Negli anni Novanta Carmelo Bene in maniera lapidaria scolpì due sentenze oracolari sul futuro prossimo del teatro italiano: ”un applauso non si nega a nessuno” e :”se lo Stato non pensa ai mediocri, chi ci pensa?”.
Quel futuro delineato da Carmelo Bene ora è il nostro presente. E ciò che antivedeva l’artista più irriverente del teatro italiano, ora è sotto gli occhi di tutti ma si fa finta che non sia così.
Partiamo dal primo assunto che un applauso non si nega a nessuno. Le conseguenze sono una critica depotenziata. Come già ha fatto notare Giulio Sonno pubblicando Il nuovo che (ci) avanza http://www.paperstreet.it/il-nuovo-che-ci-avanza/ : esprimere un parere che non sia favorevole a un lavoro o a una rassegna o festival è brutto e non si fa.
Subito di fronte a una critica che pone una domanda, o mette in discussione la riuscita di un lavoro, si levano infantili lamentele, si asserisce che non questo è il compito della critica, che mica siamo a scuola che si consegnano le pagelle. Qualcuno scomoda persino Artaud e indignandosi protesta: basta con i capolavori! battendo metaforicamente i pugni sul tavolo. Come se il critico andando a teatro volesse vedere solo spettacoli da iscrivere nel grande e luminoso libro della storia del teatro. Quelli più dignitosi fanno finta che le critiche – diciamo negative – non esistano e le nascondono inutilmente come polvere sotto il tappeto, dimenticandosi che siamo nell’epoca di internet e tutto diventa immediatamente di dominio pubblico.
Si scorda in tutto questo che la critica, quella migliore e più consapevole, pone domande scomode, non afferma giudizi di merito o estetici (l’era dell’arte come bello e del giudizio estetico è finita più di cento anni fa!). Lo fa non perché ne prova piacere, perché odia un artista o un festival, ma perché è il suo compito, si assume la responsabilità di porre in luce un’idea di teatro possibile.
La critica non ha sempre ragione obbietterà qualcuno o, come rispondeva Sidney Lumet alla critica Pauline Kael, vuole parlare di un’esperienza artistica senza prendersi alcun rischio. Ma qui non ha importanza chi ha ragione o torto, si parla di far muovere il pensiero sul teatro che si sta disabituando al contraddittorio.
E la responsabilità, ripeto, la si assume proprio nel porre pubblicamente domande scomode all’artista, al curatore, al pubblico, e di risponderne, altrettanto pubblicamente, a coloro che sono in disaccordo.
In questi giorni rileggevo il bellissimo romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere e ho trovato una frase illuminante: “L’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch”
Se il secolo scorso è iniziato con i Futuristi che si crogiolavano nella voluttà di essere fischiati, ora si è passato al divieto di critica. Si passa per essere dei bastian contrari, dei brontoloni a cui non va bene nulla, e si procede tutti spediti verso l’accordo unanime. Nessuna pubblica discussione, nessun movimento di pensiero, solo i rimbalzi delle critiche positive a far vedere che i propri festival e i propri lavori piacciono proprio a tutti. La fiera della vanità.
Ma veniamo al secondo assunto di Carmelo Bene: la mediocrità sostenuta dallo Stato. Tutti i bandi, ma proprio tutti, richiedono come presupposto nuovo pubblico. Questa bulimia di audience, ossessione spasmodica che non si interroga sulle funzioni della scena nella società, ma desidera solo che a teatro ci si vada e sempre più numerosi, comporta che per accontentare tutti si abbassino i livelli e si renda il teatro riconoscibile anche a un analfabeta. E così il ritorno di schemi teatrali e registici che si pensavano sepolti dalla storia: rinascita di un teatro borghese (senza i presupposti socio economici che hanno reso quel teatro necessario al suo tempo), ritorno prepotente della rappresentazione e di un teatro di regia dei tempi di Stanislavkij, il tutto condito in salsa social o talent show, con qualche proiezione qua e là per assolvere all’altro criterio ossessivo: la multimedialità.
Quest’ultima altra aberrazione del contemporaneo. Per essere chiari il teatro è multimediale dal tempo dei carri di Tespi. Teatro era Koreia ossia danza, musica e poesia. L’opera lirica è multimediale dall’Orfeo di Monteverdi, così come i trionfi del Brunelleschi mettevano in campo dall’ingegneria alla pittura, dalla danza alla musica, scultura e architettura. Piantiamola quindi di richiedere una cosa che è implicita nell’arte teatrale stessa!
I bandi determinano anche gli argomenti e così anno dopo anno ci ritroviamo ammucchiate di lavori che parlano tutti delle stesse cose e si dimentica che il teatro non è la cronaca del quotidiano ma pone domande alla società/pubblico a cui si rivolge, anche quelle che proprio non vuole sentire. Non si fa la morale o si espone il proprio punto di vista come al bar, si mette in questione il reale al di là di se stessi.
Di come la pensava Shakespeare sulla politica dell’Inghilterra con la Spagna non sappiamo proprio nulla, abbiamo le sue splendide opere che mettono in questione la natura umana nel suo complesso tanto che Harold Bloom è giunto ad affermare che il Bardo abbia inventato l’umano. Thomas Mann chiamava questo: la visione stereoscopica dell’autore ossia vedere tutto da ogni angolazione possibile al di là delle proprie opinioni.
Oggi invece sempre più ci si ritrova davanti a lavori che esprimono solo il punto di vista del suo autore su questo o quell’argomento e con la morale della favola, aspetto che anche Giulio Sonno mette in luce nel succitato articolo. Dell’opinione dell’artista su questo o quello non frega un beato niente a nessuno. Quello che ci si aspetta da lui è che metta in questione la realtà, che getti luce sulle crepe della civiltà e della società che abitiamo.
Come dice Kundera: “nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro”.
Questo ci si aspetta dall’artista e dal teatro anche se l’opera non è un capolavoro, anche se è mediocre. Non si tratta di valori estetici, si tratta di funzioni e di consapevolezza del ruolo. Una nuova interpretazione di Amleto, il bravo attore che lo interpreta magnificamente, o la regia impeccabile non servono a niente e a nessuno se questo non scuote alla base l’idea che abbiamo del mondo.
Torniamo quindi al ruolo della critica: non diamo pagelle, non diamo voti e stelline. Non è nel mio interesse dare voti a nessuno, quanto, invece, pensare il teatro, scuoterlo, generare pensiero scenico, confrontarmi con artisti, curatori e pubblico, cercare soluzioni possibili ai problemi che affliggono questo nostro mondo (sempre più chiuso in se stesso) e assente di voci discordanti.
Uno dei dipinti che ho sempre trovato tra i più inquietanti è La parabola dei ciechi di Brueghel. Sei ciechi si avviano verso un baratro uno dietro l’altro. Il primo già sta cadendo, il secondo ha appena il tempo di rendersi conto che la terra è finita e inizia l’abisso. Quello che veramente mette a disagio è il terzo che con incrollabile fiducia si avvia verso il baratro senza nulla sospettare conducendo quelli che lo seguono al precipizio.
Dire che va tutto bene, che siamo tutti bravissimi non serve. È solo un prendersi per mano con occhi bendati e camminare fiduciosi verso il vuoto che ci attende qualche passo più in là.