Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.
Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.
La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.
Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?
Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.
Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.
Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»
Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.
La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.
Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.
Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.