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Vera Komissaržèvskaja: lo spirito del gabbiano

|ENRICO PASTORE

Čajka, gabbiano in russo, è sostantivo femminile, e nessuno seppe incarnare il suo spirito come Vera Komissaržèvskaja. Fu lei a salvare la prima de Il gabbiano all’Aleksandrinskij di Pietroburgo il 17 ottobre 1896 da un fiasco senza appello benché, per l’ostilità del pubblico, la sua voce fosse solo un sussurro. La sua Nina, delicata, colma del lirismo e delle contraddizioni insufflati da Čechov, fu l’unico personaggio ad emergere in un mare di mattatori miranti solo a far brillare il proprio ampolloso accademismo.

Vera Komissaržèvskaja fu sempre legata a Il gabbiano fino a far coincidere la sua vita con le sue atmosfere e aspirazioni. L’ultimo suo telegramma prima della morte ci racconta di un innamoramento mai cessato: «nell’universo eterno e immutabile resta soltanto uno spirito – Čajka».

Vera Komissaržèvskaja nacque a Pietroburgo il 27 ottobre 1864 in un famiglia di cantanti lirici. Da loro forse ereditò la bellissima voce, con toni morbidi, avvolgenti, tanto ammirata dai poeti simbolisti e dal suo sterminato pubblico. Stanislavskij la ricorda appartata da tutti a cantare nostalgiche canzoni tzigane alla chitarra durante le prove de I frutti dell’istruzione, dove avevano recitano insieme nel 1891.

Benché ai suoi funerali tutti la ricordarono, nelle corone che accompagnavano il feretro, come una donna fragile come un fiore, un giglio infranto o un bianco mughetto, ella fu forte, impavida, capace di fare scelte difficili e gestirle con sicurezza. Ella piuttosto personificava le contraddizioni di un’epoca come ricorda Znoska Borodin: «Incarna un tipo di donna nuova che, come Nora, afferma la sua personalità, proclama il suo io e parte alla conquista dei suoi diritti […] ma in lei si esprime anche tutta l’angoscia di un’epoca catastrofica».

La Russia infatti all’inizio del secolo Venti era dilaniata da lotte sociali che sfociarono in moti tumultuosi anticipanti quella Rivoluzione d’Ottobre ch’ella non vide mai. Il teatro rifletteva le dinamiche contraddittorie di un nuovo che lottava per nascere e di un vecchio sistema duro a morire. Il suo animo perennemente alla ricerca dell’altezza risultava eternamente insoddisfatto, incapace di trovare nella realtà la base per far emergere le sue alte aspirazioni.

Lunačarskij scrisse: «non poté mai scollarsi dalle ali del proprio talento una cenere di lutto», e Blok, parlando dei suoi splendidi occhi che tanto sapevano ammaliare chiunque la guardasse: «Vera Fedorovna Komissaržèvskaja vedeva molto più lungi di quanto potesse un occhio comune, non avrebbe potuto altrimenti, perché aveva negli occhi una scheggia di specchio magico, come il ragazzo Kaj della fiaba di Andersen. Perciò questi grandi occhi azzurri ci affascinavano tanto: il suo sguardo alludeva a qualcosa di immensamente più grande di lei stessa». Lo specchio della Regina delle Nevi però inquinava i pensieri e i cuori, creava angoscia e insoddisfazione, mali di cui Vera mai seppe liberarsi.

Nel 1902 diede l’addio all’Aleksandrinskij dove recitò per lunghi anni. Benché i maligni ricondussero quella scelta a un’insanabile malanimo con la Savina, sua acerrima nemica, in realtà Vera Komissaržèvskaja non trovava più stimolo a recitare secondo i vecchi schemi accademici. Nemmeno i rivoluzionari esiti del Teatro d’Arte riuscivano a infiammarla e fu così che decise di aprire un suo proprio teatro in via Oficèrskaja a Pietroburgo. Il Teatro Drammatico durò solo due stagioni e nella sua breve storia riuscì, con alterne fortune e querelle mai sopite, a far emergere tutte le contraddizioni di un’epoca in cui visioni contrapposte dell’arte scenica si confrontavano senza esclusione di colpi.

Vera Kommissaržèvskaja era vicina ai poeti simbolisti ospitati regolarmente nel suo salotto il sabato: Blok, Kuzmín, Sologub, tra i poeti, ma anche pittori e scenografi del gruppo Mir Iskusstva come Bakst e Sapunòv. In un primo tempo però cercò, per il suo nuovo progetto, di conquistare alla causa Čechov, il quale resistette. Fu questo rifiuto a spingerla definitivamente verso l’obiettivo di dar vita alla scena simbolista. Per raggiungere il suo scopo ella non vide altro regista capace dell’impresa se non Mejerchol’d. In comunenutrivano i dubbi verso il sistema di Stanislavskij.

Mejerchol’d giungeva a Pietroburgo proprio dopo aver abbandonato il Teatro Studio ed era già attirato nell’orbita simbolista. Vera per battere tutti sul tempo lo volle incontrare a Mosca nel 1906 ed entrambi si infervorarono per il nuovo progetto di stagione da cominciarsi nell’autunno. Questo fervore non durò a lungo perché tra i due doveva conflagrare il conflitto tra il talento di una grande attrice e i dettami della nuova regia. Inoltre Mejerchol’d avrebbe iniziato il suo periodo immobilista e gelido non propriamente adatto alle corde di Vera.

Suor Beatrice, Hedda Gabler, Pelleas e Melisande, sono tutte opere in cui la critica e il pubblico non videro altro che lo strapotere di un regista che soffocava il talento di un’attrice immensa caduta in sua balia. In verità i documenti e le lettere ci disegnano un quadro molto diverso in cui Vera appare tutt’altro che un fragile colomba nelle grinfie di un rapace.

Vera Komissaržèvskaja si mostra come una impresaria capace, decisionista, con un talento innato nel comprendere le regole non scritte del teatro (decidere per esempio se un debutto facesse più scalpore a Mosca o a Pietroburgo). Soprattutto era lei ad assegnare le parti, e decisamente appare per niente supina alle decisioni di Mejerchol’d. Suggerisce, indica, propone, attenta ai minimi particolari. Il dissidio con il regista era piuttosto estetico e metodologico. Vera non poteva né voleva andare laddove Vsevlod Emil’evič si stava dirigendo: il teatro convenzionale.

Una prova di questo fu proprio Balagànčik (il baraccone) di Blok, la prima opera del regista a utilizzare le maschere della Commedia dell’Arte e la pantomima, evocando un teatro di burattini. Non fu un caso se Vera non recitò, e nemmeno fu un caso che la Verigina, giovane attrice anche lei insoddisfatta dal Teatro d’Arte, descriva lo spettacolo e il lavoro del regista con voce piena di entusiasmo. Due grandi flutti della storia convergevano e lo scontro era inevitabile. Lo spettacolo infatti fu causa di una grande alzata di scudi tra i simbolisti, sia Belyj che Blok lo criticarono. Il pubblico si divise. La rottura era inevitabile.

:«Negli ultimi giorni, Vsevlod Emil’evič, e io ho pensato molto e sono giunta a una profonda convinzione, che noi due vediamo il teatro in modo diverso, quel che Voi cercate, non è quel che io cerco. La strada che porta ai fantocci, questa è la strada che Voi avete percorso in tutto questo tempo […] ciò mi si è rivelato in pieno in questi ultimi giorni, dopo lunghe meditazioni. Io guardo il futuro negli occhi e affermo, che per questa strada noi non possiamo procedere insieme». Con queste parole Mejerchol’d fu licenziato. Chiese pubblicamente sul giornale Rus’ un arbitrato che gli fu concesso. Stanislavskij stesso era nella commissione la quale deliberò a favore della Komissaržèvskaja.

Vera però aveva visto giusto. Il teatro a cui lei aspirava non era più in vista. Le sperimentazioni del Teatro d’Arte, di Mejerchol’d e di tutto ciò che sarebbe venuto dopo il 1917 non erano più un luogo in cui un’artista come lei avrebbe trovato spazio. Stava giungendo il tempo del baraccone non del tempio dell’arte.

Vera lo capì e nel 1909 decise di lasciare le scene: «Mi ritiro, perché il teatro in quella forma cui esiste oggi – ha smesso di sembrarmi necessario, e la strada, che intrapresi alla ricerca di nuove forme, ha cessato di parermi vera». Decise un’ultima tournée che la portò nelle più remote province dell’impero fino a Samarcanda e Taskent. In queste città della Via della Seta la compagnia contrasse il vaiolo. Vera soccorse i suoi colleghi e recitò finché anche lei fu colpita dal morbo che la ricoperse di croste e pustole suppuranti. Perì il 10 febbraio 1910, nello stesso anno in cui morì Tolstoj. Si stava spegnendo il vecchio mondo e il nuovo stava per nascere con un ruggito di cannone.

I funerali durarono giorni. A ogni stazione folle commosse lanciavano fiori e versavano lacrime. Decine di migliaia parteciparono alle esequie rendendo omaggio a una donna che volle a tutti i costi cercare un teatro necessario, un teatro riformato dalle abitudini desuete dell’accademismo dei teatri imperiali. Purtroppo in questa lotta perì molto prima di contrarre la malattia. Il nuovo che cercava era già diventato vecchio, e il nuovissimo non era più per lei. Il suo talento immenso fu stritolato da due terribili zolle tettoniche e non ebbe scampo.

Mejerchol’d lo capì e scrisse: «In effetti ella morì, non di vaiolo, ma del male di cui morì Gogol’ – l’angoscia. L’organismo stremato dallo squilibrio tra la forza della vocazione e i reali compiti artistici, assorbì il contagio. Anche Gogol’ aveva una malattia con un lungo nome latino, ma che c’entra?».

Tutto questo non toglie meriti alla lotta di Vera Komissaržèvskaja, una donna di grande talento che seppe dar voce alle contraddizioni della propria epoca, un tempo storico tremendo per molte nazioni: il finis Austriae, il liberty, la belle epoque, un mondo sul baratro di un capovolgimento che avrebbe cambiato tutte le regole del gioco, in Russia più che altrove. Vera Kommissaržèvskaja ebbe il coraggio di combattere per i suoi ideali artistici e per questo, nonostante fosse una diva, intraprese le strade più difficili. Ne uscì sconfitta? Ognuno può rispondere secondo sentimento. Personalmente credo che non si possa parlare di fallimento. Fu un tentativo meritevole e le due brevi stagioni del suo teatro diedero luogo non solo a esperimenti simbolisti interessantissimi e preziosi, ma misero a nudo le grandi questioni che stavano nascendo: quale il rapporto tra la regia e gli attori? Quali quelli tra testo scritto e scena? Quale il ruolo del teatro nel proprio tempo? Cosa doveva nascere dopo il naufragio dei teatri accademici?

Se Stanislavskij aveva la sua ricetta e se Mejerchol’d stava trovando la sua, Vera Komissaržèvskaja cercò infaticabilmente le risposte senza riuscire a trovarle. Ella incarnò le contraddizioni della sua epoca, e fu suo grande merito cercare di sanare due mondi inconciliabili. Come Nina restò tra Trigorin e Treplev e per tutta la vita si immedesimò con quel gabbiano morto a cui cercò, instancabile di ridonare la vita.

Vachtangov Mejerchol'd

Mejerchol’d e Vachtangov: esperimenti drammaturgici tra tradimento e ammirazione

|ENRICO PASTORE

Il fallimento de Il Gabbiano di Čechov al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo il 17 ottobre 1896 può essere assunto come punto di partenza di una riflessione sul rapporto tra scena e drammaturgia nel corso della grande stagione teatrale che stava incominciando in quegli anni in Russia.

Dopo il clamoroso insuccesso, neanche a dirlo, Čechov dichiarò senza mezzi termini che non avrebbe mai più scritto né rappresentato suoi lavori. Per fortuna non tenne fede a quelle parole. Ma come era potuto accadere questo fiasco solenne?

La situazione nei teatri imperiali dell’epoca era nel migliore dei casi ingessata in vuote ritualità dove a farla da padrone erano gli attori mattatori. Il debutto de Il gabbiano naufragò proprio per i vizi insiti nel sistema produttivo dei teatri ufficiali: poche prove, grande spazio d’azione agli attori di grido, parti acquisite d’ufficio secondo l’importanza dell’interprete e non assegnate a seconda della coincidente sensibilità tra attore e personaggio. Poi c’era il fattore pubblico abituato a seguire i propri beniamini aspettandosi da loro rese drammatiche consuete e il testo di Čechov, con le sue tinte tenui, poco si adattava alle smargiassate comiche o alle ampollosità tragiche.

Non fu un caso dunque che l’unica attrice a brillare fu l’astro nascente Vera Kommissaržèvskaja nella parte di Nina. Vera mal soffriva il clima stantio dell’accademismo e il suo animo delicato, i suoi grandi occhi grigio-blu, era adatti per il personaggio immaginato da Čechov.

Quando Stanislavskij volle mettere in scena Il gabbiano e riuscì a superare le resistenze del drammaturgo, tutto cambiò. Ed erano passati a malapena due anni. Lunghe sessioni di prova, studio attendo dei personaggio (e non si pensi che il famoso “metodo” fosse già un corpus integro e formalizzato. Non lo fu nemmeno negli ultimi giorni di vita di Kostantin Sergèevic), attenzione ossessiva per gli arredi, i suoni, le suppellettili, le atmosfere. Soprattutto i silenzi, le famose pause espressive che fecero la storia e la fortuna del Teatro d’Arte. Da tutto questo scaturì un grande successo. A metterci del suo anche il pubblico moscovita che frequentava quel nuovo spazio teatrale seguendo con interesse quelle prime sperimentazioni sulla linea del nascente naturalismo e le illusioni della quarta parete.

L’inizio della nouvelle vague del teatro russo si misura tra questi due momenti opposti. A partire da questo istante e dalle regie cechoviane di Stanislavskij le cose iniziarono a muoversi in fretta. Dal sasso lanciato dal Teatro d’Arte si scatenò una frana destinata a riformare la scena russa ed europea negli anni a venire.

Facciamo scorrere la pellicola del tempo un poco più avanti e misuriamo un altro momento cruciale. E si parla di un altro fallimento dovuto ad altri fattori. Ma non anticipiamo i tempi. Siamo nuovamente a San Pietroburgo dove Vera Kommissaržèvskaja, scontenta dei metodi dei teatri imperiali e alla ricerca di nuove modalità più soddisfacenti per il suo talento d’attrice, decise di inaugurare un suo spazio nel 1904, il Teatro Drammatico, che visse solo due stagioni. Come regista chiamò Mejerchol’d, allievo eretico dei metodi del teatro d’arte. Vera Kommissaržèvskaja e il giovane regista, oltre al disgusto per le prassi consuete, nutrivano le loro perplessità sui metodi di Stanislavskij benché ne ammirassero i risultati. Da qui nacque la loro sintonia presto minata però dalle passioni di Mejerchol’d a quel tempo infervorato per gli esperimenti simbolisti.

In questa nuova temperie l’attore era schiacciato e sovrastato dai fondali dipinti, la recitazione aveva toni monodici, l’azione era spesso bloccata in fermo immagine per far risaltare il bassorilievo e il dipinto, e ovviamente il ruolo del regista cominciava a diventare preponderante rispetto all’interprete, ora irregimentato in una squadra e non più solitario fuoriclasse libero di spaziare dove il talento lo spingeva. Tutto questo infastidì pubblico e critica. Mejerchol’d fu bersagliato da un fuoco di fila. Lo si accusava di imbrigliare un talento immenso, e Vera Kommissaržèvskaja fu commiserata per essere caduta nelle mani di un dispotico carnefice.

Cominciò quindi la querelle mai sopita tra l’azione demiurgica del regista e la libertà creativa dell’attore. Inoltre l’orizzonte drammaturgico era cambiato: Čechov in Russia era già un classico e si guardava ai simbolisti: a Blok, Maetterlink, Crommelynch. E poi alla drammaturgia europea e nazionale volta allo scandaglio interiore: Ibsen, Claudel, Hauptmann, Wilde, Andreev. In pochi anni tutto cambiò e la storia scenica russa aveva in serbo altri rivolgimenti ancora più estremi.

Nel mezzo ci fu un altro clamoroso esperimento i cui risultati non furono pari alle attese. Anche Stanislavskij sentiva che l’aria stava cambiando e decise di invitare a Mosca Gordon Craig per dirigere l’Amleto. I progetti con gli screen e l’idea di un attore-marionetta mal si adattavano al Teatro d’Arte. In più motivi di budget e di spazio ridimensionarono l’esperimento. Sia Craig che Stanislavskij ne trassero una frustrante insoddisfazione, ma ciò che importa fu il tentativo di rinnovare la scena, di mettere in pratica nuove idee. Se una lezione può essere tratta si può riassumere così: come diceva Clausewitz i piani di battaglia funzionano fino al primo scoppio di cannone. E così due metodi si scontrarono con la realtà dei fatti: il teatro è luogo di adattamento continuo, nessuna regola resiste alla scena, Come diceva Mejerchol’d bisogna partire dal suolo. È quello l’elemento che detta le regole del gioco.

Con la Rivoluzione d’Ottobre la matassa si imbriglia ancor di più. Da una parte ci sono i classici, da riadattare secondo i nuovi dettami del socialismo, e dall’altra le nuove drammaturgie scritte pensando a un inedito teatro per nuovi pubblici per un mondo da costruire (da Majakovskij a Tret’jakov a Gor’kij, etc), e da ultimo le drammaturgie recenti, se non addirittura contemporanee, ma provenienti dall’Europa borghese e capitalista con cui confrontarsi. In questa atmosfera si delineano due elementi principali: da una parte i registi orientati a far parlare la scena con un linguaggio indipendente da quello della parola scritta, e quindi operatori di vere e proprie riscritture e riletture radicali; dall’altra l’influsso delle altre arti che andarono a modificare le concezione dello spazio e dei corpi. La pittura in primo luogo si assunse il ruolo di vera riformatrice dello spazio scenico (le impalcature nude e geometriche del costruttivismo, le geometrie suprematiste) e poi il cinema nella doppia natura di manipolante e manipolatore in questi anni in cui la settima arte ancora cercava un proprio codice di linguaggio e si confrontava con il teatro.

I confini sono labili, i dibattiti tra le arti sono accesi e le influenze agiscono dai tutti i lati. Il teatro si riempi di Charlot, di proiezioni e sottotitolature delle scene, mentre il cinema incamerava il Montaggio delle Attrazioni e nuove teorie dell’inquadratura. I ruoli di maestro e discepolo si scambiavano di continuo.

Certo è che il rapporto tra testo scritto e messa in scena in pochi anni si ribalta totalmente. Tra i tanti possibili esempi di questo processo di liberazione dalla soggiacenza dalla parola scritta ne sceglieremo tre che analizzeremo brevemente; ll Dibbuk e la Turandot di Vachtangov e Il revisore di Mejerchol’d.

Cominciamo da Vachtangov. I suoi inizi iniziarono sotto il segno di Stanislavskij e del suo discepolo più fedele Suleržickij. Questo santo pagliaccio, come veniva chiamato da Lunačarskij, era intimo di Tolstoj e anima candida dedita al vagabondaggio. Convertito al teatro da Stanislavskij egli cercò in ogni sua messa in scena di tirar fuori dai testi i buoni sentimenti, ciò che l’uomo, anche il più dissoluto, poteva aver di luminoso. In questo operava di scandaglio alla ricerca dell’anima del personaggio e incarnando quindi il”metodo” del suo maestro.

Vachtangov dopo tanta dedizione a tale prassi ebbe un moto di rivoluzione interiore e, come per reazione contraria all’azione di Suler, rivolgimento determinato dalla Rivoluzione d’Ottobre, eccolo trasformarsi in un regista antinaturalista alieno alle psicologie interiori e alla ricerca di una certa crudeltà alternata a momenti di gioiosa festa. Questo movimento pendolare è evidente nei suoi due lavori più importanti: il Dibbuk da An-ski (1922) e Turandot (1922).

Ne il Dibbuk Vachtangov partì dalla Bibbia e da lì trasformò il melodramma di An-Ski che tratta dell’amore infelice di Lea e Chanan, in un grande arazzo sociale nell’opposizione manichea tra ricchi e poveri, pregno di voglia di rivalsa dei diseredati, di bieco filisteismo degli agiati, di rabbia repressa. Dalle atmosfere dal profumo di incenso apprese da Suler, improvvisa si sente la puzza di zolfo di una crudeltà artaudiana ante litteram. Inoltre utilizzò accenti e parole ebraiche, una lingua dunque difficile da intendere per il pubblico russo, liberando il testo dal significato e realizzando quello Zaum incomprensibile caro ai Futuristi. Radlov dopo la visione dello spettacolo scrisse: «è la prova che il teatro è arte indipendente, distinta ed autonoma dalla letteratura, e che l’interprete può agire sul pubblico senza parole, con suono emotivo della sua voce e coi movimenti del corpo». In queste parole si vede quasi sovrapporsi alla figura di Vachtangov il fantasma futuro di Kantor.

Sia nella Turandot che ne il Dibbuk il regista russo ordì partiture gestuali per ogni interprete quasi a farne una coreografia più che una regia. E il testo divenne pretesto per invenzioni, danze, scene d’insieme. Lo psicologismo venne bandito in nome dell’artificio rappresentativo e se ne il Dibbuk i personaggi erano maschere infernali in Turandot si presentarono gli Arlecchini e gli Zanni (maschere di origine demonica lo ricordiamo) immersi in un Cina fiabesca, irreale.

In questo fraseggio furibondo o gioioso, l’azione non venne distaccata dal tempo presente: i riferimenti all’attualità politica, gli attacchi ai borghesi e ai leccapiedi, l’appoggio incondizionato ai deboli e agli oppressi. Inoltre non mancavano le citazioni come le imitazioni di danze alla Isadora Duncan. Quello che fu chiamato Realismo magico era un frullatore di influssi e influenze diverse di cui il testo di partenza si infarciva per diventare invenzione scenica e non interpretazione. Non ci si trovava di fronte all’ennesima messa in scena di una fiaba gozziana adattata ai tempi, ma all’invenzione di una nuova Turandot, così come il mondo di An-ski si trasformava in un luogo altro tra realtà e fantasia, tra gioco crudele e realtà aumentata.

Turandot, andata in scena in assenza di Vachtangov ormai sul letto di morte, fu visto da Stanislavskij che tra un atto e l’altro accorreva al capezzale del morente per fare i suoi più vivi complimenti. Il vecchio dunque più che al rigido Torkov, insegnate noioso e rigido tutto dedito al sistema da lui inventato, aveva le sembianze di Carmelo-Amleto quando afferma: “Metodo, metodo: che vuoi da me?”.

Interessante l’operazione di Mejerchol’d su Il revisore di Gogol (1926). Qui Mejerchol’d va oltre Vachtangov prendendo in considerazione non solo il testo originale 1835 senza le revisioni posteriori del 1842, ma l’intera opera di Gogol, da Le anime morte ai racconti. La sua regia è un montaggio cinematografico di quindici episodi di un universo gogoliano, quindici quadri la cui relazione fomentava nuovi sensi e nuovi sguardi. In ognuno di questi Mejerchol’d ricorse a tutto il vocabolario biomeccanico, dalle pantomime, alle danze, ai numeri circensi, imbastendo una tragedia buffa che criticava pesantemente la burocrazia nascente.

L’azione si sposta da un lontano governatorato di provincia a Pietroburgo e Chlèstakòv, colui che viene scambiato per il revisore, diventa una maschera anticipatrice del Wolan ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, una sorta di demone pronto a scombinare il mondo e farlo cadere mettendo le fondamenta per una ricostruzione. Il revisore diventa una tragedia buffa e si comincia ad avvertire il sentore di un incancrenirsi della gioiosa macchina rivoluzionaria.

Tra fallimenti e trionfi il teatro russo dei primi tre decenni del secolo appare come un’immensa fucina di sperimentazione. Tutto era lecito per inventare un nuovo mondo e un nuovo teatro. Ogni tradizione, ogni tradimento. Che fosse un testo appena dato alle stampe o un classico inossidabile, era sempre il teatro a trionfare. Che si cercasse il vero psicologico del personaggio o lo straniamento più assoluto, era la scena con i suoi artifici a emergere. Nessun vincolo, nessuna restrizione. Almeno per qualche tempo. Poi subentrò la politica, l’ortodossia e spazzò via tutta una generazione di grandi poeti.

Oggi dobbiamo guardare a quella stagione di eroici furori creativi senza esaltazione e senza archiviarla come qualcosa di passato e vecchio. Si può trarre insegnamento dal quel vagabondare da un estremo all’altro, comprendere che non c’è regola, non c’è routine, se si vuole assistere a un grande teatro. Ciò che occorre è la curiosità infaticabile di uno Stanislavskij, insegnante e allievo dei propri discepoli, ribelle alle sue stesse regole e manie, come Bach, pronto a violare le sue stesse leggi. Come diceva Picabia: «se si vuole avere idee proprie, occorre cambiarle come le camice».

Platonov

Il Mulino di Amleto: Platonov ovvero come sfuggire alla tempesta

Dal 2 al 7 aprile al Teatro Astra nella stagione della Fondazione TPE è andato in scena Platonov de Il Mulino di Amleto per la regia di Marco Lorenzi.

Platonov è l’opera prima del giovane Cechov, nascosta dalla sorella del drammaturgo nel 1917 in una cassetta di sicurezza durante i disordini delle Rivoluzione d’ottobre e riscoperta qualche anno più tardi nel 1921. Cechov scrisse il testo a ventun anni e come tutti i giovani che si accingono a scalare l’ardua parete della loro prima opera, peccò in eccesso, volendo mettere tutto quello che si agitava nell’animo suo nel tentativo di creare un affresco che dipingesse la vita nella sua interezza. Vi è materia più per un romanzo che dispieghi la sua trama per un numero infinito di pagine più che per un dramma o tragedia teatrale che si consuma per poco tempo su un palcoscenico.

Molti i personaggi più vicini, nelle loro piccole misere abiezioni mischiate a grandi aspirazioni, a Dostoevskij che al Cechov che conosciamo. Quest’influenza non nasconde i temi classici cechoviani (l’incapacità di raggiungere la felicità, la tortura dello stare insieme giusto, etc.), ed è solo la traccia della ricerca di uno stile da parte di un giovane che ancora non si è liberato dell’autorità dei suoi modelli di riferimento.

Platonovè come detto afflitto dalla necessità spasmodica di dire tutto, senza nulla tralasciare, una foga che hanno tutti i personaggi, malati di un eccesso di vitalità, paralizzati proprio dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza. Fulcro della vicenda è infatti l’eccesso d’amore che si avviluppa intorno alla figura del protagonista, il maestro elementare Michail Vasil’evic Platonov (impersonato da Michele Sinisi). Incapace di realizzare le proprie ambizioni, proprio perché esorbitanti, e richiuso in una sorta di cinismo punitivo, Michail attrae l’amore di tre donne: la moglie Aleksandra Ivanovna (Rebecca Rossetti), la giovane Sof’ja Egorovna (Barbara Mazzi) e la tenutaria in disgrazia Anna Petrovna (Roberta Calia). Platonov benché le attragga è incapace di concretizzare le sue accese passioni. Le sue promesse cadono sempre nel vuoto, inabili a superare l’entusiasmo del qui ed ora. Alla prima sospensione della tensione subito si affaccia la possibilità che la vita sia altrove. La felicità è sempre rimandata, sognata in un altro momento, mai nel presente.

L’eccesso di vitalità è inoltre manifesto nella festa banchetto nella tenuta. La vodka è il motore di un’ostentata ebbrezza e i brindisi non sono che la maschera delle molte infelicità che attraversano la compagnia. L’ubriachezza è anche la miccia che innesca gli scarichi violenti di tensione tra i personaggi che, trovandosi da soli nell’intimità di una relazione, non possono altro che scagliarsi gli uni contro gli altri proprio perché attratti da eccessiva forza gravitazionale.

Marco Lorenzi e il Mulino d’Amleto affrontano questo “mostro” drammaturgico operando alcune scelte registiche di grande interesse ed efficacia. Prima fra tutti l’inclusione del pubblico nel contesto scenico, inserzione e coinvolgimento che avviene ricambiando lo sguardo dell’osservatore come fosse il testimone oculare di quanto avviene, presenza vera e non nascosta nel buio della sala e separata da un’invalicabile quarta parete. Il pubblico viene interpellato, coinvolto nella festa e fin dall’entrata in sala quando viene offerto un bicchierino di vodka quasi partecipassimo anche noi alla festa di Anna Petrovna.

In secondo luogo il costante mutare del punto di vista che bascula tra interni ed esterni tramite una parete mobile trasparente. Scene e controscene si intrecciano così dando allo spettatore la possibilità di seguire, tra primo e secondo piano, la scena principale contrappuntata da ciò che avviene contemporaneamente e altrove come ne Le tre sorelle di Simon Stone dove questo effetto era dato dai vari ambienti della casa girevole. Gli effetti di quanto deve avvenire o di quanto avvenuto sono compresenti alla scena principale, i personaggi sono dunque sempre in scena, vivono le loro emozioni e le conseguenze delle loro azioni costantemente, senza sfuggirne mai. Inoltre sullo sfondo la proiezione in presa diretta di quanto avviene tramite cellulare, come in una qualsiasi festa di oggi. L’immagine video ci cala in una dimensione di realtà, di presenza immediata ma fornisce anche un ulteriore punto di vista in movimento.

Questo alternarsi di interno/esterno, di scene di insieme da cui emergono i singoli dialoghi crea un movimento come se da nubi tempestose fulmini abbaglianti si scaricassero a terra. I personaggi emergono dal coro della festa, per un attimo sono in proscenio a rivelare le loro intime contraddizioni, e infine vengono nuovamente riassorbiti dal caos. In questa corrente alternata si vedono anche le differenti maschere che i personaggi indossano durante la vicenda: quella intima e quella pubblica, quella dedicata alle singole persone e frutto di libere scelte contrarie agli equilibri esistenti in seno alla piccola congregazione, e quella dedicata alla piccola comunità avvinta in relazioni obbligate e inestricabili. L’esempio più evidente di questa tensione sempre presente tra ciò che si vorrebbe e ciò che si deve, è il triangolo Anna Petrovna, tenutaria in disgrazia, Porfirij Semenovic (Stefano Braschi), anziano possidente che vuole salvare dalla rovina Anna Petrovna ma in cambio le chiede di sposarlo, e Platonov amato dalla donna e a sua volta di lei innamorato. Il bisogno di Anna, le voglie di Porfirij e l’incapacità di prendere una decisione di Platonov continuano a provocare eccessi e scontri che non riescono in nessun modo a risolversi e che trascinano nel gorgo anche gli altri protagonisti: le tre donne, Kirill (Angelo Maria Tronca), il figlio di Porfirij medico degenerato, e Osip (Yuri D’Agostino), il ladro assassino che si aggira ai margini di questa piccola società.

Terzo elemento è una sorta di straniamento fatto di immersione e distacco, non critico come in Brecht, piuttosto più ironicamente giocoso, quasi a non prendersi veramente sul serio svelando il gioco delle parti al pubblico. Tale straniamento, spesso metateatrale come per esempio il tecnico luci che è personaggio in scena, è la valvola di sfogo che permette alla tensione di allentarsi. Il testo cechoviano ne sembra incapace, accumula attriti e dissidi che montano fino all’ovvia inevitabile tragedia finale.

In scena infatti si manifesta una pistola e come diceva lo stesso Cechov quanto un’arma appare non può far altro che sparare. Mulino di Amleto ha deciso invece di infrangere questa regola. Marco Lorenzi ha voluto liberare Platonov dell’obbligo di finire in tragedia prefigurando la possibilità che la tempesta tanto annunciata alla fine, in qualche modo, si sia potuta dissipare. È possibile sfuggire a questa cronaca di una morte annunciata? Si può sfuggire all’abbraccio stritolante di Ananke, la Necessità, rompere il destino tragico? Mulino di Amleto sembra asserire che il destino non sia scritto, che stia a noi cambiarlo, e per uscire dal circolo vizioso bastai semplicemente fare un piccolo passo.

Per concludere una piccola considerazione: questo Platonov se fosse stato sostenuto da una produzione più coraggiosa e consistente farebbe parlare di sé non solo in Italia ma anche in Europa. A volta la distanza tra i nostri autori e quelli di altri paesi, più accorti sotto questo punto di vista, consiste esclusivamente nel sostegno produttivo. E non sto parlando solo di soldi ma di figure professionali che agevolino l’immissione sul mercato e i contatti con gli operatori internazionali. Non crediamo abbastanza nei nostri autori e non li mettiamo veramente in condizioni di competere con i loro coetanei esteri. Concludo quindi con una domanda provocatoria: se a Mulino di Amleto fosse stata concessa una produzione pari a quella di Simon Stone ci sarebbe stata una così grande differenza di risultato? Se la risposta a questa domanda è negativa allora non sarebbe il caso di cominciare ad avere coraggio e puntare veramente sui nostri giovani?

Alessandro Serra

INTERVISTA AD ALESSANDRO SERRA

Dopo aver visto Macbettu al Festival delle Colline Torinesi ho incontrato Alessandro Serra in una lunga conversazione da cui è tratta questa intervista. Abbiamo parlato di molti aspetti di quest’opera che, al di là dei premi, convince e incontra il pubblico senza facili ammiccamenti e soprattutto salvaguardando un ricerca di linguaggio.

Enrico Pastore: Come è nata l’idea di portare la Scozia in Sardegna?

Alessandro Serra: Macbeth è un’opera che ho sempre amato per la sua forza filosofica. Trovo che Macbeth ci dica molto dell’epoca che stiamo vivendo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il soprannaturale e la nostra incapacità di una via spirituale.

Penso a una frase di Simone Weil, che cito a memoria: “quando un essere non è in grado di ricevere il soprannaturale lo trasforma in male”. Le streghe che predicono a Macbeth un futuro di gloria, sono foriere di prosperità, ma Macbeth non sa gestire questo evento sovrumano, non è spiritualmente pronto, non sa aspettare e di conseguenza uccide. Non c’è alcun motivo per cui debba compiere questo atto orrendo e inutile e Macbeth ne è perfettamente consapevole. Il secondo aspetto è l’incapacità di vivere il presente, di essere presenti e vigili. Noi viviamo sempre costantemente proiettati nel futuro spinti dal desiderio. Consumiamo il presente in cerca di un futuro che non vivremo mai davvero. L’ultimo aspetto, e vengo alla Sardegna, è il rapporto di questo testo con gli archetipi e le forze primordiali della natura che ho in qualche modo intravisto, più di dieci anni fa, in un viaggio fotografico che feci in Barbagia, partendo da Lula, il paese di mio padre, per vedere i carnevali. Il più impressionante di tutti fu quello di Mamoiada, dove sfilano i Mamuthones. In quell’occasione, come ho scritto più volte, ho avuto la visione della foresta che avanza con i campanacci che sentivo da lontano, l’incedere di un ritmo antico che incuteva terrore. Sono mille gli stimoli che ho carpito in quel viaggio, i suoni, i materiali, le sensazioni, il sangue. Nel paese di mio padre per esempio hanno ricostruito una maschera, Su Battileddu, è la personificazione dello scemo del villaggio che gira per il paese con questo stomaco di bue pieno di sangue. Quando viene abbattuto di fronte al pubblico, che fa cerchio intorno a lui, lo stomaco viene letteralmente strappato. Quindi gli schizzi di sangue, il sughero che scurisce i volti, una scena molto violenta, che a può sembrare lontana dallo spirito del carnevale ma che invece gli appartiene profondamente. I demoni attraversano quindi il paese ma vengono anche tenuti a bada. A Mamoiada ci sono anche le maschere degli Issohadores, figure molto eleganti, vestite di rosso, che danno il ritmo e tengono a bada i Mamuthones e che prendono al lazzo le fanciulle. Nel Macbettu poi ci sono le streghe, maschere comiche e grottesche. Hanno le barbe. Anche per le streghe abbiamo attinto ai carnevali sardi, in particolare al carnevale di Bosa. Sono le Attittadoras, uomini vestiti da vecchie che implorano unu tikkirigheddu de latte tra urla e sorrisi sardonici accompagnati da sconce allusioni sessuali. Ma potrei parlarti anche de Sa Filonzana, una vecchia orrenda che fila e minaccia con le forbici di tagliare il filo del tuo destino. I riferimenti quindi sono tantissimi e hanno costituito il materiale con cui abbiamo costruito il Macbettu.

Enrico Pastore: Se vogliamo poi notare una curiosa coincidenza il giardiniere de I Simpson in originale è scozzese e nel doppiaggio italiano parla in sardo.

Alessandro Serra: Sono stato tentato una volta in un’intervista di dirlo, poi mi sono frenato per timore di essere frainteso. Ma in questa arte antica non si può prescindere dal pubblico, dalle conoscenze collettive che spesso sono cliché o mode ma che a volte sfiorano il mito e fondano la realtà. I Simpson hanno più volte dimostrato di possedere una grande forza comunicativa a tratti divinatoria. Ci sono puntate memorabili, non ultima quella di 15 anni fa in cui Lisa succede a Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il teatro è anche un’arte popolare e la risata può essere spesso una privilegiata chiave d’accesso al rito. A proposito di Pinocchio Elémire Zolla sosteneva che “In vernacolo, ridendo, conviene esporre le verità più segrete”.

Enrico Pastore: Mi ha molto colpito la tensione tua e degli attori nell’evitare ogni affettazione nella recitazione. La ricerca di una spontaneità che sottragga la parola all’artificio, affinché sia viva, più assimilabile al canto che allo scritto. Come avete proceduto per rivitalizzare la lingua scritta, il morto orale come lo chiamava Carmelo Bene?

Alessandro Serra: Questa per me è una domanda cruciale. Soprattutto in questi giorni in cui sono reduce dalla prima settimana di prove su Il giardino dei ciliegi. In Cechov il problema è ancora più presente, direi quasi più grave perché la lingua sembra parlata ma il risultato è spesso enfatico e, per quanto mi riguarda, sgradevole e noioso.

Shakespeare ha un problema analogo che contrariamente a Cechov però può essere risolto con il canto. Con Cechov bisognerebbe semplicemente dire, nel senso più profondo del termine. L’attore deve manifestare nella parola il senso di ciò che dice, così come si fa nella vita. Fare questo in teatro richiede una grande tecnica e un grande sforzo fisico. Questo perché per dire una frase e dirla davvero, portando con sé il senso, l’emotività e la logica delle conseguenze, e nello stesso tempo farla arrivare a quaranta metri di distanza è un’impresa quasi impossibile. E lì si cade.

In Shakespeare la musica ti può aiutare, perché non essendo un teatro naturalistico, in qualche modo si può attingere al canto.

Esistono tre livelli di comunicazione: il primo è quello del significato. Il secondo è quello musicale, attraverso il suono io posso raccontare e incantare. Questo è credo ciò che siamo riusciti a fare usando il sardo. In Macbettu credo che ci sia anche il terzo livello, quello magico, in cui la parola diviene mantra, non significa più, semplicemente è, agisce come una forza e non come un significato. Questo sarebbe stato impossibile usando l’italiano, soprattutto quello delle traduzioni letterarie.

I testi di Shakespeare devono essere trattati come dei copioni. Non bisogna aver paura di smembrarli, dilaniarli, perché sono talmente grandi che restano sempre integri. Anche perché c’è una drammaturgia perfetta e sublime che è talmente oltre il luogo comune che non ce la fai a distruggerli. Tutto ciò a patto che la scrittura di scena sia alleata del testo, ne al servizio né contro. Il testo è materia.

Per quello che ci riguarda abbiamo distrutto Macbeth ma con un grande amore, fedeltà e rispetto. Grazie a questo amore e rispetto per l’opera ho cercato non di raccontare o recitare ma di evocare una immagine che sta oltre e dietro il testo.

Questo si può fare in Shakespeare grazie alla lingua. Grazie al fatto che lui, essendo un attore, è sempre riuscito all’interno delle sue opere, a fornirti le chiavi d’accesso. E gli strumenti della scrittura di scena sono proprio nelle parole, in quelle particolari formule magiche che Peter Brook chiama Parole radianti.

Tornando al sardo, quando ho riascoltato quella lingua con la quale avevo un conto in sospeso, una lingua che da bambino mi faceva molta paura perché mi ricordava una certa brutalità barbaricina. Quando l’ho riascoltata dopo tanto tempo ho pensato che fosse la lingua giusta per Macbeth. In sardo non esiste la parola Ti amo, una lingua in cui, come dice Angelo Pira, la parola è la cosa. In questo è unica.

In Macbeth non potevo usare l’italiano, che è una lingua letteraria, costruita a tavolino. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori perché bisogna sempre porsi il problema di trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili, perché altrimenti ci si limita a ri-ferire un testo, il che il più delle volte, diventa di una noia mortale.

Enrico Pastore: La recitazione di Macbettu è molto fisica, il corpo dell’attore è potente, presente e altamente significante. Mi piacerebbe sapere come è stato il lavoro in prova con l’attore, come avete costruito la partitura gestuale?

Alessandro Serra: In Macbettu c’è stato un lungo periodo di preparazione perché nessuno degli attori aveva mai lavorato con me, anche se fortunatamente avevano avuto precedenti esperienze di teatro fisico e lavoro con il corpo.

Il primo step è stato quello di suggerirgli un modo di ripensarsi in scena attraverso il corpo e questo non poteva che avvenire attraverso il training. Non riesco ad immaginare una messa in scena che non parta dal corpo dell’attore. Occorre arrivare al testo con il corpo presente e vigile, attivo, pronto ad accogliere e a trasformare la poesia scritta in immagini, danza e canto. Rispetto a questo aspetto i miei punti cardinali sono Grotowski, Mejerchol’d, Decroux. Grandi maestri di cui oggi, ahimè, non si sente più parlare. Rilke parlava di un’umanità come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita.

Mi pare impossibile praticare un’arte millenaria prescindendo da ciò che è stato. Ciò che resta sono i testi, la letteratura. Ma l’essenziale non si può trascrivere, si può solo trasmettere. Oppure cercare di ripensarlo, scoprirlo di nuovo. Il teatro è un’incessante ricerca di qualcosa di dimenticato.

Il training è per me l’unica via possibile per accedere all’impossibile. Con Macbettu si iniziava la mattina con il training, il mio, ma anche e soprattutto quello guidato da Chiara Michelini, finché abbiamo trovato una pratica nuova, semplice ma funzionale a questa specifica messa in scena. Ogni nuova creazione impone un nuovo training. Nel corso delle prime settimane abbiamo affrontato anche alcuni principi delle arti marziali cinesi. La fortuna con la produzione di Sardegna Teatro è stato avere dei periodi di prova lunghi e distribuiti nel tempo. Non si provava mai per più di una settimana di seguito, ma per 10 ore al giorno, producendo una quantità di materiali, azioni, immagini, suoni, sensi talmente densi che al settimo giorno si era completamente spossati. A questo punto occorre allontanarsi e lasciare decantare ciò che si è manifestato davanti ai miei occhi ma soprattutto nei corpi degli attori.

Le prime settimane sono state senza testo che, benché fosse già stato riscritto da me e studiato dagli attori, è stato messo da parte. Si lavorava soltanto sull’immagine. Il compito era: raccontare senza recitare. Questo ci ha consentito di togliere verbosità. Se una scena la vivi, non c’è molto altro da dire. La parola diventa quasi superflua.

Decroux diceva: “io non sono contro le parole, ma devono essere necessarie” oppure devono essere un suono. Se non sono necessarie e non sono suono, sono inutili. Ed essendo inutili diventano anche dannose.

Enrico Pastore: In questo periodo nel teatro italiano sta ritornando prepotente la tendenza a fare del testo il centro della rappresentazione verso cui si piegano tutti gli elementi della scena. Nel caso di Macbettu invece sembra avvenire proprio il contrario dove il teatro flette il testo alle sue esigenze e così facendo lo esalta e gli ridà nuova vita. È nata da questa esigenza la volontà di far tradurre il testo a un attore? Per trovare una forma del dire che fosse agli attori congeniale e più veritiera possibile? In parte hai già risposto affermativamente ma magari vuoi precisare

Alessandro Serra: Ho studiato sempre e solo con gli attori, non solo con quelli che sono stati i miei maestri, ma soprattutto con coloro che hanno avuto la forza di seguirmi nelle mie scritture di scena. Spesso mi capita di passare moltissimo tempo per ricomporre una frase perché suoni e significhi col minor sforzo possibile ma quando poi l’attore finalmente la dice, mi accorgo che ci sono ancora blocchi… e insomma… bisogna scrivere, tradurre e comporre da attori, inscrivendo nei corpi ogni fase della creazione. Il fatto che oggi non si scriva più con la penna è una grave mutilazione al gesto creativo della scrittura. Simone Weil diceva ai suoi allievi che il greco si impara con il corpo… ripetere il gesto grafico della lettera alfa è una danza. Nell’atto stesso dello scrivere in fondo, si danza.

Quando lavoro sui testi, il lavoro di riscrittura lo faccio a casa, parola per parola… ma ad alta voce, spesso i piedi, sussurrando e gridando… Vedo dunque il teatro con occhi d’attore, e questo benché io non sia tale anche se ho studiato per esserlo.

Scrivo ad alta voce e cerco di dire le parole. Ma non solo. Quando lavoriamo sul testo se una frase o una parola non funziona, non risuona, si cambia. La parola deve essere organica al corpo dell’attore.

Enrico Pastore: Esatto. O la parola diventa qualcosa di vivo e organico alla scena oppure se resta un elemento puramente letterario si riduce a un elemento esterno noioso e sterile. Per usare le parole del mio maestro Antonio Attisani, diventa il teatro per chi non legge.

Alessandro Serra: oppure, peggio ancora, diventa un teatro per chi vuole sentirsi dire delle cose e si compiace nel sentirle. Non si racconta ma si informa su qualcosa che già si conosce tra l’altro. Anche Milo Rau informa, ma nello stesso tempo racconta. Ho visto per esempio Five easy pieces e in questo lui è straordinario.

Enrico Pastore: Milo Rau è molto ancorato all’idea di un teatro, come quello greco antico, luogo dove la comunità affronta e dibatte le crisi che la attraversano. E in questo senso sonda la scena nei suoi limite, prova a capire cosa si possa fare o meno con la scena per poter essere efficace e significativo nel trattare il reale. Ti mette sempre nella condizione scomoda di essere giudice e imputato. Pensa proprio a Five easy pieces dove nel terzo capitolo in cui ti senti di essere Dutroux.

Alessandro Serra: Quello che dici di Milo Rau è giustissimo. Io non ho quella profondità politica, antropologica. Non riuscirei a toccare un fatto del tempo presente senza cadere. Nel mio piccolo sondo gli archetipi e questo anche nel teatro di prosa. Con archetipi intendo anche quei meccanismi della natura umana che sono sempre presenti nelle fiabe e in tutte le opere di Shakespeare. Pensa a Otello: si parla di femminicidio e di gelosia. Ma il vero geloso è Jago, non Otello. Otello non uccide per gelosia ma perché ama a tal punto Desdemona da non poter concepire che lei possa vivere nel peccato. È un pensiero contraddittorio, doloroso, fastidioso, eppure è così. Inoltre si tratta di un islamico convertito al cristianesimo. Se si parlasse di gelosia sarebbe una telenovela e non un capolavoro dell’umanità. In Shakespeare i meccanismi dell’essere umano sono puri e distillati in forma di simbolo, e in quanto tali non si può che contemplarli, non si possono volgere in prosa. In Shakespeare non è ammessa parafrasi. Sono contraddittori, e inafferrabili. Il lavoro di Milo Rau è stupendo perché guarda al tempo presente. In quella scena che hai appena ricordato sei lì che guardi e i tuoi occhi si contaminano, prendi coscienza di quanto sono contaminati, perché in fondo se fai finta di niente sei complice di quanto avviene nel mondo. Nei grandi testi della tradizione o nelle fiabe sono presenti gli stessi meccanismi che sono poi quelli che mi interessano.

Enrico Pastore: Pensi che ci possa essere un’evoluzione alla ricerca che avete compiuto con Macbettu, oppure è un esito in qualche modo irripetibile? Mi spiego meglio che non vorrei la domanda sia interpretata come provocatoria o maliziosa. In Macbettu siete riusciti a risvegliare le forze antiche del teatro, quelle che animavano l’antica tragedia, e ci siete riusciti abbinandola a un elemento etnografico di grande potenza come la tradizione popolare sarda ancora molto legata a qualcosa di ancestrale. Pensi che questa ricerca che avete avviato possa in qualche modo continuare senza produrre un clone o un doppione?

Alessandro Serra: Ti rispondo molto semplicemente. Per me quel luogo è come tornare alle mie origini. È casa. Ma dopo Macbettu ho necessità di allontanarmi per un po’. È per me molto faticoso emotivamente, quindi per il momento ho bisogno di andare da un’altra parte. Ci tornerò. Mi piacerebbe completare una trilogia di Shakespeare sul potere e anche affrontare la tragedia greca alla quale mi sto avvicinando da anni a partire dallo studio del coro e della maschera. E non è un caso forse che dopo il coro greco abbia sentito il bisogno di tornare a Cechov, che resta l’autore che più amo, proprio perché credo che Il giardino dei ciliegi sia la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta. Un’opera priva di centro in cui i gesti e le parole dei personaggi che agiscono e parlano si nutrono degli altri. Un coro e una moltitudine, come nella vita.