La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco presentata in questi giorni al Festival delle Colline Torinesi è l’ultimo capitolo de La Trilogia della fine del mondo i cui primi capitoli sono L’inferno e la fanciulla ed Esilio.
Serena Balivo interpreta una donna sola, che ha deciso di non avere figli, e a cui piace la sua solitudine. Improvvisamente la sorella muore e deve occuparsi del nipote, ultimo rampollo ed erede della famiglia.
Come fare? Ma soprattutto: è possibile veramente influenzare, impostare, indirizzare o perfino coltivare la vita di un altro? Questa la domanda che viene riformulata di continuo, come un rovello, un tarlo instancabile, per tutto lo spettacolo.
In questo salotto retrò ingombro di oggetti che richiamano un lontano passato, la donna, vestita anch’essa con abiti d’altri tempi, severa e un po’ polverosa, riflette ossessivamente sul suo ruolo rispetto al giovane nipote che non la capisce. Nemmeno lei comprende il linguaggio costituito di soli verbi all’infinito del ragazzo, e cereto non i suoi sogni e i suoi desideri.
Il conflitto è però espulso dalla scena. Lo indaghiamo da un’unica fonte, ironico e perdente unico verso di una medaglia che comunque ha due facce. La scena è ingombra di ciò che pertiene a chi è sconfitto dal nuovo che è assente, fantasma anch’esso come il più lontano passato.
Il salotto, affollato di manichini, i fantasmi dei familiari che ossessionano le notti della donna, diventa come una sorta di ultimo rifugio, unico luogo dove far correre i pensieri e provare a mettere un argine all’incomprensione. Un’ultima e inutile fortezza vuota. Il ragazzo ha deciso di vivere altrove, correre altri lidi. Non lo vediamo mai ed è significativo.
Brava ed efficace Serena Balivo. Il tono ironico, leggermente surreale, con cui viene affrescata la vita in comune della donna e del ragazzo, due mondi che convivono ma non si capiscono, sgrava l’atmosfera di cupezza e oppressione. L’ironia salva una storia che non ha fine o conclusione. Potrebbe ripetersi all’infinito. Le generazioni si susseguono senza capirsi e non si capiranno mai perché abitano due presenti contrapposti, quello che sta lasciando il passo e quello che si sta affermando. Il ragazzo rifiuta infatti la tutela della zia.
Una generazione già resa polverosa da valori sorpassati che fallisce il confronto con quella più nuova e già incomprensibile forse perché troppo vacua, o forse solo più cinica e pragmatica. Sembra che tra zia e nipote vi siano secoli di distanza anche se probabilmente non si parla che di due decadi.
La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco è uno spettacolo che presenta in sé alcune contraddizioni mascherate da una grande giovane attrice, ed è in qualche modo è paradigmatico. Spicca su tutto l’ottima recitazione di Serena Balivo, che riesce sempre a rendere le sfumature più difficili di un interpretazione complessa, e a costruire un bel melange di ironia e commozione, surrealtà e verità.
Suggestivo anche l’allestimento anche se per molta parte del lavoro nient’altro che decoro: sia gli oggetti polverosi e pesanti di un passato che resta l’unico segno, sia i manichini immobili, folla di fantasmi, di un passato ancora più lontano e incomprensibile, che avrebbero potuto essere qualcosa di più.
Ma La buona educazione è in qualche modo uno spettacolo che contiene in sé alcuni dei paradigmi del nuovo teatro italiano. Modelli che potrebbero essere visti sia come vizi di forma, che salutati come un felice ritorno di qualcosa che in fondo conosciamo bene. Non è il giudizio che qui ci interessa, quanto determinare se esistano dei vettori e cosa portino in dono.
Il mio è un invito alla riflessione sull’estrema semplificazione del linguaggio scenico in cui quasi scompare la regia, o comunque si riduce ai minimi termini, al fine di far passare un messaggio quasi esclusivamente affidato alla parola. Con il termine semplificazione non intendo qualcosa di buono o di cattivo, di giusto o di sbagliato. Non ha l’accezione di superficialità o di facilità. Intendo più un processo di scarnificazione e intendo soprattutto evidenziare un fenomeno.
Quello che vedo negli ultimi tempi non è tento una scena intesa come insieme dei plurimi segnali significanti provenienti da corpo, movimento, spazio e tempo, luce e suono, e che vanno trattati come singoli strumenti di un’orchestra e quindi messi in relazione tramite un processo di composizione, quanto un asservirsi di questi al messaggio contenuto in un testo come se solo la parola potesse raggiungere il cuore del pubblico.
È un ritorno prepotente della rappresentazione, in quanto messa in scena di un testo che preesiste. La vecchia generazione che fece di tutto per uscire o andare al di là della rappresentazione sembra che parli una lingua sconosciuta e incomprensibile.
E così si assiste a spettacoli, non necessariamente fallimentari, – La Buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco non è uno lavoro mal riuscito o mal concepito, tutt’altro! -, ma impostati sull’unico cardine della parola cui gli altri elementi servono più che altro da corredo rafforzativo di un unico segnale.
Laddove in molta parte d’Europa si sviluppa e si sperimenta un’arte della composizione scenica dove i linguaggi diventano parte di un insieme che concorre a costruire un segnale intenso e composito anche quando si confronta con un testo, nei lavori di molti artisti italiani si assiste a una riduzione all’uno.
Non faccio in questo discorso nessun riferimento al passato perché il teatro vive solo il presente. Per quanto si porti dietro un retaggio si confronta sempre e solo con il tempo in cui vive perché reagisce alle condizioni del hic et nunc in cui si manifesta.
Anche quando si assiste a spettacoli apparentemente multimediali è la parola che fa da direttore d’orchestra. L’abbiamo visto, per limitarsi solo a questa edizione del Festival delle Colline Torinesi, nella Trilogia dell’Identità di Liv Ferracchiati, così come in Ritratto di donna Araba che guarda il mare di LAB121 con il testo di Carnevali e lo riscontriamo anche ne La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco, ovviamente con esiti, gradazioni e intensità diverse.
È come se la parola fosse un porto sicuro per raggiungere la comprensibilità e il maggior numero di persone possibile ottenendo il maggior impatto possibile. E non è esclusivamente una questione di mezzi è qualcosa di più profondo. È la ricerca spasmodica di un’efficacia a volte per mezzo della tecnica a volte al di là di essa. È come se la parola in qualche modo proteggesse da un fallimento, quest’ultimo elemento di fatto necessario a ogni ricerca.
Sembra che manchi una visione della funzione del teatro, che in qualche modo si rinunci a indagarne le possibilità: si segue un sentiero di sicura efficacia, si lascia per il momento da parte la ricerca di cosa si possa raggiungere veramente tramite il teatro oggi se si utilizzasse efficacemente il suo linguaggio plurimo, in cui la parola è solo uno degli elementi a disposizione.
È un fenomeno che andrebbe indagato con maggior attenzione e non nello spazio di un articolo. Anzi spero che queste poche righe portino altri a dire la loro sull’argomento, che si possa riflettere insieme, artisti, critici e pubblico. E credo sia giusto sollevare la questione proprio in seguito a un lavoro nel complesso solido e di ottimo livello recitativo.
Ph: @lucadelpia