Il senso del mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!
Nietzsche, Della redenzione in Così parlò Zarathustra
In questo
ultimo torno di tempo si sta certificando una
crescente attenzione verso una nuova drammaturgia teatrale, sia da
parte degli operatori teatrali che da parte di giovani autori nel
tentare questa difficile strada. Si scrive molto per il teatro e
insieme a questa prolifica e abbondante nuova produzione, si
riscontra altresì un ritorno del repertorio della tradizione
classica (Shakespeare, Moliere, Goldoni, Ibsen,) quanto della più
recente produzione del ‘900: da Cechov a Jon Fosse. In molti casi
queste scelte di rivalutazioni hanno condotto, da una parte a nuove
forme di regia collettiva o condivisa, dall’altra a un recupero del
teatro di regia come è stato conosciuto fino all’inizio di questo
nuovo secolo. Spesso non si può che constare il ritorno della
semplice messa in scena di testi drammaturgici, e questo è invero
più sorprendente in quanto lega ancor più strettamente il
linguaggio scenico alla parola scritta, quasi un ritorno a un passato
che si credeva abbandonato. Anche dalle nuove generazioni che
tradizionalmente dovrebbero essere più rivolte alla ricerca di un
nuovo tutto da scoprire.
A cosa si
deve questo ritorno prepotente dello scritto teatrale, laddove quasi
tutta la migliore tradizione rinnovatrice del teatro del Novecento si
è affannata a sancire un’indipendenza di linguaggio del teatro
rispetto alla letteratura, soprattutto in un periodo dove tutto
spinge alla commistione dei linguaggi e alla sperimentazione verso un
decisa multimedialità? Cosa è cambiato in questi ultimi anni che ha
condotto alla necessità di riscoprire il bisogno di una nuova
affermazione della parola letteraria sulla scena?
Per
comprendere appieno questo fenomeno bisognerebbe in realtà
affiancargli, come una cartina tornasole, un altrettanto proficuo e
dirompente, seppur minoritario, filone di ricerca basato su strategie
mutuate dall’agire performativo nelle arti visive che conduce alla
creazione di eventi scenici condivisi e concreati con il pubblico
partecipante dove la parola è quasi, se non del tutto, assente e ha
una semplice funzione tecnica e procedurale, quindi mai poetica o
assertiva.
Da una parte
dunque abbiamo una concezione classica dell’evento teatrale, dove la
parola è centrale e si configura come oggetto a cui assistere,
mentre dall’altra si propone un’esperienza performativa a cui
partecipare dagli esiti incerti e con la parola spesso niente più di
una semplice regola del gioco. Sono due macrocategorie con concezioni
molto distanti ma che si originano da una stessa esigenza: avere
ragione della caoticità di un mondo frammentario con l’intento di
trovare un linguaggio o una modalità che possa in qualche modo avere
ragione della pluralità contraddittoria del reale. Tra questi due
estremi utili per a focalizzare la questione vi sono ovviamente
infiniti gradi mediani che commistionano le due tendenze tra alleanza
e conflitto.
Con la
caduta delle grande ideologie viviamo un mondo in cui il relativismo
dei valori è dispiegato come mai accadeva prima. Sono venuti
definitivamente a mancare dei sistemi di pensiero in grado di
racchiudere in una qualsiasi teoria la complessità della realtà e,
anche se ci fossero, tali sistemi sarebbero esposti su uno scaffale
di supermercato virtuale; con eguale importanza a un consumo
utilitario a seconda delle esigenze mancando comunque alla loro
finalità di spiegare in maniera definitiva il mondo che stiamo
vivendo. La contemporaneità ci espone a una terribile quanto
insostenibile precarietà e nulla di più, dall’arte alla filosofia,
dai credi religiosi alla stessa scienza, è pronto a offrirci una
ricetta per dominarla, spiegarla o al limite renderla accettabile.
Il fenomeno
a cui si faceva accenno all’inizio è dunque forse da ascrivere a
questo spaesamento, di fronte a una realtà complessa e fluida al
punto da non essere più spiegabile e tale sguardo abissale ha
condotto la ricerca teatrale, per opposti motivi, a cercare di dare
ragione di questo spiazzamento.
Il ritorno
alla tradizione, a mio avviso, si può vedere come una reazione al
caos ipersperimentale riuscendo ad attraversare il Novecento, dalle
avanguardie storiche alla postdrammaturgia, una sperimentazione volta
soprattutto a svincolarsi dai canoni naturalistici e descrittivi; al
fine di condurre l’arte scenica a una sorta di filosofia in azione o
di atto filosofico, quindi prodotti per lo più opachi, complessi,
nati da un bisogno volto a costruire un linguaggio tra i linguaggi
con una propria dignità, autonomia e funzione. Il recupero del
teatro di parola, secondo canoni più o meno tradizionali, è sintomo
di una necessità di riappropriarsi di nuove storie che diano invece
ragione del mondo sfuggente di oggi; raccontandolo e fornendo delle
chiavi di lettura con il potere di dar luce a un abisso che si fa
sempre più minaccioso. Inoltre è come se, in questo tempo di crisi
del teatro e dei suoi valori, non trovando delle nuove soluzioni
realmente efficaci, alla temperie in cui si vive, constatando il
fallimento a fornire risposte di quella circostanza sperimentale, ci
si volesse ancorare, provando a reinventarla, a una tradizione
possente, comunque capace di dar ragione della turbolenza del mondo
benché in tutt’altre condizioni storiche, sociali ed economiche.
Il ritorno
alla drammaturgia o al repertorio tradizionale è dunque una risposta
in grado di puntare sul recupero del potere della parola e
dimostrare di avere ragione del precario e dell’abissale. Una fiducia
umanistica e classica nel verbo capace di poter dominare il caos
sotto la rassicurante coperta della civiltà, di creare ancora un
luogo in cui l’uomo ha ancora la capacità di governare l’indicibile
e l’insondabile.
L’opera di
Milo Rau si situa tra
i vertici di questo filone di ricerca, uno dei punti più alti di
questa fiducia nella parola come chiarificatrice dei conflitti e del
teatro inteso, in senso classico, come agorà, luogo privilegiato
dalla comunità per la composizione della crisi tramite la pratica de
l’iterpellation, ossia di una questione
stringente posta con forza al pubblico; e su cui quest’ultimo deve
prendere posizione al fine di sanare la crisi in atto almeno
prenderne coscienza al fine di cercare delle soluzioni possibili.
Quando però
anche la parola vacilla, l’artista si rifugia nell’io e nella propria
esperienza personale, come l’ultima frontiera di certezza attraverso
cui si cerca di dare ragione della fragilità e dell’inspiegabile:
l’io come misura di tutte le cose, ultima propaggine del tentativo
del cogito cartesiano
di affermare una qualche certezza nell’oceano sterminato e infinito
del possibile. Infatti dove tutto sembra venire a cadere non resta
che aggrapparsi al proprio io per cercare di affermare una seppur
fragile concretezza. Laddove il presente nega all’artista la
possibilità di farsi compositore della crisi o per lo meno
interprete della stessa, anziché abbracciare questo infinito
permutare delle cose si cerca di governare la frammentazione
affermando il sé della propria esperienza. Tra gli esempi migliori
di opere nel tentare di affrontare il problema con questo taglio si
possono citare Cock, Cock, who’ s there?di Samira Elagoz,
in cui l’artista cerca di cogliere gli effetti su sé e sugli altri
dello stupro subito, e nello stesso tempo di analizzare le origini di
un atteggiamento maschile dominante e aggressivo. Come in Between
me and P di Filippo
Michelangelo Ceredi, in cui l’artista
attraverso i lasciti documentari ritrovati tra gli effetti
abbandonati dal fratello scomparso negli anni ’80, cerca di scoprire
le ragioni del suo gesto e di affrontare il trauma dell’abbandono.
Attraverso
questi esperimenti in realtà non si fa che acclarare l’incapacità
dell’io di controllare le cose della vita. È il naufragio dell’uomo
come dominatore del mondo e degli eventi. Il tentativo di guarigione
dal caos della sperimentazione, ossia l’ancorarsi a una modalità che
nel passato aveva dato ottime risposte, con il mutare dei tempi e
delle condizioni finisce per essere nient’altro che la manifestazione
dell’impossibilità di tale guarigione.
D’altra
parte la modalità performativa aperta e non preordinata rinuncia a
dar ragione degli interrogativi e delle incertezze del presente, anzi
ne abbraccia totalmente la caoticità e la propone come esperienza da
vivere insieme al pubblico al fine di prenderne coscienza ed
elaborare insieme delle modalità di sopravvivenza.
Questi
processi prendono le mosse anch’essi dallo sperimentalismo
novecentesco soprattutto dalla performance nata nel campo delle arti
visive. Il primo a proporre un evento performativo in cui l’intento
primario fosse l’esperire il mondo nella sua complessità è
senz’altro The Untitled Event,
atto di nascita dell’happening costruito da John
Cage al Black Mountain
College nel 1952. Per il grande compositore
americano lo scopo vitale dell’arte, mutuando il pensiero del
filosofo indiano Ananda Coomaraswami,
era quello di imitare la natura nel suo modo di operare. Per giungere
a questo risultato si doveva sottrarre l’ego dell’artista. Una
rinuncia totale non solo a farsi portavoce di uno o più punti di
vista da comunicare allo spettatore, ma anche e soprattutto dell’idea
classica dell’autore creatore e demiurgo. L’opera d’arte doveva
diventare un processo di scoperta del reale e non la comunicazione di
un pensiero preesistente che l’oggetto artistico incarnava. Per Cage
l’artista doveva essere niente di più che l’artefice di un contesto
in cui le cose potessero accadere liberamente, un luogo in cui fare
delle scoperte e fare esperienze impreviste di ciò che ci circonda.
Il suo
pensiero influenzò, non senza polemiche, l’azione dei performers
dagli anni Cinquanta, dal prima caotica corrente dell’happening,
passando per il movimento Fluxus, giungendo fino ai giorni nostri.
Non è un caso che tutti i performers oggi si affannino a dichiarare
che il loro agire nulla ha a che fare con la rappresentazione
teatrale, che nulla di quanto avviene è provato o preordinato, e
scopo del loro operare è condividere con il pubblico un’esperienza.
In queste continue e costanti dichiarazioni non solo si cerca di
prendere le distanze dal teatro, posizioni oggi spesso pregiudiziali
in quanto non tengono conto del mutare delle pratiche nel corso del
tempo, ma soprattutto un prendere le distanze dall’idea di opera
chiusa semplicemente posta di fronte all’occhio dello spettatore.
Quello che si cerca nella performance è innanzitutto la condivisione
e il proporre un’esperienza in grado di illuminare una questione
critica sebbene non fornisca chiavi di lettura capaci di
esorcizzarla.
D’altra
parte il teatro ha mutuato proprio da queste pratiche alcuni concetti
base (uscita dalla rappresentazione, processo invece di un progetto,
azione anziché interpretazione o rappresentazione) provandole in
campo teatrale.
Contrariamente
alla tradizionale messa in scena di un testo, dove tutto è più o
meno preordinato, lo sviluppo previsto (anche quando vi sono grandi
margini di improvvisazione dell’attore), e allo spettatore non resta
che scoprire lo svolgimento e decidere da che parte stare, una volta
scoperto il finale, nel processo performativo partecipato vengono
semplicemente poste le condizioni per lo sviluppo di una procedura; i
cui effetti sono imprevedibili e in base alle premesse enunciate
tutto può accadere persino il proprio sabotaggio e fallimento.
La caoticità e contraddittorietà del mondo vengono accettate
divenendo i mattoni su cui costruire l’esperienza. Le condizioni
incerte sono condivise tra performer e pubblico e insieme se ne fa
esperienza. Nell’evento nulla è scritto e niente è predeterminato
anche quando sono previste stazioni di transito nel percorso perché
tutto può accadere anche la ribellione e la catastrofe.
Ad esempio
in Questo lavoro sull’aranciadi Marco Chenevier,
dove nei vari passaggi che prevedono le torture ai danzatori,
differenti pubblici hanno opposto diversissime reazioni: passano dal
sadico infierire alla supina obbedienza agli ordini e alle regole
date, giungendo fino al boicottaggio e all’aperta ribellione. In M2
dei Dynamis dove la
coabitazione e occupazione della piccola zolla di terra da parte dei
sette volontari, nonostante i passaggi siano preordinati in una sorta
di narrazione, quanto avviene può cambiare radicalmente volta per
volta. P Project
di Ivo Dimchev
l’artista pone dei compiti molto generici al pubblico (fa eseguire
una danza di tre minuti, dare un bacio o simulare un atto d’amore
nudi per cinque minuti, dietro una ricompensa in denaro), ma quanto
avviene in quel modulo temporale è scelta dei partecipanti: l’atto
d’amore simulato può essere una tenera carezza come un gesto
pornografico. Tutto può accadere realmente e l’artista pone solo
delle condizioni affinché si possa fare un’esperienza in qualche
modo illuminante: la mercificazione di ogni nostro agire. Chi
partecipa a tali eventi avverte immediatamente questo stato di
imponderabile e imprevedibile precarietà e benché scelga di non
parteciparvi attivamente non si sente al sicuro seduto alla sua
poltrona. Inoltre il teatro performativo, partecipativo o
cooperativo, si pone fuori anche dal concetto di ripetizione in
quanto ad ogni nuovo incontro con lo stesso dispositivo, gli esiti e
le problematiche emergenti mutano sensibilmente con il variare della
composizione del pubblico, tanto da far nascere risultati che nulla
hanno a che fare con le esperienze precedenti.
In
conclusione è utile citare alcuni lavori che si collocano in una
vasta zona mediana tra questi due estremi enunciati ma condividono
la necessità di conferire una qualche ragione all’agire/patire di
cui tutti facciamo esperienza e fatichiamo a fornire di senso. Quasi
niente e Scavi
di Deflorian/Tagliarini
esplorano la frammentarietà del ricordo e dell’esperienza degli
attori, appartenenti a diverse generazioni, nel confronto con il
personaggio di Giuliana, protagonista di Deserto
Rosso di Michelangelo Antonioni,
e del malessere che lei vive. Il disagio del vivere, la mancanza di
risposte di fronte a ciò che ci rende fragili, si affronta tramite i
frammenti, i brandelli e le schegge di racconti personali a confronto
con gli episodi tratti dalla celebre pellicola e la cui ricostruzione
in un presunto mosaico spetta a ogni singolo spettatore, come il
riconoscersi o meno con quanto viene riferito e narrato.
Tra le nuove generazioni possiamo ricordare Oh, little man di Giovanni Ortoleva, dove una drammaturgia controllata e scritta a priori, interpretata da un attore in uno schema di regia riconoscibile. Narra del naufragio di un capitalista speculatore tra i peggiori e nel finale si trasforma in un evento partecipato conferendo al pubblico la responsabilità di salvare o meno il naufrago. A seconda della scelta effettuata non solo cambia la conclusione dello spettacolo ma si prefigurano diverse risposte a un fenomeno che ci vede tutti più o meno partecipi come vittime o carnefici.
Si è
cercato di delineare due tra le principali correnti che attraversano
il nostro teatro (due estremi come sottolineato molto fluidi e
permeabili e tra i quali vi sono infinite vie mediane), e di
evidenziare come entrambe cerchino di dar conto di questo tempo di
crisi e di incertezza, con il recupero di una tradizione che cerca
nella parola e nel racconto un principio unificante e chiarificatore
dell’estrema frammentazione del reale, ma anche l’abbraccio di tale
caotico fluire ricreandolo; facendone esperienza al fine di poter
desumere delle chiavi di lettura per quanto precarie. Entrambi sono
tentativi di dare una nuova funzione al teatro per tornare ad essere
un luogo in cui la comunità cerca di metabolizzare tutto quanto la
perturba, inquieta e scuote senza dare certezza alcuna.
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