Quarta intervista ai protagonisti della giovane scena italiana. Questa settimana chiacchieriamo con Giovanni Ortoleva a cui abbiamo posto le cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Ricordiamo che lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.
Giovanni Ortoleva è drammaturgo e regista. Il suo ultimo lavoro Saul è andato in scena alla Biennale di Venezia nel 2018. Tra i suoi lavori ricordiamo anche Oh, little man.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Difficilmente, per me, può essere efficace una creazione scenica che non ha un motivo ben preciso per nascere ed essere proposta al pubblico del suo tempo. Non mi riferisco all’urgenza, concetto vago come le stelle dell’Orsa: quel che dico è che non può darsi uno spettacolo di teatro che non si ponga in dialogo col pubblico che lo vede, quindi anche coi tempi in cui avviene. Il teatro non permette la musealizzazione. Non può permettersi la decontestualizzazione. Se Peter Brook esagerava dicendo che uno spettacolo dura massimo tre anni, credo comunque non sbagliasse di molto. Molto semplicemente: il teatro è l’arte della ripetizione, ma sempre in dialogo col presente. Con ciò che accade sulla scena così come con ciò che accade in platea, in piccionaia, per strada, nel paese. Non è vero che il teatro è politico di per sé, è una menzogna. Deve esserlo, non lo è di per sé. Con questo, tra l’altro, non intendo dire che uno spettacolo deve parlare esattamente di ciò che sta avvenendo fuori dalla sala in cui avviene; un classico o una riscrittura può parlare al contemporaneo e del contemporaneo quanto e più di uno spettacolo sul contemporaneo.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Si dovrebbero creare dei percorsi che permettano al soggetto vincitore di un bando, una residenza o altro di portare a termine un lavoro. Sappiamo tutti che una residenza di dieci giorni non può essere sufficiente a realizzare uno spettacolo completo, e la richiesta (non infrequente) di farlo mi lascia perplesso. Bisogna parlarsi molto chiaro, tra operatori e artisti, credo si debba smettere di accettare residenze volte a produrre “studi” che poi si parcheggiano in attesa di altre residenze; bisogna soprattutto creare dei canali solidi tra centri di residenze, festival e altre strutture, che mettano gli artisti che scelgono questi percorsi realmente in condizione di lavorare, di iniziare un percorso sapendo che non si concluderà a metà strada. Poco importa se questo comporta il sostenere meno progetti, l’importante è sostenerli fino in fondo. Ho parlato solo di tempo e non di economie, ma il discorso è traslabile (il tempo è denaro). Ciò detto non conosco la situazione di un paio di decenni fa, perché all’epoca ero all’asilo, quindi non so dire molto di più.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Vorrei avere una risposta. So solo che mi addolora vedere grandi produzioni spegnersi dopo venti date, e che venti date su un paio di piazze sia considerato un buon risultato. Uno spettacolo inizia a vivere, a essere quello che dovrebbe, dopo un certo numero di repliche, e questo lo sa chiunque lavori nel settore. Ma ripeto, non ho una risposta. Credo che in ogni caso dovrebbe esserci in primo luogo un interesse degli operatori italiani ai titoli esteri, capita troppo poco di avere nomi internazionali sui palcoscenici italiani, e faccio una considerazione a margine su quel che riguarda “l’internazionalità”: all’estero è normale trovare spettacoli con sovratitoli, il che fa avvicinare alla produzione di un determinato paese un pubblico anche di altri paesi. Sono stato a Berlino andando a teatro ogni sera, e non parlo una parola di tedesco. In Italia ho visto l’uso di sovratitoli solo al Piccolo di Milano (per La tragedia del vendicatore) e alla Pergola di Firenze (per Mary said what she said, ma i sottotitoli là erano per il pubblico italiano). Non lo capisco. Abbiamo un turismo, anche culturale, che cresce in modo incontrollabile e continuiamo a tenere il teatro fuori da queste logiche. Se è purismo, per me è una stupidaggine.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Il teatro non è liquido. E’ un evento totalizzante, che richiede partecipazione e porta (potenzialmente) altrove. Non è una serie che puoi guardare sul cellulare nei buchi di tempo, e non deve aspirare ad esserlo. Se c’è qualcosa di contemporaneo a cui guardare per capire dove portare il teatro per me sono i concerti, che rimangono eventi collettivi e immersivi. Cambiano le forme dello spettacolo ma non cambia il concetto. Qual è la funzione? Muovere il pubblico. Quando vedo il pubblico che arriva in platea penso sempre che ci si siede per essere alzati, che la richiesta che viene posta al palco è sempre “rendimi lo stare seduto impossibile”. Per le risate, l’inquietudine o la voglia di ballare, è lo stesso. Come le montagne russe ma con altri strumenti. Chi fa teatro oggi ha una grande responsabilità e sono felice di farlo proprio in questi tempi.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Esiste altro referente del lavoro di un artista che non sia il reale? Provocazione a parte, mi sembra che i modi di rivolgere lo specchio alla natura rimangano molto eterogenei nel nostro panorama, con un crescente ingresso del dato reale “grezzo” nelle creazioni di taglio più sperimentale e innovativo. Non mi riferisco tanto al teatro documentario, che direi non essere più una novità, ma a lavori come First Love di Marco D’Agostin, che prende un dato reale ma ci lavora in modo personalissimo. Continuo a non pensare che portare sul palco una registrazione della realtà (come può essere un video o una trascrizione) sia la forma più innovativa di rivolgere lo specchio alla natura, ma da spettatore spero sempre di essere contraddetto nei miei pre-giudizi. Non so neanche se posso parlare di un “mio” modo di rivolgerlo. In questo momento sto lavorando sui classici (sempre chiedendomi quali sono i classici oggi), sulla loro capacità di parlarci del presente, ma il mio primo lavoro ad esempio era una drammaturgia originale sulle crisi cicliche del capitalismo. Credo più semplicemente di avere scelto un tema che considero centrale in questo momento a livello planetario (ovvero il fallimento e la paura di esso) e di starlo attaccando da tutti i fronti.