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Biennale Teatro

BIENNALE TEATRO 2020: CHIAROSCURI VENEZIANI

Si è concluso in questi giorni il quarto atto della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella. Dopo aver posto l’accento sulla regia femminile (primo atto), sulla questione: attore o performer? (secondo atto), infine sulla drammaturgia (atto terzo), Latella quest’anno ha voluto dedicare tutta la sua attenzione al teatro italiano, costruendo, e usiamo le sue parole, una sorta di “Padiglione Italia”.

Il titolo di questa edizione del Festival era Nascondi(no) a evocare due aspetti: da una parte il nascondimento di tanto teatro italiano, soprattutto nei confronti dell’estero (ma anche in casa propria aggiungerei), dall’altro una certa idea di censura, direi piuttosto cecità selettiva, in cui gli occhi degli operatori vedono solo un certo tipo di scena. Antonio Latella del nascondino evoca perciò l’aspetto giocoso del direttore che “fa la conta” prima di andare alla cerca degli artisti nascosti.

Pensiero lodevole ma il direttore, come chiunque si trovi nella sua posizione, vede ciò che vuole vedere, osserva lo spicchio di realtà che in fondo, consapevolmente o meno, predilige. È la responsabilità della direzione: scegliere uno o più idee di teatro che si reputa essere di particolare interesse nel momento storico in cui si vive, o che pare preannuncino tempi e modalità innovative. E così ha fatto Antonio Latella. Ha scelto, e non certo i “nascosti”, non i “sommersi” sebbene non certo i “salvati”. Anzi in alcuni casi possiamo tranquillamente parlare di sovraesposizione e non certo di nascondimento (per esempio il caso di Leonardo Lidi, Babilonia Teatri, Liv Ferracchiati e Fabiana Iacozzilli che in questi ultimi anni sono stati decisamente e meritatamente sotto i riflettori). Se si voleva veramente cercare il nascosto, secondo l’opinione di chi scrive, si doveva guardare altrove, ma si parlava di scelte e queste di certo sono state compiute con coscienza, serietà e trasparenza.

Altro luogo in cui si denota da parte del direttore una scelta precisa è laddove ha chiesto ai partecipanti di creare i loro lavori senza pensare al contesto distributivo. Un ricercare dunque una libertà creativa, spesso negata dai paletti inseriti nei bandi di finanziamento pubblici e privati e dal contesto stesso che tende a chiudere la visione entro confini ben precisi con parametri che si pensa accontentino lo spettatore o l’abbonato, molto più spesso gli stessi operatori. Quella che potremmo chiamare censura di sistema, per tornare al tema principale. Dietro questa libertà vi è però un pericolo insidioso: creare un’opera svincolata dal contesto produttivo e distributivo, può portare a molti nascondimenti proprio perché il mercato attuale, in modalità iperproduttiva da anni, non è in grado di assorbire tutte le nuove creazioni. Questa libertà rischia dunque di alimentare proprio quel sistema di “censura” che si vuole evitare. E il rischio è forte. Alcuni dei lavori presentati dovranno aspettare mesi prima di una ripresa e quindi l’esordio veneziano rischia di essere un isolato fuoco d’artificio. C’è da chiedersi dunque se veramente ci si possa permettere di ignorare le leggi vigenti di un sistema produttivo ipercapitalistico che non si intende mettere in discussione, restandone all’interno. Sembra piuttosto un episodio di voluta cecità, un volersi dimenticare per un momento dell’esistenza di un regime costrittivo e limitante. I giovani autori però se lo possono veramente permettere? Non sarebbe invece il caso di mettere in questione tale regime chiedendone a gran voce la revisione e mettendo in cantiere delle proposte alternative?

La grande vitalità del teatro italiano più volte evocata da Antonio Latella sembra invece qualcosa di simile gli spasmi di un malato che, come diceva Dante: “non può trovar posa in su le piume,/ma con dar volta suo dolore scherma”. Questi mesi hanno fatto emergere una volta di più la terribile fragilità e precarietà del teatro italiano, instabilità di certo non causata dal Covid, ma presente nell’ossatura del sistema da decenni. La mancanza di una storicizzazione della ricerca italiana nel corso degli ultimi quarant’anni è sotto gli occhi di tutti. Quanti gruppi sono sopravvissuti dagli anni ’90? e dai 2000? quanti sono diventati dei “maestri” tanto da passare la loro esperienza alle più giovani generazioni favorendo quel lavoro di bottega tanto necessario al teatro? E il metodo invalso da anni degli under 35 non ha favorito proprio l’elezione prima e decapitazione poi di molti artisti giunti alla fatidica data? Come può esserci vera vitalità in un tale contesto di spaesamento e di contrasto generazionale? Non è che la vitalità nasconda invece le poche, insufficienti e macchinose tecniche di rianimazione messe in campo? E il pubblico come rientra in questa equazione? Cosa stiamo condividendo con coloro che chiamiamo in teatro?

Queste le molte domande sollevate dalla Biennale Teatro a cui ci troviamo a dover dare risposta in tempi brevi prima che l’incertezza e instabilità recati in dono dalla presente pandemia non renda i problemi insolubili.

Veniamo ora alle opere visionate durante le giornate veneziane che, tra luci e ombre, hanno saputo darci un’immagine, seppur parziale, del nostro teatro attuale.

Liv Ferracchiati La tragedia è finita Platonov La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Innanzitutto Liv Ferracchiati con il suo La tragedia è finita, Platonov (menzione speciale Biennale 2020) dove un giovane autore, regista e interprete ha saputo dar prova di una sua raggiunta maturità. Il confronto con il grande incompiuto di Anton Cechov si sviluppa attraverso un sottile e ironico confronto a prima vista metateatrale, tra il lettore e i personaggi. In realtà in gioco c’è il contraddittorio tra il proprio presente e il contesto passato evocato dalla vicenda di Platonov, in cui aleggia la domanda: come abbiamo potuto disperderci? Dove sono finite le nostre potenzialità? Così il destino di Platonov diventa non solo del lettore, o di Amleto, ma il nostro, di persone divorate dall’incapacità di agire in maniera veramente efficace, che si disseminano come stille d’acqua in arido terreno. Il testo elaborato da e per la scena da Liv Ferracchiati è poetico, ironico con venature tragiche e melanconiche, e si nutre e partecipa dell’abbondanza dell’originale cechoviano e necessiterebbe forse di un leggero ridimensionamento. Più incerta seppur nella solidità dell’impianto e solo in confronto alla dirompente forza drammaturgica, la resa scenica, dove il movimento, lo spazio e il tempo, così come il corpo attorico sono a volte compresse dalla sovrabbondante presenza della parola (notevole comunque la scena delle donne di carta, così come efficace il duello finale tra Platonov e il lettore). Ferracchiati è ora un artista maturo, con un chiaro progetto di scena e un solido impianto concettuale tale da far emergere con adamantina limpidezza le intenzioni del suo teatro arguto e intelligente.

Prova di maturità anche per Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder. Ortoleva dopo Oh, little man, e il Saul al debutto in Biennale Teatro proprio l’anno scorso, porta sul palco del Teatro Piccolo Arsenale una regia di grande respiro, che ricorda non solo lo stesso Latella ma un’Ostermeier prima maniera, e capace di far trasparire la poesia violentemente tenera dell’autore tedesco attraverso una recitazione che oscilla tra teatro epico e intimismo mimetico. Questo movimento di entrata e uscita dal mondo perverso evocato dal testo di Fassbinder, avviene con leggerezza, senza forzature, utilizzando tutti i registri della scena. I costumi pop e vintage, le musiche sempre segno e mai semplice tappeto sonoro (dal Lacrymosa del Requiem verdiano, ai corali di Hendel, alla musica elettronica), le luci a disegnare un paesaggio di forti contrasti emotivi, la presenza di attori capaci di dar corpo, con economia di gesti, alle potenti forze telluriche che abitano le parole e la vicenda. Giovanni Ortoleva è ora, nonostante la sua giovane età, un autore di comprovata solidità e maturità, pronto ad affrontare le prossime prove con autorevolezza, soprattutto se aiutato da un sistema che non sfrutti ma esalti le sue ormai chiare potenzialità.

Babilonia Teatri con Natura Morta prova a mettere in questione il travaso della nostra esperienza dalla realtà al virtuale del cellulare con un’opera che si svolge nella quasi totalità nel chiuso di un gruppo What’s up. I messaggi e le questioni che portano bersagliano il pubblico con violenza, costringendolo a farne i conti in uno spazio privo di illuminazione con l’eccezione delle luci degli smart phone. Un problema tecnico di rete ha interrotto lungamente l’esecuzione del processo. La risoluzione del disguido porta all’apertura della chat invasa ora anche dalle risposte del pubblico, a volte ironiche più spesso infastidite e subito censurate. Il progetto, per quanto chiare ne siano le intenzioni di interpellazione politica e civile su questioni scottanti, appare però un poco pretenzioso, chiuso nella sua volontà assertiva e moralistica. È come se da parte degli autori vi sia la certezza di essere dalla parte giusta della barricata. Inoltre per quanto chiaramente si metta in discussione la dipendenza da virtuale ormai acquisita, il progetto rimane ingabbiato proprio dall’incapacità di porci nella possibilità di reagire, di creare un vero dialogo, e il pubblico rimane così costretto nella parte del ricevente passivo.

Leonardo LidiLa città morta La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Passo indietro per Leonardo Lidi al confronta con un riadattamento di testo dimenticato di Gabriele D’Annunzio, La città morta. Il pubblico si trova di fronte a una gradinata da stadio americano in un’atmosfera alla Greese. Per quanto si comprenda chiaramente la volontà di calare l’opera in un mondo defunto e trapassato, la scelta appare un poco stucchevole più che veramente significante. L’impianto registico è quanto mai tradizionale, dove le trovate sceniche si ispirano a un pop trito e ampiamente sfruttato che ricorda molto la “locura” tanto ben descritta dalla serie Boris: conservatorismo con un poco di pazzia. Ci si aspettava di più da un ragazzo che con Gli spettri e Lo zoo di vetro aveva pur dato prova di una complessità compositiva di maggior respiro.

Leonardo Manzan con Glory Wall (Premio miglior spettacolo Biennale 2020) prova a giocare con il tema della censura proposto dalla Biennale Teatro mettendolo in discussione. Ci si trova davanti a un invalicabile muro bianco, pagina su cui inizia il discorso si di esso proiettato: se lo spettacolo fosse veramente sulla censura, essa dovrebbe intervenire e proibirlo, visto che non succede è un controsenso parlare di censura; ma perché poi dovrebbe intervenire la censura visto che del teatro non importa niente a nessuno? Il muro diventa quindi un’autocensura, ma anche strumento di piacere (da qui il riferimento alla pratica sessuale), poi lapide su cui grandi censurati come Pier Paolo Pasolini, De Sade e Giordano Bruno discutono sul tema con le voci di persone tra il pubblico. Così di numero in numero si arriva all’intervista finale in cui l’artista cerca di radicalizzare la messa in questione del sistema teatro. Benché l’ironia del lavoro e molte trovate siano efficaci, questo gioco di critica appare di maniera, leggermente ruffiano, più strappa applausi che vera interpellazione su un tema di politica culturale. Soprattutto riprende operazioni simili già attuate nel passato (per esempio da Cattelan) ma con altra efficacia. Se è infatti vero che gran parte del teatro ha perso presa ed effetto sulla realtà, è anche vero che dirlo dal palco della Biennale, senza provare ad attuare una vera azione di contro tendenza generale, restando in posizione di scherzosa critica, appare ancora meno energico e utile. È un gesto che sa di rinuncia più che di ribellione.

Leonardo Manzan Glory Wall La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Luci ed ombre quindi in questi debutti alla Biennale Teatro. In alcuni casi forse sarebbe stato più saggio presentarli come studi, produzioni provvisorie, processi in fieri, piuttosto che lavori chiusi e finiti. Questo vale per molti ma soprattutto per Fabiana Iacozzilli (Una cosa enorme), il cui lavoro sembra risentire di due temi distinti e non ben amalgamati, la paura della maternità e la cura dell’anziano incapace di badare a se stesso, così come per Babilonia il cui processo di relazione con il pubblico avrebbe forse bisogno di ulteriori indagini e aggiustamenti. Molti di questi lavori poi avranno sicuramente e purtroppo problemi ad essere distribuiti, con il Covid a complicare ulteriormente il panorama. L’intento di sostenere il teatro italiano passa anche attraverso la creazione delle condizioni per la circuitazione e il sostegno del futuro dei progetti. Farli venire al mondo non basta. La vitalità, sempre che ci sia, va coltivata se no si inaridisce e presto muore.

Liv Ferracchiati

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A LIV FERRACCHIATI

Per la quindicesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Liv Ferracchiati. Anche con lui affrontiamo le questioni che concernono creazione scenica, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena. Il viaggio che ci siamo proposti all’inizio di questo ciclo di interviste era scoprire la ricchezza di pensiero degli artisti che oggi lavorano e creano in un contesto estremamente complesso, e volevamo anche provare a ragionare con loro alla ricerca di soluzioni possibili.

Liv Ferracchiati ha fondato la Compagnia The Baby Walk, e i suoi lavori hanno riscontrato negli ultimi anni un grande consenso, tanto che sono stati ospitati dai principali teatri e festival nazionali. Vincitore del Premio Scenario 2017 ha portato sulle scene la Trilogia dell’identità di cui fanno parte Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia. Il suo ultimo lavoro è Commedia con schianto. Struttura di un fallimento tragico. In preparazione una versione di Platonov eLa morte a Venezia

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Per me non esiste una peculiarità della creazione scenica. Il teatro è un’arte impura e questa è la sua potenza e la sua libertà.

Quando però inizi un processo creativo, lo fai sapendo che il tuo lavoro si completerà, oltre grazie al filtro degli interpreti, in relazione allo spettatore. Devi sapere in quali spazi andrai, perché lo spazio cambia la prossimità con il pubblico, con uno spettatore che è lì in quel momento e che, oggi, ha in più la via di fuga del cellulare. Non si lotta più solo per l’attenzione, contro la noia (non sempre voluta), si lotta contro la dipendenza dalla tecnologia, contro la velocità. Per il resto, la diatriba è una questione di gusto. Un contrasto di sensibilità o un incontro elettivo tra l’evento scenico e il teatro interiore di ognuno.

Si potrebbe parlare di efficacia e per essere efficace la creazione scenica dev’essere organica, deve quindi contenere un utilizzo di spazio, luce, suono, voce, corpo e di altri mezzi rivolti alla percezione, in modo che il pubblico possa fare da specchio riflettente e rimandare un’energia sul palco. Una peculiarità della creazione scenica consiste nel suo essere un gioco tra palco e sala, come una partita di tennis, dove però vince il palleggio.

Insomma, è la forma a far fluire il linguaggio dell’opera ed è il lavoro sulla previsione della percezione a determinarne l’efficacia.

Bisogna sentire il ritmo della scena, il tempo della luce e lo spazio che occupa il suono.

Una luce che va via un secondo prima anziché un secondo dopo può determinare la cattiva riuscita di una scena, un volume troppo alto o troppo basso mancare un effetto, una frase detta meccanicamente perché magari l’attore è agitato può far saltare il testo, eppure queste cose succedono, perché il teatro è un’arte in azione: è uno spettacolo dal vivo, come si sa. Anche per questo è un’arte impura. Guardo con qualche diffidenza alle discussioni su cosa sia o non sia “teatro”, perché, seppure utili a uno scambio di idee, in sostanza, le sento velleitarie.

Non mi piacciono nemmeno tanto i commenti dopo uno spettacolo, positivi o negativi, di solito dopo gli spettacoli degli altri scappo, dopo i miei esco due ore dopo. Perché come spettatore ho fatto parte di un processo e non posso parlare di quel che ho visto come se ne fossi estraneo, anche se non mi è piaciuto. Sono stato lì e con la mia energia ho concorso a renderlo più bello o più brutto. Da autore rispetto quel momento negli altri e non li voglio costringere al commento-bon ton.

Insomma, la storia si ripete di continuo: c’è sempre una linea più accademica che si scontra contro una linea più rivoluzionaria, si discute, poi passa del tempo, ci si abitua e siamo di nuovo da capo.

Teatro può essere tutto, dipende dall’intuizione che hai e da quanto sei abile a tradurla.

La peculiarità della scena, o dell’arte in senso più ampio, è essere aderenti al proprio sentire, non aver paura di non piacere, anzi, allarmarsi quando si piace a troppi.

Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che proprio questa frammentazione dispersiva di proposte costituisca un problema. Spesso ci si trova di fronte a molte realtà che magari hanno un budget troppo modesto da offrire a una compagnia o a un artista, del tutto insufficiente a coprire l’operato delle persone coinvolte nel progetto. Come se il teatro non fosse un lavoro. Non è un lavoro comune, credo, ma è un lavoro che ha bisogno di essere retribuito adeguatamente, come ogni altro. Se offro un’opportunità di studio per un progetto sto offrendo un lavoro, quindi devo avere risorse adeguate per paga, vitto, alloggio, rimborsi, ecc. ecc. Insomma, bisogna tenere ben presente che lo studio, la progettazione, la creatività scenica sono lavoro e come tale, vanno retribuiti, sempre.  Spesso, i teatranti sono i primi a rinunciare a questo principio. Se, per esempio, qualcuno offre una possibilità non retribuita bisognerebbe avere il coraggio di dire di no e di far saltare il progetto, per cercare realtà più virtuose.

Fare questo può significare tagliarsi fuori da questa sorta di mercato?

Già, ma lavorare gratis non equivale a tagliarsi fuori comunque? Non significa accettare che un mestiere complesso sia trattato alla stregua di un passatempo?

Esistono realtà virtuose, però. Nel mio piccolo ho avuto la fortuna di incontrarne e vorrei citare, ad esempio, il mio rapporto con il Teatro Stabile dell’Umbria che mi ha dato la possibilità, non solo di scegliere liberamente i miei progetti, ma anche di svilupparli secondo le mie modalità di lavoro. Quello che insomma dovrebbe fare ogni produzione che si confronta con un artista, ognuno diverso dagli altri e con esigenze diverse dagli altri.

Esistono poi rassegne importanti, come la Biennale Teatro, diretta Antonio Latella, che non ha esitato a dare visibilità ad artisti e compagnie di nicchia, come ad esempio la mia The Baby Walk. Insomma, io sono stato fortunato, ma questo significa che delle opportunità valide esistono.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Vorrei chiederti di più su “i metodi fai da te”, mi interesserebbe approfondire.

Che dire?

Bisognerebbe andare al Ministero della Cultura a porre queste domande.

O bisognerebbe distruggere le logiche di potere, certo, ma come si potrebbe fare? Peraltro, in quanti altri ambiti della vita nazionale sarebbe necessario farlo? Potrebbe servire mettere alla direzione dei teatri di produzione, pubblici e privati, persone esperte e appassionate, capaci di leggere la scena contemporanea, mentre spesso le nomine sono dettate da convenienze politiche o di altro genere. Anche questa è una consuetudine di tanti altri settori, però. Francamente, non credo di poter trovare risposte congrue e risolutive alla tua domanda, il mio mestiere non è la Politica.

Potrei semmai individuare qualche altro ostacolo a un buon funzionamento dell’organizzazione teatrale. Per esempio, se la distribuzione è di fatto un problema serio, endemico al sistema teatrale italiano, la lunga tenitura di una produzione in un teatro è un problema ancor più ingombrante. Così, una volta superata la difficoltà di mettere insieme il budget necessario per una produzione fino ad alzata di sipario, è noto che, anche facendo il tutto esaurito ogni giorno, l’incasso del teatro mai arriverebbe a coprire il foglio paga della compagnia durante le recite, perché sul costo del lavoro di maestranze e artisti, a fronte di paghe nette, in media, appena sufficienti, incidono i pesanti oneri aziendali. Oltre al foglio paga, restano sempre da coprire le spese di esercizio. D’altra parte, c’è il sistema degli abbonamenti, che tiene in piedi le sale teatrali ma obbliga a offrire sempre più titoli in cartellone, con teniture sempre più brevi, e questo costituisce un concreto ostacolo alla permanenza di un solo spettacolo in scena.

Ecco due aspetti del nostro sistema teatrale che, da anni, hanno ridotto la Prosa a una presenza intermittente di proposte, troppo spesso, disparate tra loro e hanno contribuito a un rapporto più freddo e disimpegnato con il pubblico teatrale. Una situazione che pone gravi limiti alla crescita del lavoro degli interpreti, nonché alla formazione di nuove leve, sia di artisti, sia di tecnici. Insomma, da autore e regista, so che gli spettacoli dovrebbero restare in scena a lungo e senza interruzioni, perché solo le teniture fanno crescere gli spettacoli.

Utopia?

Sì, forse, nel nostro Paese, carico di questioni sociali irrisolte, afflitto da una burocrazia ingombrante e compromessa, gravato da disfunzioni economiche e finanziarie, potrebbe sembrare un’utopia, ma in in un mondo normale sarebbe una pratica consolidata.

Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La scena è più lenta del sistema di immagini veloci che, come si dice, “scrolliamo” sul cellulare o che passiamo in rassegna aprendo il computer.

In più, il teatro richiede uno sforzo di volontà: staccare gli occhi da uno schermo e uscire.

Sento che siamo sempre più dipendenti da qualcosa che ci ipnotizza e ci toglie la possibilità di pensare, forse di muoverci. Il teatro, allora, deve contrapporsi a questo, usando qualsiasi linguaggio, non importa se con l’imitazione del vero o con l’artificio più grottesco. Credo sia importante che le idee tornino ad essere il nucleo centrale della creazione.

Ecco: utilizzare la scena per rimettere al centro di ogni lavoro le idee.

Non ho in mente un teatro a tesi o conferme a canoni accademici, parlo proprio di idee nella loro forma più libera. Bisogna tornare a chiedersi con forza: di cosa voglio parlare? Cosa per me è urgente dire adesso?

Spesso si prende in giro la parola “urgenza”, forse perché abusata, per me invece è una parola necessaria.

Il nostro lavoro non si può fare senza un motore, lasciandosi attrarre dall’esserci o lasciandosi andare alla routine, bisogna che siamo mossi da qualcosa.

Un’idea mi sembra sufficiente, purché sia forte.

Del resto, la stessa spinta serve a chiunque per vivere e conosco tante persone, impegnate in ambiti diversi, che mettono molta passione nel loro lavoro e sono mosse da idee.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo sia impossibile prescindere dal reale, quello che ci accade intorno influisce su ciò che sentiamo, ci forma, ci rende più o meno sensibili, più o meno intelligenti.

Anche una forma astratta, un racconto surreale saranno determinati dal rapporto con ciò che è considerato reale, se non altro per il gioco del paragone.

Per me, il lavoro creativo è prima di tutto un’indagine su chi è l’essere umano, una ricerca che mi serve a comprendere le mie azioni e quelle di chi mi sta intorno.

Gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso, come ho detto nella prima risposta, possono cambiare di volta in volta. Vorrei chiudere così il cerchio della riflessione che tu hai stimolato: il linguaggio può cambiare continuamente, al centro bisogna riportare l’idea.

Liv Ferracchiati

LIV FERRACCHIATI: LA TRILOGIA DELL’IDENTITÀ

Si apre con la Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati il Festival delle Colline Torinesi nella sua ventitreesima edizione dedicata al tema del viaggio in tutte le sue declinazioni. Una piccola maratona di tre spettacoli Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat mater e Un eschimese in Amazzonia vincitore del Premio Scenario 2017.

Liv Ferracchiati è un’artista di sicuro interesse e grande personalità che tratta un tema scottante, l’identità e la diversità di genere, e che pone allo spettatore molte domande scomode.

Interrogativi che vengono posti per mezzo del teatro attraverso un privato che diviene pubblico e quindi azione politica, soprattutto nell’ultimo capitolo, Un eschimese in Amazzonia, dove palese è l’opposizione eschimese/società entrambi imprigionati nella stessa gabbia del luogo comune.

Lo spettatore è sempre chiamato in causa, deve interrogarsi, mettere in discussione le sue certezze e le sue opinioni in merito. Non si può rimanere indifferenti. Il pensiero sulle questioni affrontate ti accompagna a casa, ti tormenta e arrovella, resta lì conficcato nel pensiero e nell’animo come un prurito che non dà requie. In un certo qual modo la modalità è simile, seppur in maniera personale e diversa, a quella di Babilonia Teatri: si mette sotto assedio il pubblico nelle sue certezze.

Liv Ferracchiati presenta il suo teatro eminentemente attraverso la sua drammaturgia. Efficace nell’impiego di mezzi semplici, a volte rudi, – esplicito lessico sessuale, gergo volgare, perfino bestemmie -, a volte commoventi, teneri, delicati (soprattutto nel primo capitolo della Trilogia, Peter Pan guarda sotto le gonne, dove il dramma della scoperta di una difficile identità sessuale avviene in età adolescenziale).

Il linguaggio della drammaturgia di Liv Ferracchiati è diretto, senza mezzi termini. Non si usano giri di parole per dire quello che urge, senza scendere nel comizio, nella tribuna. L’ironia è sempre presente, ed è graffiante, stimolante, strumento del disincanto e, come dice Massimiliano Civica, anche forma propria del pessimismo che ride, o semplicemente sorride, in faccia all’orrore.

Il teatro di Liv Ferracchiati è dunque efficace, raggiunge l’orecchio e il cuore del pubblico, toccandolo e scuotendolo, a volte percuotendolo, e sull’altare dell’efficacia si sacrifica la complessità della forma registica, che resta sempre ancorata alla semplicità dei mezzi compositivi ed espressivi.

Per esempio: in Un eschimese in Amazzonia, l’azione si riduce alla contrapposizione coro/eschimese, dove il coro/società è sempre unisono, martellante nelle sue interrogazioni, vincolato al cliché di una maggioranza colma di pregiudizi e che nell’ossessione del ribadire sancisce la sua mancanza di dubbio, grimaldello dell’incertezza di un giudizio che si vuole inappellabile e immodificabile, e l’eschimese anche lui obbligato a ribadire la sua diversità ma è preso al laccio del vaniloquio colmo di luoghi comuni e di citazioni di parole altrui.

Uno contro i molti, entrambi accomunati dalle modalità di ingaggio.

Oppure nel loop, eterno ritorno dell’eguale, dello stesso schema di scene in Stabat Mater dove al pensiero del protagonista segue dialogo di coppia, telefonata della madre onnipresente in video, dialogo con la psicologa per ripartire come un disco rotto sebbene all’indietro nel tempo nel rapporto di coppia, in avanti, nel caso degli incontri con la psicologa.

La semplicità dei mezzi dunque veicola un tema scomodo, l’identità di genere che va al di là dell’opposizione omosessuale/eterosessuale, da molti strati della società rifiutato come un abominio. Il convivere di due nature in uno stesso soggetto inquieta perché mette in discussione l’identità sono solo del transgender ma anche del soggetto “normale e normato”. Ciò che l’occhio vede e le mente, tramite l’esperienza, percepisce divergono e irreparabilmente creano una perturbante anomalia.

Il corpo di donna che appare nei sembianti e nei comportamenti un uomo e viceversa non è contemplabile serenamente. Crea reazioni violente, divide coscienze e opinioni. Liv Ferracchiati riesce, tramite il suo linguaggio scenico a volte semplice fino al basico, a accogliere lo spettatore, lo mette a suo agio seppur pungolandolo con domande a cui non vorrebbe rispondere.

Liv Ferracchiati riduce i mezzi scenici all’essenziale, quasi uno scheletro. Niente orpelli, niente complessità né raffinatezze registiche, scene ridotte al minimo, linguaggio attorico semplice, quasi comune, per ridurre la distanza che separa la scena dal pubblico. È un farsi incontro, un tendere la mano, benché non retroceda di un passo dal dire quello che sente di dover dire.

Certo questa semplicità può risultare urtante. Per me, lo confesso, lo è stato. Ho dovuto combattere con la mia personale predilezione verso un teatro che canta con il corpo, il movimento, lo spazio e il tempo, al di là della parola e della letteratura. E in questo combattimento, doloroso e cruento come quello di Giacobbe con l’angelo, ho afferrato l’utilità di questa modalità che raggiunge ogni cuore nonostante lo spinoso argomento.

Ricordo André Marcowitz, traduttore straordinario, incontrato a La Fonderie del Theatre du Radeau, che spiegandomi come riusciva a tradurre La Divina Commedia di Dante senza sapere l’italiano, mi rispose che forzava il francese a suonare come l’italiano. Se incontri il Buddha, uccidilo! Se il supporto ti impedisce di raggiungere l’illuminazione, brucialo e distruggilo. E quindi se il teatro ti è d’ostacolo, semplificalo e riducilo. Se questo crea un punto di contatto e di incontro tra scena e comunità, se crea il legame per una riflessione che superi o digerisca il contrasto o la supposta anomalia, il teatro ha vinto. Credo che, in fondo, Liv Ferracchiati abbia ottenuto quello che desiderava.

Per le recensioni degli spettacoli confronta:

STABAT MATER di Livia Ferracchiati

PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE di Livia Ferracchiati

Festival delle Colline Torinesi

ONDE MIGRANTI E NUOVA DRAMMATURGIA: presentata la 23ma edizione del Festival delle Colline Torinesi

Giovedì 26 aprile è stata presentata alla Fondazione Merz in Torino la nuova edizione del Festival delle Colline Torinesi. Ventitré spettacoli e otto prime nazionali nel programma che si incentra sulla figura del viaggio in tutte le sue declinazioni: come migrazione, come ricerca dell’identità sessuale e non, come memoria.

Non mi dilungherò troppo sul programma che si può consultare sul sito del Festival delle Colline Torinesi a questo link http://www.festivaldellecolline.it/edizione/edition

Cercherò invece di fare alcune considerazioni sulle linee di programmazione e di direzione artistica partendo dal presupposto che un libro non si giudica dalla copertina.

Molti i nomi di prestigio, alcuni per la prima volta a Torino come Milo Rau e Agrupación Senor Serrano, Liv Ferracchiati, Blitz Theatre Group; altri ritornano come Amir Reza Koohestani, Romeo Castellucci, Silvia Costa, Licia Lanera, Cuocolo e Bosetti. Presenti alcuni degli ultimi premi Ubu come Macbettu di Michele Serra, e la Compagnia Dammacco con Serena Balivo, migliore attrice under 35.

Un programma che tiene presenti alcune delle migliori proposte nel panorama nazionale e internazionale e che riflette alcuni dei punti di forza e le caratteristiche del Festival delle Colline Torinesi: una visione delle arti sceniche sul confine di tradizione/innovazione, una solidità di programmazione che punta su una qualità certificata senza prendersi grossi rischi (i giovani artisti e gli ospiti internazionali presenti sono tutti stati premiati e riconosciuti e hanno tutti beneficiato di un’abbondante distribuzione sul circuito nazionale e internazionale), un forte appoggio istituzionale.

Tutti questi aspetti non sono necessariamente difetti e neppure pregi al di là di ogni ragionevole dubbio. Sono scelte che fanno un’identità di direzione artistica. Non sempre nei grandi festival questo è visibile. Molto spesso per accontentare ogni tipo di pubblico si sceglie di tutto un po’, mentre il Festival delle Colline Torinesi afferma una propria identità e va avanti per la propria strada che affianca qualche contaminazione (teatro circo, danza, e multimedia) a una decisa preferenza per il teatro di parola e di testo.

Certo dato il prestigio sarebbe auspicabile un maggiore impegno nella ricerca di sconosciuti di valore, (e ce ne sono) favorendone il lancio ma forse questo potrà avvenire con la nuova partnership avviata con la Fondazione Teatro Piemonte Europa (TPE) diretto da Walter Malosti. Tra i due enti si inaugura un triennio di programmazione condivisa allo scopo di produrre nuovi lavori per la creazione di un nuovo polo del contemporaneo. Attenzione particolare dedicata alla formazione di una nuova drammaturgia e alla produzione di giovani di talento.

Il progetto è ambizioso e interessante ma presenta sulla carta delle criticità: da una parte manca apparentemente un’attenzione verso l’altro aspetto decisamente insufficiente nella filiera italiana ossia la distribuzione, dall’altro i tentativi di creare nuove drammaturgie spesso falliscono perché non basta creare delle condizioni occorre che ci siano le esigenze e le urgenze.

Mi spiego meglio. Produrre un lavoro è sicuramente azione meritoria in un panorama desolante ma senza creare le condizioni per un’efficace distribuzioni si rischia di creare le solite cattedrali nel deserto. Affiancare alla produzione la creazione di efficaci canali distributivi dovrebbe andare di pari passo. Non dico che manchino dei passi in tal senso ma mi pare che questo aspetto sia caduto in secondo piano.

Per quanto riguarda la creazione di una nouvelle vague (per riprendere il tema del festival Fluctus, onda in latino) drammaturgica occorre non solo crearne i presupposti ma che da parte degli artisti si manifesti una volontà e un’urgenza in tal senso e in questo non sono sicuro che il teatro oggi necessiti di una drammaturgia letteraria quanto di riformulare degli stilemi di drammaturgia della scena e che privilegi le specificità del teatro così come è uscito dalle sperimentazioni del Novecento.

Oggi il miglior teatro apparso nel panorama europeo non crea drammaturgie a partire da un testo preesistente ma ne costruisce una che parte dalla scena stessa, dalle sue ibridazioni con altri linguaggi, e che si palesa come una vera e propria forma di composizione sinfonica.

Ripeto non si giudica un libro dalla copertina, né un uomo dal suo aspetto esteriore, mi limito a indicare dei possibili punti di debolezza non per sciocca voglia di trovare il difetto a tutti i costi ma come stimolo. Nell’indicare le criticità come sguardo esterno, ruolo che trovo sia proprio della critica, si può anticiparle e prevenirle. La discussione poi su questi temi non è mai abbastanza, e il dialogo tra artisti, direttori, critici e operatori può essere solo fruttuoso perché movimenta lo scambio di idee e di posizioni impedendo la stagnazione che sempre avviene nel consenso unanime.

Come chiusa di questa breve riflessione mi limiterò a segnalare alcuni degli spettacoli secondo me imperdibili nel programma del Festival delle Colline Torinesi. Innanzitutto Milo Rau, artista che seguo da prima che apparisse in Italia e ritengo sia uno dei più dirompenti talenti mondiali teso sempre ad affrontare il reale e la storia e a sondare il limite di cosa possa o meno essere tollerato sulla scena. A Torino viene con Empire opera che tratta il tema della migrazione forzata dalla violenza degli eventi storici.

Segnalo anche Liv Ferracchiati con la Trilogia dell’identità che ho seguito insieme a Nicola Candreva l’anno scorso tra Santarcangelo, nell’ultima edizione del Premio Scenario, e la Biennale di Venezia. Una/un giovane interessante, molto maturo/a e formato/a anche se contiene ancora qualche germoglio acerbo che va curato affinché giunga a completa fioritura.

Agrupación Senor Serrano e Blitz Theatre Group, sono due gruppi che attuano dinamiche e strategie di intervento davvero dirompenti capaci di mettere il dito nella piaga nelle ipocrisie del nostro tempo. Il gruppo catalano, con grande ironia, ha millantato l’assunta direzione del Teatro Nacional de Catalunya, mettendo con il loro annuncio in luce la mancanza di sostegno a una vera innovazione nelle arti sceniche nella loro regione (ma il discorso andrebbe benissimo anche per la situazione italiana). Il gruppo greco ha modalità di creazione condivisa e una decisa volontà di esplorare la realtà tramite un teatro che prima di tutto è incontro/scontro con la società.

Una certa curiosità, e questo benché non sia un suo ammiratore, mi suscita il progetto di Licia Lanera su Roberto Zucco di Koltes con gli allievi della scuola del Teatro Stabile di Torino. Roberto Zucco è un testo violento, forte, estremamente poetico che indaga la vita del serial killer italiano che saltò agli albori della cronaca alla fine degli anni ’80. Un testo che ho amato molto fin da quando lo vidi per la prima volta alla Biennale del 1995 alle Corderie dell’Arsenale per la regia di Luis Pasqual.

Da ultimo ovviamente Macbettu di Michele Serra vincitore del Primio Ubu come miglior spettacolo 2017.

Non resta dunque che ritrovarsi il 1 giugno per iniziare le visione di questa 23ma edizione del Festival delle Colline Torinesi e incontrare direttamente gli artisti e le opere che, in fondo, sono il vero scheletro portante di ogni manifestazione dedicata al teatro.