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Pergine Festival

PERGINE FESTIVAL: IL CORAGGIO DI RISCHIARE

Pergine Festival è una di quelle realtà solide e laboriose, capaci di vantare una lunga e robusta tradizione, rinnovata notevolmente nell’ultimo decennio sotto la direzione intelligente di Carla Esperanza Tommasini, e che, chissà come mai, resta ai margini dei Grand tour festivalieri estivi. Eppure vi si respira una atmosfera sincera, profonda, in cui è possibile il dialogo e il confronto, quello che si prende il suo tempo, senza la fretta di correre al prossimo appuntamento. È possibile intessere relazioni durevoli in questo ecosistema capace di lasciar spazio all’accadere, seduti in tranquillità ai tavolini del caffè della piazza del Municipio, con l’ospitale e caloroso staff del festival, con gli artisti che hanno tempo di chiacchierare e raccontare i loro lavori e aspirazioni. Tutto è a portata di mano, umanamente rispettoso di un fruire non consumistico e frettoloso. Ogni opera presentata ha il suo spazio di decantazione prima della successiva, e il programma non è mai troppo fitto da obbligare lo spettatore a gargantuesche scorpacciate.

Quest’anno però le condizioni erano più avverse, in un distanziamento che raffredda, impedisce il ritrovarsi, di fronte al quale si può decidere come comportarsi: far finta di niente, fingere che tutto sia come prima, oppure reagire, rispondere a tono, proporre delle modalità. Pergine Festival ha saputo offrire al suo pubblico un programma capace di regalare diverse possibilità di fruizione in questo tempo fuor di sesto dove i rapporti sono falsati per le persone come per le opere.

Trickster-P Book is a book is a book Ph:@Giulia Lenzi

Dei cinque lavori a cui ho potuto assistere nei due giorni in cui sono stato a Pergine due erano in visione classica frontale e non interattiva (Sul rovescio di Claudia Caldarano, e Umani sognano leoni elettrici di S.EE – Serena Dibiase), uno itinerante (Forastica di Martina Badiluzzi), un’istallazione interattiva e immersiva (Book is a book is a book di Trickster-P), un processo condiviso (Radio Olimpia. Bomba libera tutti di Collettivo MMM). Un esperire possibilità e rapporti tra lo sguardo e l’opera, quest’ultima sempre ibrida sul confine tra i linguaggi, nella maggior parte processi più che prodotti, testimonianze di un percorso di lavoro piuttosto che oggetti preconfezionati per tutte le occasioni.

Da questo punto di vista di particolare rilevanza il progetto degli svizzeri Trickster-P, la cui proposta porta il pubblico in un ambiente a cavallo tra istallazione e performance, un luogo silenzioso in cui confrontarsi con un oggetto quale il libro, di per sé foriero di evasioni, immaginazioni, riflessioni dentro e fuori di sé. Si entra in uno spazio geometrico, occupato da tavoli, quasi banchi di scuola, dove sono posti un libro, una lampada, una torcia, delle cuffie, un equalizzatore per il volume. Gli artisti sono alle nostre spalle. Ne sentiamo la presenza e la voce in cuffia, ma sono fuori dalla visuale. Il nostro sguardo deve profondarsi nel libro pronto a rivelarsi un labirinto come Rayuela di Julio Cortazar. Un gioco del mondo, tra mappe, immagini, sensazioni, connessioni improvvise tra cose inaspettate. Si sfoglia il libro, si ascolta il racconto che giunge all’orecchio come di lontano insieme a suoni che richiamano le immagini con in uno specchio tra i sensi, e ci si lancia in un viaggio il cui esito è per ciascuno differente. Alla fine ci si risveglia come da un sogno ad occhi aperti, ricchi di una mappatura in un territorio imprevisto, persi e ritrovati, uguali e diversi.

Interessante il presupposto di Radio Olimpia. Bomba libera tutti di Collettivo MMM, progetto vincitore del bando Open a sostegno della creazione contemporanea per lo spazio pubblico promosso in rete da Pergine Festival con Zona K di Milano, Giardino delle Esperidi Festival di Lecco, Indisciplinarte di Terni, Periferico Festival di Modena e In/visible cities di Gorizia.

Collettivo MMM Ph:@Giulia Lenzi

Collettivo MMM prova a costruire un evento performativo ludico in cui si affrontano diverse squadre formate tra gli abitanti del luogo, ognuna con il suo inno e bandiera come nei famosi Giochi senza frontiere. Attraverso vari dispositivi elaborati a partire da storiche performance e Happening di artisti quali Allan Kaprow o Gino De Dominicis, le squadre e il pubblico sperimentano possibilità creative, modalità di pensiero, azioni patafisiche. Vi è poi il ruolo della radio, non solo in funzione di narratore e connettore ma, nelle intenzioni, come modalità di espansione e diffusione dell’esperienza. Il dispositivo di Radio Olimpia. Bomba libera tutti benché presenti aspetti di grande interesse, soprattutto per le sue possibilità applicative in luoghi non teatrali e con pubblici diversissimi, necessita, a mio modo di vedere, di ulteriori aggiustamenti e raffinazioni, soprattutto evitando il teatrale o il mimetico e il rischio conseguente di scadere nell’effetto buffonesco fine a se stesso, concentrando l’attenzione sulle regole del gioco e sul gioco stesso come modalità di interazione del pubblico con esperienze artistiche storicizzate.

Forastica di Martina Badiluzzi, vincitrice della terza edizione della Biennale College e il cui The Making of Anastasia debutterà alla prossima Biennale Teatro, è un racconto itinerante ispirato a Orso, romanzo di Marian Engel. Forastica è un viaggio di trasformazione mediante il quale una donna si spoglia dei condizionamenti imposti dalla società, riconquistando il suo corpo e la sua anima e affrontando anche gli aspetti più crudi dello stato di natura. È un abbandonare la città e un ritorno ad essa dopo aver esperito il naturale nei suoi aspetti anche bestiali, un naturale che chiede di essere vissuto senza vergogna. La modalità della passeggiata nel bosco è stato in questa ripresa molto sfruttata da artisti e festival, spesso come semplice via di fuga dalla gabbia delle imposizioni senza veramente indagare le possibilità offerte dal mezzo scelto. Nel caso di Martina Badiluzzi trovo che nonostante la semplicità dell’impianto registico e narrativo abbia cercato sinceramente di condividere l’esperienza raccontata con il pubblico. Non si è limitata a riferire una storia nel bosco, ma ha cercato, attraverso la buona interpretazione di Federica Rossellini, di farci vivere il percorso narrato.

Federica Rossellini in Forastica di Martina Badiluzzi Ph:@Giulia Lenzi

Da queste poche note su alcuni eventi proposti da Pergine Festival si può comprendere come la direzione abbia cercato di proporre al suo pubblico, non un palinsesto abborracciato che facesse passare la nottata, quanto abbia cercato piuttosto di proporre una serie di esperienze significative volte a creare uno sguardo che ricostruisse una comunità e questo nonostante i limiti imposti dalle regole di contenimento e prevenzione. Tentare non vuol dire riuscire, significa piuttosto tendere, così come non riuscire non vuol dire fallire. Dobbiamo toglierci dalla mente l’idea di risultato raggiunto attraverso un progresso infinito crescente. Quest’anno era difficile e impossibile per tutti, senza alcuna certezza, con i fondi in bilico, ricalendarizzando gli eventi in un contesto di confusione in cui ciascuno ha corso per sé e la politica sul territorio non ha certo dato il meglio. Pergine Festival ha tentato di proporre in queste condizioni avverse un programma coerente con il suo progetto, coinvolgendo artisti che generosamente si sono messi in gioco e hanno cercato il rapporto con il pubblico senza spocchioserie intellettualistiche. Credo che oggi questo sia quanto di meglio avremmo potuto sperare da un festival di arti performative e dagli artisti che lo hanno abitato.

Antonio Latella

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO LATELLA

Si è conclusa la seconda edizione della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella dedicata all’attore-performer. Ultimo atto del festival la premiazione di Leonardo Manzan, romano, 26 anni, vincitore del bando del College Registi Under 30. Menzione speciale a Giovanni Ortoleva, 26 anni, da Firenze.

Durante la prima settimana di festival abbiamo incontrato il direttore in quest’intervista per approfondire alcune delle questioni poste dalle opere e dagli artisti presenti nella rassegna.

Enrico Pastore: Antonio Latella perché ha sentito l’esigenza di porre la questione attore-performer?

Antonio Latella: «È una questione molto intima perché facendo il regista ti confronti sempre con gli esseri umani e non con una natura morta. Forse è l’unica arte dove alla fine tutto è consegnato agli uomini. Non sono filmati, non sono fotografati ma sono lì e agiscono per te. Per me il punto centrale resta sempre l’attore-performer perché senza di loro non può esserci il teatro e credo che per farlo abbia bisogno proprio di corpi e di vita per entrare in contatto con il pubblico.

Per questo penso che ci sarà sempre bisogno degli attori-performer. Per molti paesi europei, ma anche per gli americani, non c’è differenza tra attore o performer. Io non voglio dire se c’è o meno una differenza, però penso che, guardando gli spettacoli di questa Biennale, ognuno può farsi un’idea se tale condizione esista o meno. Se c’è è una differenza dello stare, non concettuale e l’essere in scena in quel momento e di quale tipo di contatto si cerca».

Enrico Pastore: Non pensa che si stia delineando di fronte a noi una nuova figura che non è un regista né un coreografo, quanto più un compositore della scena, un artista che compone con le modalità delle tre arti sceniche verso una nuova forma di teatro?

Antonio Latella: «Io non uso mai la parola artista riferendomi a un regista; eppure sempre più spesso ci troviamo di fronte a persone che vengono dall’arte figurativa e che scelgono come loro luogo d’azione il teatro. Questo crea già una scissione.

Finalmente, e lo dico anche contro me stesso che ho due piedi nel Novecento, è finita la figura dittatoriale del regista. Credo che la sua figura, come capitano che guida una nave sia finita. Il suo nuovo ruolo che emerge è quello che mi ha posto nella domanda: uno che ha la capacità di attendere ed è capace di portare al massimo i talenti di cui si circonda e fusi dal suo lavoro con delle meravigliose alchimie.

Il nuovo regista compie un atto creativo, e infatti, non si usa più la parola spettacolo quanto creazione. C’è una differenza sostanziale. Si tratta proprio di creare da zero, di scrivere per e con la scena. Questo permette una nuova dimensione di racconto.

Molti suoi colleghi si chiedono: ma dov’è la storia? In realtà c’è ma è diversa e pertiene a una modalità nuova di racconto, legata a una generazione esperta nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e quasi non comunica più con le parole, non utilizza più gli scritti ma si basa su una divulgazione di simboli, di fotografie, una scrittura costituita dall’unione di immagini».

Enrico Pastore: Questa nuova figura possiamo dire che è già stata prefigurata dal Novecento. Pensiamo a Cage: un musicista che ha inventato l’happening e composto pezzi di teatro dove potevano agire danzatori, attori e performer. Stiamo andando finalmente contro le categorie di genere?

Antonio Latella: «Non esistono più le categorie. Ed è quello per cui personalmente mi batto da anni. Ci sono mille cose completamente diverse ma la categoria non esiste più. Io già inorridisco quando sento parlare di teatro di tradizione, di ricerca, teatro off.. Queste non ci sono più. Solo se siamo in grado di rimuoverle, riusciamo a rilanciare il teatro nella sua globalità. Se continuiamo a creare delle nicchie alimentiamo anche delle fruizioni di pubblico molto elitarie che non si fondono mai tra di loro. Credo, invece, che oggi l’atto politico importante, sia questa fusione del pubblico e non la sua separazione. Alcuni artisti riescono a farlo e posseggono questa abilità di scrittura trasversale».

Enrico Pastore: Quello che dice è giusto ma ci conduce a un punto dolente toccato dal convegno attore-performer: bisogna che le istituzioni si riformino e creino strumenti che superino le categorie. Questo non può essere delegato solo ai festival o ai teatri.

Antonio Latella: «Certo, c’è bisogno del lavoro delle istituzioni, ma credo sia fondamentale anche il lavoro del direttore artistico. Quest’ultimo, nonostante le trappole ministeriali, deve riuscire a essere coraggioso e capace di arredare la sua casa con diversi linguaggi e farli passare al pubblico. Il direttore artistico deve essere un po’ meno pigro. Spesso si accontenta di preparare una situazione da supermercato e non fa passare un pensiero. Se riesce, al contrario, a divulgarlo, farà in modo di coinvolgere anche il pubblico.

Ci sono casi in cui i primi due anni di mandato hanno addirittura svuotato teatri ma poi sono riusciti a creare nuovo pubblico. È vero che noi non possiamo essere competitivi dal punto di vista economico. L’Italia non è lo è da questo punto di vista. Le nostre risorse sono ridicole rispetto a quelle di altri paesi. Io però riesco a vedere delle forze che possono in qualche modo rilanciare e sono convinto che la cosa più interessante che sta accadendo, ora in Italia, siano proprio i festival. Si è compreso come rappresentino il luogo per un rilancio. E in qualche modo tra di noi c’è una competizione sana e creativa».

Enrico Pastore: Quale può essere il ruolo dei festival nel rilancio delle arti sceniche in Italia?

Antonio Latella: «Innanzitutto non competere con i grandi festival internazionali. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo essere potentissimi nella proposta e nelle idee e riuscire a porre delle domande.

L’altro aspetto fondamentale credo sia il coraggio dello scouting. Noi lo stiamo facendo e altri festival è gia da tempo che perseguono questo ruolo. Dobbiamo concentrarci sul fatto che non si lavora solo per quelli che sono già affermati, ma soprattutto per quelli che hanno bisogno di essere mostrati. Se riusciamo a operare in questa direzione il lavoro diventa altruistico. In questo modo riusciamo a creare delle curiosità per il pubblico e per gli operatori».

Enrico Pastore: Quale pensa sia la funzione delle arti sceniche nel nostro contemporaneo?

Antonio Latella: «Ci sono due cose che mi emozionano molto. La prima è che, al di là di quello che ho sentito al convegno, ci sarà sempre bisogno degli attori. Sia un regista che un performer avrà sempre bisogno di loro. Fare questo lavoro oggi è una scelta decisamente eroica. Personalmente trovo sempre commovente quando dei giovani decidono di far teatro. Non è il futuro, non è Star Trek, è archeologia. Vedere dei giovani che si siedono davanti a un testo che esiste da quattro o cinquecento anni, non è come ha detto qualcuno, roba da dilettanti. Io lo trovo eroico. Cercare di capire, assorbire, lottare per far proprie parole non tue è un atto di eroismo. In questo senso c’è già un futuro.

La seconda cosa è che quanto penso per l’attore lo penso per il pubblico. Ancora oggi mi chiedo, nonostante questa velocità che abbiamo nella vita, perché lo spettatore scelga di andare a teatro. Non siamo noi artisti a fare la differenza, la fa chi viene a vederci. Io credo che lo faccia, nonostante ci sia il cinema, la televisione, internet, proprio per la presenza degli attori. Sceglie qualcosa che accade ora, in questo momento preciso, di assistere ad uno spettacolo, e lo fa per regalarsi del tempo, rispetto a chi decide sul suo agire. Andare a teatro mi regala del tempo per me.

Io non penso a qual’è il nostro compito. Io sento una responsabilità nei confronti di chi sceglie di venire a vedermi. In questo non c’è nulla di consolatorio. Non credo debba essere trattato con i guanti bianchi, anzi, il contrario: vuole essere messo in discussione. Io penso che se il pubblico non sente di essere provocato ma avverte che gli vengono poste delle domande, sta al gioco. Questo rapporto basato sul rispetto ha un aspetto propriamente politico.

Io non so se sia vero che il teatro sia il luogo in cui traspare la verità mediante l’artificio. Sono convinto sia l’unico luogo in cui si possano fare delle domande. La risposta poi te la dai tu, quando torni a casa e lo fai in modalità intima nel tuo privato».

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