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Vera Komissaržèvskaja: lo spirito del gabbiano

|ENRICO PASTORE

Čajka, gabbiano in russo, è sostantivo femminile, e nessuno seppe incarnare il suo spirito come Vera Komissaržèvskaja. Fu lei a salvare la prima de Il gabbiano all’Aleksandrinskij di Pietroburgo il 17 ottobre 1896 da un fiasco senza appello benché, per l’ostilità del pubblico, la sua voce fosse solo un sussurro. La sua Nina, delicata, colma del lirismo e delle contraddizioni insufflati da Čechov, fu l’unico personaggio ad emergere in un mare di mattatori miranti solo a far brillare il proprio ampolloso accademismo.

Vera Komissaržèvskaja fu sempre legata a Il gabbiano fino a far coincidere la sua vita con le sue atmosfere e aspirazioni. L’ultimo suo telegramma prima della morte ci racconta di un innamoramento mai cessato: «nell’universo eterno e immutabile resta soltanto uno spirito – Čajka».

Vera Komissaržèvskaja nacque a Pietroburgo il 27 ottobre 1864 in un famiglia di cantanti lirici. Da loro forse ereditò la bellissima voce, con toni morbidi, avvolgenti, tanto ammirata dai poeti simbolisti e dal suo sterminato pubblico. Stanislavskij la ricorda appartata da tutti a cantare nostalgiche canzoni tzigane alla chitarra durante le prove de I frutti dell’istruzione, dove avevano recitano insieme nel 1891.

Benché ai suoi funerali tutti la ricordarono, nelle corone che accompagnavano il feretro, come una donna fragile come un fiore, un giglio infranto o un bianco mughetto, ella fu forte, impavida, capace di fare scelte difficili e gestirle con sicurezza. Ella piuttosto personificava le contraddizioni di un’epoca come ricorda Znoska Borodin: «Incarna un tipo di donna nuova che, come Nora, afferma la sua personalità, proclama il suo io e parte alla conquista dei suoi diritti […] ma in lei si esprime anche tutta l’angoscia di un’epoca catastrofica».

La Russia infatti all’inizio del secolo Venti era dilaniata da lotte sociali che sfociarono in moti tumultuosi anticipanti quella Rivoluzione d’Ottobre ch’ella non vide mai. Il teatro rifletteva le dinamiche contraddittorie di un nuovo che lottava per nascere e di un vecchio sistema duro a morire. Il suo animo perennemente alla ricerca dell’altezza risultava eternamente insoddisfatto, incapace di trovare nella realtà la base per far emergere le sue alte aspirazioni.

Lunačarskij scrisse: «non poté mai scollarsi dalle ali del proprio talento una cenere di lutto», e Blok, parlando dei suoi splendidi occhi che tanto sapevano ammaliare chiunque la guardasse: «Vera Fedorovna Komissaržèvskaja vedeva molto più lungi di quanto potesse un occhio comune, non avrebbe potuto altrimenti, perché aveva negli occhi una scheggia di specchio magico, come il ragazzo Kaj della fiaba di Andersen. Perciò questi grandi occhi azzurri ci affascinavano tanto: il suo sguardo alludeva a qualcosa di immensamente più grande di lei stessa». Lo specchio della Regina delle Nevi però inquinava i pensieri e i cuori, creava angoscia e insoddisfazione, mali di cui Vera mai seppe liberarsi.

Nel 1902 diede l’addio all’Aleksandrinskij dove recitò per lunghi anni. Benché i maligni ricondussero quella scelta a un’insanabile malanimo con la Savina, sua acerrima nemica, in realtà Vera Komissaržèvskaja non trovava più stimolo a recitare secondo i vecchi schemi accademici. Nemmeno i rivoluzionari esiti del Teatro d’Arte riuscivano a infiammarla e fu così che decise di aprire un suo proprio teatro in via Oficèrskaja a Pietroburgo. Il Teatro Drammatico durò solo due stagioni e nella sua breve storia riuscì, con alterne fortune e querelle mai sopite, a far emergere tutte le contraddizioni di un’epoca in cui visioni contrapposte dell’arte scenica si confrontavano senza esclusione di colpi.

Vera Kommissaržèvskaja era vicina ai poeti simbolisti ospitati regolarmente nel suo salotto il sabato: Blok, Kuzmín, Sologub, tra i poeti, ma anche pittori e scenografi del gruppo Mir Iskusstva come Bakst e Sapunòv. In un primo tempo però cercò, per il suo nuovo progetto, di conquistare alla causa Čechov, il quale resistette. Fu questo rifiuto a spingerla definitivamente verso l’obiettivo di dar vita alla scena simbolista. Per raggiungere il suo scopo ella non vide altro regista capace dell’impresa se non Mejerchol’d. In comunenutrivano i dubbi verso il sistema di Stanislavskij.

Mejerchol’d giungeva a Pietroburgo proprio dopo aver abbandonato il Teatro Studio ed era già attirato nell’orbita simbolista. Vera per battere tutti sul tempo lo volle incontrare a Mosca nel 1906 ed entrambi si infervorarono per il nuovo progetto di stagione da cominciarsi nell’autunno. Questo fervore non durò a lungo perché tra i due doveva conflagrare il conflitto tra il talento di una grande attrice e i dettami della nuova regia. Inoltre Mejerchol’d avrebbe iniziato il suo periodo immobilista e gelido non propriamente adatto alle corde di Vera.

Suor Beatrice, Hedda Gabler, Pelleas e Melisande, sono tutte opere in cui la critica e il pubblico non videro altro che lo strapotere di un regista che soffocava il talento di un’attrice immensa caduta in sua balia. In verità i documenti e le lettere ci disegnano un quadro molto diverso in cui Vera appare tutt’altro che un fragile colomba nelle grinfie di un rapace.

Vera Komissaržèvskaja si mostra come una impresaria capace, decisionista, con un talento innato nel comprendere le regole non scritte del teatro (decidere per esempio se un debutto facesse più scalpore a Mosca o a Pietroburgo). Soprattutto era lei ad assegnare le parti, e decisamente appare per niente supina alle decisioni di Mejerchol’d. Suggerisce, indica, propone, attenta ai minimi particolari. Il dissidio con il regista era piuttosto estetico e metodologico. Vera non poteva né voleva andare laddove Vsevlod Emil’evič si stava dirigendo: il teatro convenzionale.

Una prova di questo fu proprio Balagànčik (il baraccone) di Blok, la prima opera del regista a utilizzare le maschere della Commedia dell’Arte e la pantomima, evocando un teatro di burattini. Non fu un caso se Vera non recitò, e nemmeno fu un caso che la Verigina, giovane attrice anche lei insoddisfatta dal Teatro d’Arte, descriva lo spettacolo e il lavoro del regista con voce piena di entusiasmo. Due grandi flutti della storia convergevano e lo scontro era inevitabile. Lo spettacolo infatti fu causa di una grande alzata di scudi tra i simbolisti, sia Belyj che Blok lo criticarono. Il pubblico si divise. La rottura era inevitabile.

:«Negli ultimi giorni, Vsevlod Emil’evič, e io ho pensato molto e sono giunta a una profonda convinzione, che noi due vediamo il teatro in modo diverso, quel che Voi cercate, non è quel che io cerco. La strada che porta ai fantocci, questa è la strada che Voi avete percorso in tutto questo tempo […] ciò mi si è rivelato in pieno in questi ultimi giorni, dopo lunghe meditazioni. Io guardo il futuro negli occhi e affermo, che per questa strada noi non possiamo procedere insieme». Con queste parole Mejerchol’d fu licenziato. Chiese pubblicamente sul giornale Rus’ un arbitrato che gli fu concesso. Stanislavskij stesso era nella commissione la quale deliberò a favore della Komissaržèvskaja.

Vera però aveva visto giusto. Il teatro a cui lei aspirava non era più in vista. Le sperimentazioni del Teatro d’Arte, di Mejerchol’d e di tutto ciò che sarebbe venuto dopo il 1917 non erano più un luogo in cui un’artista come lei avrebbe trovato spazio. Stava giungendo il tempo del baraccone non del tempio dell’arte.

Vera lo capì e nel 1909 decise di lasciare le scene: «Mi ritiro, perché il teatro in quella forma cui esiste oggi – ha smesso di sembrarmi necessario, e la strada, che intrapresi alla ricerca di nuove forme, ha cessato di parermi vera». Decise un’ultima tournée che la portò nelle più remote province dell’impero fino a Samarcanda e Taskent. In queste città della Via della Seta la compagnia contrasse il vaiolo. Vera soccorse i suoi colleghi e recitò finché anche lei fu colpita dal morbo che la ricoperse di croste e pustole suppuranti. Perì il 10 febbraio 1910, nello stesso anno in cui morì Tolstoj. Si stava spegnendo il vecchio mondo e il nuovo stava per nascere con un ruggito di cannone.

I funerali durarono giorni. A ogni stazione folle commosse lanciavano fiori e versavano lacrime. Decine di migliaia parteciparono alle esequie rendendo omaggio a una donna che volle a tutti i costi cercare un teatro necessario, un teatro riformato dalle abitudini desuete dell’accademismo dei teatri imperiali. Purtroppo in questa lotta perì molto prima di contrarre la malattia. Il nuovo che cercava era già diventato vecchio, e il nuovissimo non era più per lei. Il suo talento immenso fu stritolato da due terribili zolle tettoniche e non ebbe scampo.

Mejerchol’d lo capì e scrisse: «In effetti ella morì, non di vaiolo, ma del male di cui morì Gogol’ – l’angoscia. L’organismo stremato dallo squilibrio tra la forza della vocazione e i reali compiti artistici, assorbì il contagio. Anche Gogol’ aveva una malattia con un lungo nome latino, ma che c’entra?».

Tutto questo non toglie meriti alla lotta di Vera Komissaržèvskaja, una donna di grande talento che seppe dar voce alle contraddizioni della propria epoca, un tempo storico tremendo per molte nazioni: il finis Austriae, il liberty, la belle epoque, un mondo sul baratro di un capovolgimento che avrebbe cambiato tutte le regole del gioco, in Russia più che altrove. Vera Kommissaržèvskaja ebbe il coraggio di combattere per i suoi ideali artistici e per questo, nonostante fosse una diva, intraprese le strade più difficili. Ne uscì sconfitta? Ognuno può rispondere secondo sentimento. Personalmente credo che non si possa parlare di fallimento. Fu un tentativo meritevole e le due brevi stagioni del suo teatro diedero luogo non solo a esperimenti simbolisti interessantissimi e preziosi, ma misero a nudo le grandi questioni che stavano nascendo: quale il rapporto tra la regia e gli attori? Quali quelli tra testo scritto e scena? Quale il ruolo del teatro nel proprio tempo? Cosa doveva nascere dopo il naufragio dei teatri accademici?

Se Stanislavskij aveva la sua ricetta e se Mejerchol’d stava trovando la sua, Vera Komissaržèvskaja cercò infaticabilmente le risposte senza riuscire a trovarle. Ella incarnò le contraddizioni della sua epoca, e fu suo grande merito cercare di sanare due mondi inconciliabili. Come Nina restò tra Trigorin e Treplev e per tutta la vita si immedesimò con quel gabbiano morto a cui cercò, instancabile di ridonare la vita.

Vachtangov Mejerchol'd

Mejerchol’d e Vachtangov: esperimenti drammaturgici tra tradimento e ammirazione

|ENRICO PASTORE

Il fallimento de Il Gabbiano di Čechov al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo il 17 ottobre 1896 può essere assunto come punto di partenza di una riflessione sul rapporto tra scena e drammaturgia nel corso della grande stagione teatrale che stava incominciando in quegli anni in Russia.

Dopo il clamoroso insuccesso, neanche a dirlo, Čechov dichiarò senza mezzi termini che non avrebbe mai più scritto né rappresentato suoi lavori. Per fortuna non tenne fede a quelle parole. Ma come era potuto accadere questo fiasco solenne?

La situazione nei teatri imperiali dell’epoca era nel migliore dei casi ingessata in vuote ritualità dove a farla da padrone erano gli attori mattatori. Il debutto de Il gabbiano naufragò proprio per i vizi insiti nel sistema produttivo dei teatri ufficiali: poche prove, grande spazio d’azione agli attori di grido, parti acquisite d’ufficio secondo l’importanza dell’interprete e non assegnate a seconda della coincidente sensibilità tra attore e personaggio. Poi c’era il fattore pubblico abituato a seguire i propri beniamini aspettandosi da loro rese drammatiche consuete e il testo di Čechov, con le sue tinte tenui, poco si adattava alle smargiassate comiche o alle ampollosità tragiche.

Non fu un caso dunque che l’unica attrice a brillare fu l’astro nascente Vera Kommissaržèvskaja nella parte di Nina. Vera mal soffriva il clima stantio dell’accademismo e il suo animo delicato, i suoi grandi occhi grigio-blu, era adatti per il personaggio immaginato da Čechov.

Quando Stanislavskij volle mettere in scena Il gabbiano e riuscì a superare le resistenze del drammaturgo, tutto cambiò. Ed erano passati a malapena due anni. Lunghe sessioni di prova, studio attendo dei personaggio (e non si pensi che il famoso “metodo” fosse già un corpus integro e formalizzato. Non lo fu nemmeno negli ultimi giorni di vita di Kostantin Sergèevic), attenzione ossessiva per gli arredi, i suoni, le suppellettili, le atmosfere. Soprattutto i silenzi, le famose pause espressive che fecero la storia e la fortuna del Teatro d’Arte. Da tutto questo scaturì un grande successo. A metterci del suo anche il pubblico moscovita che frequentava quel nuovo spazio teatrale seguendo con interesse quelle prime sperimentazioni sulla linea del nascente naturalismo e le illusioni della quarta parete.

L’inizio della nouvelle vague del teatro russo si misura tra questi due momenti opposti. A partire da questo istante e dalle regie cechoviane di Stanislavskij le cose iniziarono a muoversi in fretta. Dal sasso lanciato dal Teatro d’Arte si scatenò una frana destinata a riformare la scena russa ed europea negli anni a venire.

Facciamo scorrere la pellicola del tempo un poco più avanti e misuriamo un altro momento cruciale. E si parla di un altro fallimento dovuto ad altri fattori. Ma non anticipiamo i tempi. Siamo nuovamente a San Pietroburgo dove Vera Kommissaržèvskaja, scontenta dei metodi dei teatri imperiali e alla ricerca di nuove modalità più soddisfacenti per il suo talento d’attrice, decise di inaugurare un suo spazio nel 1904, il Teatro Drammatico, che visse solo due stagioni. Come regista chiamò Mejerchol’d, allievo eretico dei metodi del teatro d’arte. Vera Kommissaržèvskaja e il giovane regista, oltre al disgusto per le prassi consuete, nutrivano le loro perplessità sui metodi di Stanislavskij benché ne ammirassero i risultati. Da qui nacque la loro sintonia presto minata però dalle passioni di Mejerchol’d a quel tempo infervorato per gli esperimenti simbolisti.

In questa nuova temperie l’attore era schiacciato e sovrastato dai fondali dipinti, la recitazione aveva toni monodici, l’azione era spesso bloccata in fermo immagine per far risaltare il bassorilievo e il dipinto, e ovviamente il ruolo del regista cominciava a diventare preponderante rispetto all’interprete, ora irregimentato in una squadra e non più solitario fuoriclasse libero di spaziare dove il talento lo spingeva. Tutto questo infastidì pubblico e critica. Mejerchol’d fu bersagliato da un fuoco di fila. Lo si accusava di imbrigliare un talento immenso, e Vera Kommissaržèvskaja fu commiserata per essere caduta nelle mani di un dispotico carnefice.

Cominciò quindi la querelle mai sopita tra l’azione demiurgica del regista e la libertà creativa dell’attore. Inoltre l’orizzonte drammaturgico era cambiato: Čechov in Russia era già un classico e si guardava ai simbolisti: a Blok, Maetterlink, Crommelynch. E poi alla drammaturgia europea e nazionale volta allo scandaglio interiore: Ibsen, Claudel, Hauptmann, Wilde, Andreev. In pochi anni tutto cambiò e la storia scenica russa aveva in serbo altri rivolgimenti ancora più estremi.

Nel mezzo ci fu un altro clamoroso esperimento i cui risultati non furono pari alle attese. Anche Stanislavskij sentiva che l’aria stava cambiando e decise di invitare a Mosca Gordon Craig per dirigere l’Amleto. I progetti con gli screen e l’idea di un attore-marionetta mal si adattavano al Teatro d’Arte. In più motivi di budget e di spazio ridimensionarono l’esperimento. Sia Craig che Stanislavskij ne trassero una frustrante insoddisfazione, ma ciò che importa fu il tentativo di rinnovare la scena, di mettere in pratica nuove idee. Se una lezione può essere tratta si può riassumere così: come diceva Clausewitz i piani di battaglia funzionano fino al primo scoppio di cannone. E così due metodi si scontrarono con la realtà dei fatti: il teatro è luogo di adattamento continuo, nessuna regola resiste alla scena, Come diceva Mejerchol’d bisogna partire dal suolo. È quello l’elemento che detta le regole del gioco.

Con la Rivoluzione d’Ottobre la matassa si imbriglia ancor di più. Da una parte ci sono i classici, da riadattare secondo i nuovi dettami del socialismo, e dall’altra le nuove drammaturgie scritte pensando a un inedito teatro per nuovi pubblici per un mondo da costruire (da Majakovskij a Tret’jakov a Gor’kij, etc), e da ultimo le drammaturgie recenti, se non addirittura contemporanee, ma provenienti dall’Europa borghese e capitalista con cui confrontarsi. In questa atmosfera si delineano due elementi principali: da una parte i registi orientati a far parlare la scena con un linguaggio indipendente da quello della parola scritta, e quindi operatori di vere e proprie riscritture e riletture radicali; dall’altra l’influsso delle altre arti che andarono a modificare le concezione dello spazio e dei corpi. La pittura in primo luogo si assunse il ruolo di vera riformatrice dello spazio scenico (le impalcature nude e geometriche del costruttivismo, le geometrie suprematiste) e poi il cinema nella doppia natura di manipolante e manipolatore in questi anni in cui la settima arte ancora cercava un proprio codice di linguaggio e si confrontava con il teatro.

I confini sono labili, i dibattiti tra le arti sono accesi e le influenze agiscono dai tutti i lati. Il teatro si riempi di Charlot, di proiezioni e sottotitolature delle scene, mentre il cinema incamerava il Montaggio delle Attrazioni e nuove teorie dell’inquadratura. I ruoli di maestro e discepolo si scambiavano di continuo.

Certo è che il rapporto tra testo scritto e messa in scena in pochi anni si ribalta totalmente. Tra i tanti possibili esempi di questo processo di liberazione dalla soggiacenza dalla parola scritta ne sceglieremo tre che analizzeremo brevemente; ll Dibbuk e la Turandot di Vachtangov e Il revisore di Mejerchol’d.

Cominciamo da Vachtangov. I suoi inizi iniziarono sotto il segno di Stanislavskij e del suo discepolo più fedele Suleržickij. Questo santo pagliaccio, come veniva chiamato da Lunačarskij, era intimo di Tolstoj e anima candida dedita al vagabondaggio. Convertito al teatro da Stanislavskij egli cercò in ogni sua messa in scena di tirar fuori dai testi i buoni sentimenti, ciò che l’uomo, anche il più dissoluto, poteva aver di luminoso. In questo operava di scandaglio alla ricerca dell’anima del personaggio e incarnando quindi il”metodo” del suo maestro.

Vachtangov dopo tanta dedizione a tale prassi ebbe un moto di rivoluzione interiore e, come per reazione contraria all’azione di Suler, rivolgimento determinato dalla Rivoluzione d’Ottobre, eccolo trasformarsi in un regista antinaturalista alieno alle psicologie interiori e alla ricerca di una certa crudeltà alternata a momenti di gioiosa festa. Questo movimento pendolare è evidente nei suoi due lavori più importanti: il Dibbuk da An-ski (1922) e Turandot (1922).

Ne il Dibbuk Vachtangov partì dalla Bibbia e da lì trasformò il melodramma di An-Ski che tratta dell’amore infelice di Lea e Chanan, in un grande arazzo sociale nell’opposizione manichea tra ricchi e poveri, pregno di voglia di rivalsa dei diseredati, di bieco filisteismo degli agiati, di rabbia repressa. Dalle atmosfere dal profumo di incenso apprese da Suler, improvvisa si sente la puzza di zolfo di una crudeltà artaudiana ante litteram. Inoltre utilizzò accenti e parole ebraiche, una lingua dunque difficile da intendere per il pubblico russo, liberando il testo dal significato e realizzando quello Zaum incomprensibile caro ai Futuristi. Radlov dopo la visione dello spettacolo scrisse: «è la prova che il teatro è arte indipendente, distinta ed autonoma dalla letteratura, e che l’interprete può agire sul pubblico senza parole, con suono emotivo della sua voce e coi movimenti del corpo». In queste parole si vede quasi sovrapporsi alla figura di Vachtangov il fantasma futuro di Kantor.

Sia nella Turandot che ne il Dibbuk il regista russo ordì partiture gestuali per ogni interprete quasi a farne una coreografia più che una regia. E il testo divenne pretesto per invenzioni, danze, scene d’insieme. Lo psicologismo venne bandito in nome dell’artificio rappresentativo e se ne il Dibbuk i personaggi erano maschere infernali in Turandot si presentarono gli Arlecchini e gli Zanni (maschere di origine demonica lo ricordiamo) immersi in un Cina fiabesca, irreale.

In questo fraseggio furibondo o gioioso, l’azione non venne distaccata dal tempo presente: i riferimenti all’attualità politica, gli attacchi ai borghesi e ai leccapiedi, l’appoggio incondizionato ai deboli e agli oppressi. Inoltre non mancavano le citazioni come le imitazioni di danze alla Isadora Duncan. Quello che fu chiamato Realismo magico era un frullatore di influssi e influenze diverse di cui il testo di partenza si infarciva per diventare invenzione scenica e non interpretazione. Non ci si trovava di fronte all’ennesima messa in scena di una fiaba gozziana adattata ai tempi, ma all’invenzione di una nuova Turandot, così come il mondo di An-ski si trasformava in un luogo altro tra realtà e fantasia, tra gioco crudele e realtà aumentata.

Turandot, andata in scena in assenza di Vachtangov ormai sul letto di morte, fu visto da Stanislavskij che tra un atto e l’altro accorreva al capezzale del morente per fare i suoi più vivi complimenti. Il vecchio dunque più che al rigido Torkov, insegnate noioso e rigido tutto dedito al sistema da lui inventato, aveva le sembianze di Carmelo-Amleto quando afferma: “Metodo, metodo: che vuoi da me?”.

Interessante l’operazione di Mejerchol’d su Il revisore di Gogol (1926). Qui Mejerchol’d va oltre Vachtangov prendendo in considerazione non solo il testo originale 1835 senza le revisioni posteriori del 1842, ma l’intera opera di Gogol, da Le anime morte ai racconti. La sua regia è un montaggio cinematografico di quindici episodi di un universo gogoliano, quindici quadri la cui relazione fomentava nuovi sensi e nuovi sguardi. In ognuno di questi Mejerchol’d ricorse a tutto il vocabolario biomeccanico, dalle pantomime, alle danze, ai numeri circensi, imbastendo una tragedia buffa che criticava pesantemente la burocrazia nascente.

L’azione si sposta da un lontano governatorato di provincia a Pietroburgo e Chlèstakòv, colui che viene scambiato per il revisore, diventa una maschera anticipatrice del Wolan ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, una sorta di demone pronto a scombinare il mondo e farlo cadere mettendo le fondamenta per una ricostruzione. Il revisore diventa una tragedia buffa e si comincia ad avvertire il sentore di un incancrenirsi della gioiosa macchina rivoluzionaria.

Tra fallimenti e trionfi il teatro russo dei primi tre decenni del secolo appare come un’immensa fucina di sperimentazione. Tutto era lecito per inventare un nuovo mondo e un nuovo teatro. Ogni tradizione, ogni tradimento. Che fosse un testo appena dato alle stampe o un classico inossidabile, era sempre il teatro a trionfare. Che si cercasse il vero psicologico del personaggio o lo straniamento più assoluto, era la scena con i suoi artifici a emergere. Nessun vincolo, nessuna restrizione. Almeno per qualche tempo. Poi subentrò la politica, l’ortodossia e spazzò via tutta una generazione di grandi poeti.

Oggi dobbiamo guardare a quella stagione di eroici furori creativi senza esaltazione e senza archiviarla come qualcosa di passato e vecchio. Si può trarre insegnamento dal quel vagabondare da un estremo all’altro, comprendere che non c’è regola, non c’è routine, se si vuole assistere a un grande teatro. Ciò che occorre è la curiosità infaticabile di uno Stanislavskij, insegnante e allievo dei propri discepoli, ribelle alle sue stesse regole e manie, come Bach, pronto a violare le sue stesse leggi. Come diceva Picabia: «se si vuole avere idee proprie, occorre cambiarle come le camice».

Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.