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Favaro

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A FAVARO E BANDINI

La ventiduesima intervista per Lo Stato delle cose è dedicata a due giovani talenti Riccardo Favaro e Alessandro Bandini che insieme hanno vinto l’ultima edizione del Premio Scenario con Una vera tragedia.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Riccardo Favaro: Io parto sempre dalla scrittura e, nonostante tutto, credo di approdare continuamente alla scrittura. É un tipo di lavoro che posso compiere nel pieno della mia libertà creativa o secondo i sentieri che traccia il regista con cui lavoro, ma resta comunque il momento fondante della teatralità che mi interessa esplorare. Tutto quello che segue, il lavoro in sala con gli attori e il dialogo che tento di rendere possibile tra ogni parte creativa dello spettacolo, è secondo la mia prospettiva una condivisione e una concretizzazione del senso di pericolo che esiste già nelle parole. Quando scrivo cerco di costruire un processo formale e sostanziale che somiglia per molti aspetti a quello del giallo o del noir, con la consapevolezza però di lasciare aperti, in molti snodi fondamentali della drammaturgia, due o tre possibilità, due o tre modi e mondi co-esistenti. Così facendo la “trama” mi appare come un sentiero che non va seguito per principi di necessità ma piuttosto come una moltitudine di sentieri che andrebbero percorsi contemporaneamente. Credo sia la modalità a me più familiare per tentare di orientarmi nella complessità.

Il valore dell’approdo scenico è allora interpretare teatralmente questi crocicchi senza mai risolverli (come, non a caso, i continui sovratitoli che scorrono durante Una Vera Tragedia). Così, nel vuoto di senso che solo apparentemente si crea, cerco di trovare dei varchi, dei tagli, degli squarci, delle radure bagnate dal sole nel mezzo di foreste fitte e buie. Cerco di restituire al pubblico quel vitale senso di precarietà dei sistemi narrativi che è per me il momento della riflessione.

Alessandro Bandini: Per me la peculiarità della creazione scenica è la sua relazione viva e diretta con il pubblico. È un rapporto osmotico quello tra il rito teatrale e il pubblico che vi partecipa. E’ un rito partecipato.

Parlo così insistentemente di rito perché per me è importante che lo spettatore si trovi ad assumere una funzione non passiva di fronte all’atto creativo, bensì una funziona attiva di testimone, di soggetto partecipe. Il rito abbrevia la distanza e di conseguenza pone lo spettatore in una situazione di pericolo, di bilico: quest’ultimo è chiamato infatti a mettersi in discussione, ad accedere alle zone più misteriose della propria anima, ad avere tra le mani la responsabilità di scegliere come guardare, a compiere un percorso che miri alla conoscenza ed a un più ricca consapevolezza.

Per questo motivo trovo sempre più forte parlare di complessità della creazione scenica: ciò rappresenta per me l’unico argine ad uno scenario teatrale indifferente e indifferenziato. La complessità lotta con l’idea che il palcoscenico sia un luogo innocuo, semplicistico e soprattutto pacificante; anzi rende impervio, accidentato e violento il terreno teatrale. La complessità permette e arricchisce il dialogo tra le diverse necessità che animano il teatro.

La creazione poi, per definirsi in quanto tale, necessita di corpi che si facciano mediatori o meglio sacerdoti di questo rito.

Io intendo l’attore o il performer necessariamente come autore di un fatto teatrale, quindi in condizione di appropriarsi di un proprio spazio, di un proprio respiro, di un proprio sguardo, ma soprattutto di un proprio tempo: secondo me esso è la variabile massima di modifica per l’attore. Quando ho lavorato con gli attori di Una Vera Tragedia ho chiesto loro che si rendessero conto di quanto il tempo fosse imprevedibile, quindi pericoloso.

Quello che ho fatto istintivamente poi, già dalle prime letture, è stato metterli fuori equilibrio. Ho cercato di spostare il loro asse: secondo me è nella caduta che si scoprono le proprie zone più ruvide e profonde. Ho chiesto loro che si compromettessero, che stessero nella difficoltà, in quella parte non liscia, dove c’è attrito.

Riccardo Favaro

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Riccardo Favaro: Quelle che ho sono solamente delle impressioni, perché per molte ragioni faccio i conti con sistemi produttivi e condizioni lavorative troppo alterne tra loro. Adottando però solamente un principio di autonomia creativa, spesso sento necessario colmare il vuoto che si è creato tra la ricerca e i suoi interlocutori. Mi sembra che, oltre al bisogno strutturale di fondi maggiori, si debba troppo spesso dialogare con apparati burocratici che si sono lentamente sostituiti agli artisti, lasciando conseguentemente navigare a vista ogni istanza che abbia a che fare con la propria poetica e non solamente con opportunità di mercato. Questo disagio lo leggo soprattutto nel tempo a disposizione di giovani registi, autori o compagnie, un tempo che viene spesso misurato sulla base di logiche che molto hanno a che fare con la chiusura di programmazioni o percorsi di residenza e poco coinvolgono attivamente quel diritto, che orgogliosamente rivendico, alla perfettibilità.

Alessandro Bandini: Se faccio riferimento alla mia poca e piccola esperienza, solo ultimamente mi sono trovato a confrontarmi direttamente con questi strumenti produttivi di cui domandi.

Il concetto di produttività per me si lega subito a quello di efficienza, di consumo e di risultato. Tutti termini che rimandano ad un immaginario economico e che penso vadano contro quella che è la mia idea di progetto e creazione, in particolare modo perché sono parole che nascondono un concetto di tempo molto diverso da quello che io ritengo opportuno e necessario per la maturazione di un percorso artistico.

La smania per l’efficienza infatti annienta il tentativo. L’ossessione per il prodotto porta l’artista ad accontentarsi e a risolvere, invece che a ricercare. La paura di perdere l’occasione non concede un confronto profondo, ma impone soluzioni facili e mai rischiose.

Sicuramente però è solo grazie al sostegno e all’aiuto di festival e residenze (in primis il Premio Scenario, poi L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino e il bando IntercettAzioni insieme ad Industria Scenica di Vimodrone) che Una Vera Tragedia ha potuto trovare luce e vita. Ora, grazie al Lac di Lugano e a Teatro i, sono sicuro che troverà piena maturazione.

Quello che credo è che sarebbe importante rendere più fluido e fruibile il dialogo tra il giovane artista, le sue necessità e i diversi enti ed istituzioni. Allo stesso tempo però, perché questo possa accadere, è fondamentale che il giovane artista stesso si informi con cura, studi e si crei una vera e propria cultura rispetto a questo argomento che, in modo innegabile, sta diventando sempre più centrale ed importante.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Riccardo Favaro: Non so davvero gestire questa domanda. Colgo la complessità del problema che espone e colgo con un po’ di timore la sua stretta connessione ad argomenti potenzialmente più ampi che hanno a che fare con la composizione del pubblico e le sue diversità. Se da un lato mi affatica profondamente vedere nascere e morire dopo poco produzioni che restano vincolate ad un unico spazio, dall’altro sento intimamente un’esigenza di stabilità, di connessione con un luogo, di pensiero su quel luogo e su ciò che rappresenta, di programmazione artistica a stretto contatto con uno spazio fisico adatto e forse non replicabile. D’altra parte il pressante e stancante modello centralista propagandato dalle derive più autoritarie (e ahimè di moda) del nostro agone politico suggerisce tutt’altro, ma io credo che non si possa fino in fondo pensare ad una rimodulazione sistemica della produzione teatrale senza un cambio di passo altrettanto sistemico a livello politico nazionale.

Alessandro Bandini: E’ difficile per me rispondere a questa domanda. L’unica cosa che posso dire è che quando mi confronto con alcuni colleghi che sono agli inizi, proprio come me, quello che intravedo nei loro occhi e nelle loro parole è un alone di solitudine e di smarrimento.

Come i bambino che hanno paura di essere abbandonati, i giovani artisti mi sembra non possano fare altro che vagare alla ricerca di un nido, di una protezione, di qualcuno a cui legarsi.

Qualcuno che tra le altre cose si prenda carico di gestire proprio questo ingorgo che è il sistema di mercato.

Chi non ha la fortuna di trovare un appoggio, è costretto, per farsi conoscere o per fare conoscere il proprio lavoro, ad accettare condizioni quasi inammissibili e si trova spesso obbligato a scendere a compromessi, prevalentemente artistici.

Non ho una soluzione concreta a tutto questo, ma idealmente sarebbe già un traguardo che i diversi circuiti, indipendenti o istituzionali che siano, tentassero di avere un dialogo, guardassero con più curiosità alle diverse realtà artistiche ed evitassero di chiudersi a proteggere il loro territorio.

Alessandro Bandini
Alessandro Bandini

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Riccardo Favaro: Vorrei citare un passo della biografia di Luis Bunuel, scritta assieme a Jean-Claude Carriére:

Mi si dice: e la scienza? Non sta forse cercando, per altre vie, di ridurre il mistero che ci circonda?

Può darsi. Ma la scienza non m’interessa. Mi sembra pretenziosa, analitica e superficiale. Ignora il sogno, il caso, la risata, il sentimento e la contraddizione, tutte cose che mi sono preziose. Un personaggio della “Via lattea” diceva: “Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio”. Vero niente. Per quello che mi riguarda, assolutamente impossibile anzi. Ho scelto il mio posto, è nel mistero. Devo solo rispettarlo.”

Quello che fatico ad accettare non è la contaminazione del virtuale, per carità. Fatico ad accettare la tendenza dilagante ad appaltare al virtuale il sano privilegio di mettere in crisi le nostre certezze. Dubitare e, in ultima istanza, avere paura. Mi pare così desolante questo sistema nuovo di valutazione degli apparati tecnici, come se fossero contemporaneamente soggetto e oggetto di creazione. Quel mistero, tanto caro a Bunuel, è per me l’atto teatrale nella sua totale singolarità. Un conflitto su cose umane tra cose umane, un crimine che corpi vivi compiono consapevoli di avere di fronte a sé molti testimoni. Questo non può essere sostituito, può solo essere denigrato, censurato, eliminato.

Alessandro Bandini: Penso possa aiutarmi a rispondere il concetto polimorfo di contaminazione. Il teatro nel tempo ha cercato un dialogo ed è stato contaminato dalle diverse arti visive, dalla musica e dalla danza. Sicuramente i nuovi media sono qualcosa su cui l’artista contemporaneo deve interrogarsi e deve porre la propria attenzione. Si tratta di una contaminazione sana e necessaria.

Sarebbe per me strano il contrario: gli apparati tecnologici da un lato hanno sì messo in luce come il rapporto che l’essere umano sta via via instaurando con i mezzi di comunicazione sia sempre più allarmante, ma allo stesso tempo hanno anche fornito un terreno di ricerca antropologica molto fertile e articolato, ampliando le possibilità di riflessione. Riconosciuto un certo valore ai nuovi media, mi chiedo come e se questi possano contaminare, formalmente e/o sostanzialmente, la creazione scenica.

Prendo ad esempio proprio Una Vera Tragedia: in fondo alla scena uno schermo proietta i sovratitoli per la quasi totalità dello spettacolo.

Dal punto di vista formale, il video ha vita propria e il testo scorre e viaggia, incurante di ciò che sta avvenendo in scena tra gli attori. Dal punto di vista sostanziale, l’unica vera ricerca verteva su quale fosse il modo migliore per creare uno slittamento pericoloso e un cortocircuito tra i fatti narrati e l’identità dei personaggi, su come il dispositivo drammaturgico potesse dichiarare una verità e allo stesso tempo negarla. Da qui è nata l’idea e l’uso del video.

Aggiungerei però che, esattamente in antitesi rispetto a quella che penso sia una delle peculiarità della creazione scenica, la relazione tra l’uomo e il suo schermo (sia esso il cellulare o il televisore) allarga la distanza e rende il pensiero pigro e poco complesso. Ma sopratutto restringe lo sguardo. Lo annienta, lo rende inerme e immobile. Quello che si vede sul telefono infatti è lontano, non sta accadendo davanti a me spettatore. Il tempo è rapido e non concede una riflessione.

Il teatro invece penso necessiti di un altro sguardo e di un altro tempo: grazie alla mia ultima esperienza con Carmelo Rifici ne Macbeth, le cose nascoste, posso dire a gran voce che mi è apparso ben chiaro che la profondità, la tridimensionalità, il rischio e la responsabilità che l’attore deve assumersi pronunciando una parola resti il baluardo più potente, più fantasioso, più creativo e libero che ci sia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Riccardo Favaro: Forse è strettamente connesso con la risposta che ho dato prima. Mi sento personalmente in continuo debito con i dati di realtà. Ancor più, direi, con l’abitudine. Per me è sempre il punto di partenza, direi per ogni lavoro, per ogni scrittura. La prima domanda che mi pongo è “come dovrebbe andare avanti (questa o quella cosa) nel mondo di fuori?”. Tutto il resto viene fuori da sé, lentamente e a fatica, ma in modo pressoché fisiologico. In questo senso potrei quasi dire che sono ossessionato dal rapporto con “il mondo per come dovrebbe essere”. Non in senso utopistico, anzi. In senso banalmente empirico. Io partirei da questo, da un’osservazione onesta non dei fatti ma di come i gruppi sociali rispondono ai fatti, dal nucleo familiare alla più astratta delle relazioni. Per scrivere Una Vera Tragedia mi sono esattamente mosso in questa direzione, fin dal principio, e l’allestimento ne è la prova: c’è una storia che scorre alle spalle della scena, come fosse il copione di una vicenda che “nel mondo di fuori” può accadere. E poi ci sono dei fatti, gli umani fatti, che in scena accadono. Che relazione esiste tra queste due cose? Quale è reale? Quale, invece, deve esserlo?

Alessandro Bandini: Penso che il compito di un artista, o comunque la sua tensione massima, debba essere quella di riflettere, interrogarsi e creare a partire dalla realtà in cui vive: quindi come sarebbe possibile abbandonare il confronto con il reale?

Molte personalità sembrano chiedersi cosa possa essere oggi la rappresentazione teatrale, tenendo conto che la violenta dose di realtà, che quotidianamente ci bombarda e nella quale navighiamo, è come un mare impetuoso che ha provocato un abbattimento della distinzione tra attore e persona.

Quello che abbiamo cercato di fare in Una Vera Tragedia è stato mettere proprio al centro del discorso lo spettatore, manipolando il suo sguardo e il suo rapporto con l’autofinzione e autorappresentazione.

Nell’estate 2019 al Centro Teatrale di Santacristina ho avuto la fortuna di poter partecipare a due giornate di incontri dal titolo Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà.

Sono rimasto estremamente affascinato dall’intervento di Carmelo Rifici, secondo il quale più che di rappresentazione oggi dovremmo parlare di simulazione, e cioè di una forte bascule tra realtà e finzione. Rifici ha citato anche una teoria secondo la quale l’ottica sarebbe cambiata all’inizio del nuovo millennio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Aver visto la realtà frantumarsi avrebbe segnato un discrimine tra il passato e l’oggi, tra il prima e il dopo: la realtà non è dunque più rappresentabile, la si può al massimo simulare.

Mi sono trovato a discutere recentemente con alcuni ragazzi dei licei milanesi e non: ero curioso di sapere, da attore, quale fosse la loro posizione e con che occhi si ponessero di fronte ad uno spettacolo teatrale. Quello che è emerso dai loro discorsi, senza dare su questi alcun tipo giudizio o merito, mette in luce come sia impossibile da credere o comunque difficile da gestire per gli adolescenti il concetto di artificio teatrale: abituati sempre di più alle serie e a nuovi tipi di linguaggi, il loro sguardo chiede e pretende un certo grado di credibilità. Questo non significa assolutamente che la creazione scenica debba abbassarsi o farsi semplice, anzi, proprio perché i ragazzi conservano l’istinto e il bisogno di vedere un lavoro che imponga loro un tempo e uno sguardo rituale, sarebbe bello dare loro gli strumenti per comprendere il presente attraverso il passato, la memoria e instillare in loro un desiderio di complessità.

E’ importante che l’artista prenda consapevolezza e accetti questa trasformazione e mutazione sul concetto di reale.

Collettivo Mind the step

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A COLLETTIVO MIND THE STEP

La quinta intervista per Lo Stato delle cose andiamo in Campania per dialogare con il Collettivo Mind The Step di San Felice a Cancello (CE). Abbiamo posto le cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Il Collettivo Mind the Step è nato a Napoli all’interno della Bellini Teatro Factory nel 2018, finalisti al Premio Scenario 2019 con Fog, all’attivo hanno anche lo spettacolo Look Like che a debuttato a febbraio 2019 al Teatro Bellini di Napoli.

D: Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A nostro avviso non può esserci creazione efficace senza un lungo processo che affronti più tappe e più livelli creativi. A riguardo possiamo riportare il nostro metodo di lavoro, che, in quanto compagnia giovane, abbiamo difficoltà spesso a mettere in pratica. Pretendiamo di partire da una fase di ideazione e studio, che preveda anche una piena informazione e documentazione degli argomenti trattati, per poi passare alla fase di scrittura e improvvisazione e giungere infine alle prime bozze di formalizzazione. Lavoriamo, affinché tutto possa essere efficace, con la piena disponibilità a rimettere sempre in discussione ogni decisione e ogni risultato del percorso. Per fare ciò, è ovvio, serve tempo e una grande fluidità delle competenze messe in gioco. L’attore, ad esempio, non può limitarsi ad essere solo un esecutore, ma deve saper essere anche autore e regista in scena. Così come drammaturgo, regista e tecnici non vogliamo che siano limitati all’interno dei ruoli assegnati normalmente all’interno del percorso creativo.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Di variabili e casi specifici ce ne sono in abbondanza e proprio in virtù di questo ci sembra che la situazione sia molto complessa. Senz’altro residenze e bandi in generale sono un aiuto importante e concreto per le giovani compagnie, nonostante a fruirne sia un numero esiguo di gruppi. Ad esempio, il nostro progetto Fog, finalista al premio Scenario 2019, non è riuscito ancora ad accedere a bandi di residenza. Questo si ripercuote ovviamente sul processo creativo, di cui parlavamo nella risposta precedente, e influenza negativamente il completamento del lavoro. A questa condizione si aggiunga il fatto che le residenze sono spesso limitate nel tempo, un tempo che difficilmente si sposa con le reali tempistiche richieste da un valido processo di creazione. Si aggiunga anche che in generale tanta è la difficoltà a trovare spazi che vadano incontro alle esigenze di chi fa teatro (una sala prove può essere limitante rispetto ad uno spazio teatrale vero e proprio) o che quasi mai si concede la possibilità in fase produttiva di incontrare il pubblico, aumentando così il rischio di un teatro sempre più barricato sulla scena; o si consideri ancora che sono pochi i teatri ufficiali che realmente danno spazio e investono su giovani realtà, innescando una dinamica di spietata competizione e in una totale assenza di rete tra giovani compagnie, cosa a nostro avviso necessaria per una crescita del mondo teatrale italiano. Sarebbe importante che, in generale, chi produce desse più importanza e peso al processo e meno al prodotto.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Oggi perché uno spettacolo sia ‘accettato’ in altri spazi rispetto a quello in cui nasce c’è bisogno di qualcuno che ne garantisca la qualità, soprattutto quando non è coinvolto un nome riconosciuto o lo spettacolo è fuori dalle logiche di scambio. In questo contesto crediamo che la critica svolga, volente o nolente, un ruolo indispensabile. Le recensioni di penne importanti possono considerarsi tra i principali crediti che danno accesso – o almeno una possibilità maggiore di accesso – alla circuitazione. Tuttavia il destino di uno spettacolo non è solo nelle mani della critica, che tra l’altro deve far fronte a una mole enorme di spettacoli da seguire e agli impedimenti geografici (ma in realtà non è neanche questo il suo ruolo, ma qui si aprirebbe un altro capitolo). Forse dovrebbero essere gli stessi teatri a creare e coinvolgere, in un’ottica di rete, delle figure che cerchino, come degli scout, spettacoli da inserire nei propri cartelloni sulla base di una reale ed effettiva visione e non affidandosi alla recezione dei più disparati materiali multimediali, che possono essere bugiardi in un senso e nell’altro. Questo però implica un cambio strutturale che permetta al circuito off di operare scelte non solo in base a principi di sopravvivenza e agli Stabili in base a logiche di rischio e non solo commerciali. Non ultimo sarebbe importante che sia il fruitore ultimo della catena, il pubblico, e non i soli addetti ai lavori, a decidere se uno spettacolo è meritevole o no (interessante è l’esperimento che il Kilowatt Festival porta avanti ormai da anni, ma che purtroppo è relegato ad essere un caso isolato nel panorama italiano). Oggi non esiste settore in cui il cliente non possa valutare il prodotto o la prestazione di cui fruisce, ma perché il pubblico non può recensire lo spettacolo per cui ha pagato e in tal modo, non solo instaurare un rapporto diretto con gli artisti, ma anche influenzare le sorti distributive di uno spettacolo?

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

L’iperconnessione in cui ci ha precipitato la società informatica non può sostituire lo scambio concreto, fisico e carnale che il teatro ancora garantisce. Le funzioni, oggi come ieri, ci sembrano le stesse: l’elaborazione collettiva, l’incontro di opinioni e sensazioni, una connessione emotiva tra pubblico e artista, il risvolto politico, nel senso più ampio del termine. Certo, senza l’intenzione di farne una condanna antitecnologica, bisogna inevitabilmente considerare che oggi tutti, sia artisti che pubblico, siamo sempre meno allenati ad esercitare le nostre funzioni empatiche, a sviluppare la nostra concentrazione su tempi lunghi, in un mondo in cui la lentezza non è più un valore. Su questi aspetti la creazione scenica deve far leva per un necessario rinnovamento, ma allo stesso tempo deve resistere alla tentazione di soddisfare le esigenze di velocità che arrivano da ogni fronte.

D’altro canto l’artista dovrebbe dare allo spettatore la possibilità di acquisire immagini non dall’esterno, ma facendole nascere dentro di sé. Bisogna alimentare l’immaginazione del pubblico, non soddisfarla. In una società che fornisce un’infinità di informazioni e risposte precostituite, la scena deve sollevare dubbi e incertezze, affinché ognuno possa avere modo e tempo di cercare una propria risposta. Oggi, confermando come dicevamo sopra i suoi compiti atavici, il teatro dovrebbe rinunciare per quanto possibile alla velocità, alla sovraesposizione a stimoli esterni e alla memoria incancellabile del web e scegliere la lentezza che raccomanda Calvino nelle Lezioni Americane, la concretezza che un singolo punto di fuoco dell’attenzione concede, la riscoperta del caduco e del fallibile come valore.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Pretendiamo un rapporto con il reale di profonda interrogazione. David Foster Wallace, in un discorso ormai celebre, citò la storiella di un pesce anziano che incontra due pesci giovani e gli chiede: salve, ragazzi, oggi com’è l’acqua? E i due pesci giovani, un po’ stupiti, si dicono: l’acqua? che cos’è l’acqua? La morale è prevedibile, ma non così scontata. Molti aspetti del vivere quotidiano ci sono sconosciuti, proprio perché vi siamo immersi, diventano invisibili, nonostante il contesto che fa da sfondo a un’esperienza umana determini silenziosamente quella stessa esperienza. Noi, in quanto artisti, vogliamo capire di che qualità è l’acqua in cui siamo immersi. Come farlo? Non è facile scoprirlo e forse non lo sappiamo ancora. Possiamo dire però qualcosa sulle intenzioni. Tramontata l’idea di un rapporto mimetico con la realtà, non accettiamo neanche l’idea opposta, quella di destrutturare il reale. Ci interessa piuttosto mettere in evidenza le contraddizioni e le mine inesplose in esso contenute. Allo stesso tempo crediamo che l’immaginario del pubblico sia già così completo e ricco (tutti hanno una propria immagine mentale di una piazza, di Manhattan, di una spiaggia o di Saturno) da aprire infinite possibilità creative sulla scena. L’evocazione del reale può andare in qualunque direzione, sta a noi artisti veicolarla verso interrogativi in grado di aprire crepe e spaccature. Per ottenere un risultato quanto più vicino alle nostre intenzioni, crediamo sia necessario mettere ordine, attraverso la narrazione, nella complessità che il reale nasconde e schiaccia, una complessità che non vogliamo sciogliere o risolvere, ma far deflagrare.

Saul

SPODESTIAMO IL RE: IL SAUL DI GIOVANNI ORTOLEVA

Il Saul di Giovanni Ortoleva ci mette a confronto con un conflitto. Non uno combattuto sui campi di battaglia, per quanto sullo sfondo narrativo questi compaiono in lontananza. Quella che si combatte è una guerra tra generazioni, sola “igiene del mondo”. Il vecchio re Saul, benedetto da Dio fino a diventare primo re di Israele, prima si infatua del giovane David, suonatore di cetra, poi geloso del suo successo contro Golia, diventa il suo più acerrimo nemico.

Oggi Saul è re del rock oscurato da David, astro nascente, destinato a adombrare la sua stella. La reazione è la medesima: incapace di scendere a patti con il tempo che passa, contro il fallimento che segue qualsiasi successo, Saul contrasta il nuovo che avanza inabile a sottomettersi al cambio di passo della grazia divina ora posata su novella fronda.

Terzo in questa dicotomia: Gionata, figlio di Saul, figlio negletto, impedito a sorgere dalla figura del padre ingombrante, non libero come David di scegliersi un destino, perché ingabbiato da un destino. Gionata che invano cerca un dialogo col padre, e lo trova con questo fratello aggiunto a forza, ma è infine obbligato a combatterlo dai doveri filiali. Gionata e David, due giovani a rappresentare le due opposte balze della lotta generazionale: la pianta oscurata e soffocata e il virgulto che cresce benedetto dalla luce.

Il Saul di Giovanni Ortoleva, la cui drammaturgia è opera a quattro mani con Riccardo Favaro, è confronto letterario con i modelli: da una parte il testo biblico, dall’altra il Saul di André Gide. Anche tra queste due figure una terza si insinua, più o meno conscia. È Finale di partita di Beckett che in tutta la prima parte risuona costante: Saul infisso in una poltrona, da cui come Oblomov si alzerà a metà dell’opera, è inabile a far niente da sé e volutamente cieco al mondo (non vuole sapere niente di ciò che succede fuori dalla sua camera d’albergo) a far la parte di Hamm. Clov invece è scisso in un doppio: Gionata è il suo servitore e il suo occhio, obbligato a guardar fuori dalla finestra, David, in altra stanza come Clov nella sua cucina, pronto a giungere a ogni chiamata di Saul. Anche il destino di questo novello Clov è bifronte: Gionata non riuscirà a liberarsi, David uscirà dall’ombra molesta del re. Anche Finale di partita è lotta generazionale: i vecchi nell’immondizia, Hamm cieco e immobile sulla poltrona, Clov zoppo e indeciso se fuggire o no. Beckett lascia aperta la questione, Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro mostrano entrambe le possibilità: il successo di David, l’inabissarsi di Gionata.

Altro risuonare beckettiano è la coazione a ripetere. I dialoghi, gli eventi, le azioni. Tutto è ciclico ritorno dell’eguale ma sempre più affrettato. Variante: una velocità di fuga in spirale accelerata.

In scena la regia si dipana in opposizioni spaziali: Saul e Gionata, Saul e David, infine Gionata e David. Gli elementi scenici sono essenziali: una poltrona circondata da ciarpame in accumulo, un lungo tavolo sullo sfondo al centro, una pedana per David.

Indovinata la scelta dei ritmi e dei toni narrativi. La narrazione procede per accelerazioni e rallentamenti che si susseguono e intrecciano, così come dramma e commedia alternano commozione e dissacrazione. Il mito dell’eterna battaglia, dei Crono che ingoiano i propri figli ma vengono da questi sconfitti è visto con cinica ironia: i padri perderanno di sicuro e quanto più tardi se ne renderanno conto tanto più clamorosa e ridicola sarà la loro caduta.

Questo Saul di Giovanni Ortoleva è, volente o nolente, anche opera politica in un paese come il nostro governato da vecchi, in cui la generazione di mezzo, come Gionata, è stata incapace di scrollarsi di dosso il padre. Sta ora ai giovani, a coloro che vengono per ultimi, spodestarli. E lo faranno sicuramente.

Filippo Tommaso Marinetti nel Primo Manifesto Futurista del 1909 recitava: “I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili“. Oggi i trentenni sono arrivati alla ribalta. Speriamo che ci gettino nel pattume, che sappiano vincere Crono e spodestarlo. Se non viene loro dato spazio se lo prendano, ne va del loro e nostro futuro affinché anch’essi non cadano: “fatalmente esausti, diminuiti e calpesti”.

Visto al Teatro I di Milano il 35 novembre 2019