio vedere sia frutto di pregiudizi dovuti al mio gusto personale e alle mie intenzioni per quello che riguarda la scena e la sua funzione. E devo dar ragione a tutte queste istanze. Ma devo anche cercare di uscire dalla mia gabbia e cercare il vedere privo di schemi, essere aperto a ciò che incontra il mio sguardo e accoglierlo al di là di tutte quelle pagine e immagini che affollano la scena della mia memoria.

Bones in pages è uno spettacolo che pone questo tipo di domande. Questioni che vanno al di là della visione, della danza a tratti netta e semplice come una scia nel cielo, a tratti nervosa, convulsa, quasi istericamente sincopata. Vuoti e pieni, attesa e risoluzione, lentezza e velocità, come una musica del gesto, si compone e scompone sulla scena, in mezzo a tutti quei libri, quelle pagine svolazzanti, e il nostro sguardo in platea cosa riesce a cogliere? Riesce a rompere le barriere trasparenti che ingabbiano gli oggetti? Riusciamo a fendere la tela che divide, quasi trasparente membrana il palco dalla platea? Il velo è si tanto sottil che il trapassar dentro è leggiero, ma v’è pur sempre, e quel velo trattiene tutte le immagini e i ricordi e le sensazioni che ci hanno attraversato fino a quel momento, e gettano un’inevitabile ombra su ciò che vediamo.

sylphidarium

SYLPHIDARIUM di CollettivO CineticO

Sylphidarium e la Sylphide. Modello e variazione del canone. Se uno osserva bene il cavallo centrale in Guernica si può riconoscere il modello lontano: La battaglia di San Romano di Paolo Uccello. C’è una comunanza potente tra le due opere, non solo tecnica, non solo negli occhi allucinati del cavallo che distorce la testa dall’orrore della guerra. Parlo di qualcosa di viscerale, di intimo, come due laghi che si alimentano della stessa acqua, rinvigorendosi, mantenendosi vivi. Persino in John Cage si possono trovare piccoli e vitali frammenti di Mozart.

Questo fluire energetico tra le opere è la linfa che nutre il linguaggio artistico nel tempo. Se non ci fosse come sarebbe il linguaggio dell’arte? Non possiamo saperlo, perché essendo l’arte una lingua essa muta nel tempo, si nutre di vocaboli desueti, di forme arcaiche, di costrutti antichi rilanciandoli in forme nuove, neologismi, generazioni equivoche. Il tutto verso una lingua che ancora non si parla. Ci si limita a balbettarla.

Non c’è niente di strano in questo. È il corso naturale dei linguaggi. Un antico proverbio arabo dice: non si dicono cose nuove, ma cose vecchie in modo nuovo.

Per cui niente di strano che Sylphidarium intessa un dialogo con la lontana Sylphide, quel balletto che portò alla danza il tutù e l’elevarsi sulle punte.

Potremmo citare mille casi simili, negli ultimi tempi le She She Pop hanno fatto uno splendido ibrido con la Sagra della primavera. È una prassi in qualsiasi arte. Quello che mi stupisce di più è che questo venga visto come una sorta di cannibalismo necrofago. Non è un nutrirsi di carogne morte e abbandonate nella savana. È dialogo. È la metamorfosi che affascina Ovidio, questo trascorrere delle forme divine in quelle vegetali, di umani trasformati in animali, di mostri che generano dei. È il processo splendido e tremendo dell’arte.

Quello che mi manca davvero in Sylphidarium è la meraviglia del processo di rivitalizzazione. Questo splendido e tremendo bisbigliare tra le forme. C’è come una volontà freddamente clinica, priva d’amore nel dissezionare il cadavere, nel ricomporlo come un novello Frankenstein. È un nutrirsi come fanno le iene.

Ma c’è anche un disperdersi, un compiacersi nell’ossessivo sfilare di costumi, come in un defilé di moda autunno/inverno. Non che manchino momenti di grande fantasia formale, un creare forme dalle forme. Ma come in una sfilata di moda, queste fantastiche creazioni sono offerte allo sguardo come merci. Passano da una all’altra come in un catalogo. C’è molto freddo. Io almeno l’ho percepito così.

La musica di Francesco Antonioni è il valore aggiunto. Anche in questo caso c’è un rimandare alle forme classiche, soprattutto a Chopin, ma in un dialogo molto più fruttuoso, ibridato con calore. La danza piuttosto si adegua ai ritmi musicali in un assecondare lentezze, densità, frequenze. Non è un vero botta e risposta, quasi più un assentire.

Per tutti questi motivi, nonostante una possente tessitura, in questo lavoro intenso e persin crudele nel voler denudare le forme, ricomporle, rimodellarle, ho avvertito il dolciastro odor di decomposizione e il rumore assordante degli insetti necrofagi. Avrei voluto assaporare lo sbocciar di vita nova da ciò che lontano scompare all’orizzonte, più che un fredda meditazione sul cadavere.