L’anno si sta chiudendo ed è tempo per tutti di bilanci. Il teatro non si esclude da questa tradizione e come di consueto il Premio Ubu permette alcune riflessioni sullo stato delle cose nell’ambito teatrale.
Premetto da subito che le considerazioni che seguono non criticano la qualità dei lavori o dei performer premiati. Per esempio il riconoscimento della qualità delle interpretazioni di Christian La Rosa o di Claudia Marsicano sono ineccepibili, così come i due premi nelle categorie miglior performer e miglior progetto sonoro a Cantico dei Cantici di Roberto Latini (per la lista completa dei premi rinvio al sito del Premio Ubu http://www.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premio-ubu-2017/vincitori-ubu2017 ). Le considerazioni che seguono riguardano più che altro l’immagine produttivo-distributiva del nostro teatro.
Se prendiamo in oggetto gli ultimi cinque o sei anni, ossia dal 2012 al 2017, scopriamo dei dati interessanti. Latella vince premi nel 2012, 2013, 2016 e 2017, Latini nel 2014 e 2017, Civica nel 2015 e 2017 e infine Ronconi nel 2013 e 2015 (i premi riguardano esclusivamente le categorie Miglior regia, Miglior spettacolo e Miglior performer).
La ricorrenza di questi nomi, garanzia per altro di alta qualità, indica cose interessanti soprattutto per quanto riguarda l’aspetto produttivo (in quasi ogni caso sono coproduzioni con a capo fila un teatro stabile) e distributivo (il sistema referendario del premio inevitabilmente premia i lavori che circuitano di più).
Se per esempio allarghiamo il periodo storico di osservazione partendo dalla sua fondazione a oggi, ossia dal 1977 (questa era l’edizione del 40esimo) troviamo Ronconi premiato in ben diciotto occasioni, Tiezzi in dieci, Carmelo Bene in otto, Castri in otto. Questi non sono gli unici nomi a ricorrere negli anni troviamo anche Martinelli/Montanari, Castellucci, Armando Punzo, Barberio Corsetti.
Quello che risulta da questa incompleta disamina (questo è un articolo breve e per sua natura lapidario) è una sorta di monopolio costituito da produzioni legate ai Teatri Stabili e alle coproduzioni internazionali che gioco forza sono quelle ad avere un potere economico e distributivo più forte e che quindi catalizzano l’attenzione. Gli outsider difficilmente trovano spazio se non in rare occasioni. Ricordo che il sistema di votazione è referendario, critici sparsi in tutto il paese votano e gioco forza gli spettacoli che girano di più, al di là della loro qualità, sono quelli più visti e più votati.
Per le compagnie indipendenti e giovani entrare in questo circuito produttivo e distributivo diventa difficilissimo. E questo comporta un difficile ricambio che genera le ricorrenze che abbiamo rilevato.
Se poi prendiamo in considerazione sempre nel quinquennio 2013-2017 il premio Ubu al miglior spettacolo straniero visto in Italia, possiamo notare un altro dato interessante che ci permette di fare altre considerazioni sulla filiera produttiva e distributiva del nostro paese. Negli ultimi cinque anni se si esclude il 2013 con la vittoria di Odyssey di Bob Wilson, vincono sempre spettacoli di area tedesca: Marthaler 2014 e 2015, Jan Fabre prodotto dal Berliner Festspiele nel 2016, Milo Rau nel 2017, con le She She Pop finaliste nel 2013 e 2015.
Questo primeggiare di opere provenienti da Svizzera e Germania si spiega non solo per un potere economico maggiore ma anche per una più saggia politica produttiva e distributiva che ha permesso un ricambio generazionale e l’emersione di giovani di talento. Per un artista svizzero alle prime armi, per esempio, è molto più facile, grazie a sostegni appositi previsti dai Cantoni, dalle Lotterie, dalla società per i diritti d’autore elvetica SSA, da festival e da teatri, una maggior circuitazione e una possibilità produttiva in Italia impossibile.
Milo Rau per esempio riesce a produrre lavori di alto livello e ampiamente sostenuti a partire già dal 2007 quando aveva solo trentanni. Ma il suo caso non è l’unico.
In Italia un giovane che non entra nei circuiti privilegiati difficilmente trova, non solo una produzione all’altezza, ma una distribuzione che gli permetta un sopravvivenza a lungo periodo. Per esempio gli Omini, o il Collettivo Controcanto, o Marco Chenevier hanno molte meno possibilità di essere visti di quanto meriterebbero perché difficilmente un programmatore o un direttore artistico punterebbe su di loro non avendo grandi possibilità di richiamare pubblico o stampa.
È ovvio che questo è un serpente che si morde la coda. Meno si punterà sugli sconosciuti di talento, meno possibilità avranno di emergere e sempre più vedremo premiati gli stessi nomi. È ora che si inverta la tendenza se vogliamo che il nostro teatro e la nostra danza ritrovino qualità e contenuti. È necessario riformulare le nostre filiere produttive e distributive, occorre formare figure che si occupino della vendita degli spettacoli, così come i direttori artistici si assumano dei rischi. Se questo non avverrà al più presto la qualità del nostro teatro e della nostra danza sarà sempre meno incisiva nei confronti dei pari età esteri che vivono situazioni meno difficoltose per l’emersione del loro talento.
Un ultima considerazione: la notizia del premio Ubu 2017 è stata a dir poco ininfluente sulla grande stampa. Se ne occupa per lo più quella web e specializzata. E questo è un segnale preoccupante della rilevanza che le arti sceniche hanno nel contesto culturale italiano. Il vero dramma è che nemmeno come controcultura è incisiva. Le arti sceniche in questo paese faticano a trovare un ruolo e una funzione e anche su questo aspetto andrebbe spesa più che una riflessione.