Menelao,
testo
di Davide
Carnevali
messo in scena da Teatrino
Giullare,
ha debuttato in
prima nazionale in febbraio all’Arena
del Sole di Bologna e
ha aperto la XIV
edizione del Festival di teatro contemporaneo VIE.
Menelao è
una drammaturgia che
diventa spettacolo e in cui la scena trova il suo nucleo a partire
dal testo.
Se
l’autore letterario è Davide
Carnevali,
protagonisti sul palco sono i volti, le maschere, i pupazzi e le
virtuose illusioni di Teatrino
Giullare, il quale
accoglie la sfida delle parole che invocano eroismo e Ragione con una
messa in scena figurativa ed elegante, che risponde all’artificio
concettuale con quello figurativo.
Dioniso
è morto. Dalla testa di Zeus, una lucidissima Atena, figlia di una
dialettica “non generativa, perché porta in sé già tutte le
conclusioni”, porta l’occhio del padre come perfetto exemplum
della coglioneria
umana su Menelao, il condottiero che ha raggiunto tutto, e non è
felice. Certo, “non ha mai fatto un cazzo”. In Menelao,
è il Teatrino Giullare
a tradurre le gustose didascalie presenti nel testo di Davide
Carnevali in realtà
scenograficamente pratica: tutta la scena è riempita da busti,
maschere e statue delle divinità greche, che mute stanno a guardare
il compiersi della parabola del “non eroe”. Mute a tratti, in
altre effettivamente parlanti e operanti. La stessa Atena è un
piccolo pupazzo che emerge dal cranio della grande testa di Zeus,
così come un pupazzo è lo stesso Menelao, con cui invece
l’attore-Menelao, da dietro gli scuri occhiali da sole dietro ai
quali si nasconde, interagisce e parla, trovando forse in quella
piccola figura l’immagine degli stessi stessi atti venati di
eroismo e leggera spensieratezza che, nella gabbia del corpo, lui
sente preclusi.
Menelao e il suo
alter-ego si alternano sulla scena, mentre le illusioni di quello che
lo stesso Teatrino
Giullare chiama un
“teatro d’artificio”, e non “teatro di figura”, fanno sì
che con illusione perfetta dalla polvere di un libro possa rinascere
il fantasma di Agamennone, tre piccole Parche possano mettersi a
giocare attorno al filo della vita di Menelao (ma non tagliarlo), i
personaggi e gli spazi possano transitare con agio da una dimensione
all’altra, dalla camera coniugale all’ufficio di stato, dal bagno
al tempio, mentre si consuma la vera tragedia dell’eroe, incapace
di dire “amore” ma anche “non amore”. Anche questo finisce
delegato a Elena, qui “raffreddata” donna di stato che non
ottiene, per contro, neanche il conforto di una scopata, incapace
all’amore e incapace alla morte, che pur cercando di procurarsi non
riesce a ottenere. Dopo lo spettacolo abbiamo intervista l’autore
del testo Davide
Carnevali, per
indagare un po’ più a fondo l’idea che ruota attorno alla
tragedia veicolata dal Menelao,
e ilrapporto
del drammaturgo con la parola.
M:
Nel tuo testo parti dal mito ma non siamo del tutto in territorio
mitico: chi è Menelao? E come hai gestito questo archetipo?
D:
Menelao è un personaggio fuori dal tempo, secondo un certo punto di
vista. Ha delle caratteristiche della figura mitica ma anche
caratteristiche dell’uomo contemporaneo – per questo non è
ubicato con precisione nel tempo e nello spazio – ma la sua non è
un’identità fissa. È un po’ l’uomo insoddisfatto, che cerca
una ragione per la sua infelicità e non la trova. È l’uomo che
vuole sempre di più, vuole tutto ciò che non ha e quindi non è mai
contento. Tutta la vicenda sta nel suo cercare una ragione e non
riuscire a trovarla, quindi nel suo ripetersi. Una ripetizione che è
già nel testo, anche perché questo è tutta una riflessione su un
tempo che non riesce ad avanzare, nel momento in cui l’obiettivo di
Menelao si allontana con la ricerca stessa. Il suo tempo non ha più
valore (c’è un momento in cui gli viene detto chiaramente da
Proteo, “il tuo tempo non vale nulla”). La ripetizione agisce
anche a livello formale, con le ripetizioni di azioni e formule
linguistiche, e serve proprio a creare questo effetto di un tempo che
non avanza e rimane stagnante. Tant’è vero che lui non riesce a
suicidarsi, non riesce a mettere fine a questa tragedia, rimane in un
“tempo a-cronologico”. La vicenda di Menelao è dunque anche una
riflessione sull’inefficienza dello schema logico per spiegare la
realtà. Più lui cerca una logica e una ragione, più non si rende
conto che in verità non è quello lo schema che dovrebbe usare.
M:
Un personaggio un po’ “sordo”, anche, nel momento in cui tutti
gli suggeriscono la via da seguire, e il tempo dello spettacolo
corrisponde all’attesa che lui arrivi a una soluzione che invece il
pubblico ha già in mano.
D:
Beh, è perché noi stessi siamo sordi. Non ascoltiamo il nostro
cuore e il nostro istinto tendendo ad ascoltare solo il cervello,
ignorando quel “sesto senso”, quell’intuizione irrazionale che
spesso abbiamo. Fondamentalmente non credo che questo sia un problema
di ignoranza, credo sia proprio un problema di non ascolto. Spesso
tutti noi intuiamo quale siano i nostri problemi, però nonostante la
nostra capacità di intuire, non riusciamo a trovare una soluzione, e
proprio perché la cerchiamo nella logica. Mentre alcuni tipi di
problemi non hanno una matrice logica alla base. La realtà non è
logica. La logica è un modo di interpretazione che non è sempre
valido e che non ci aiuta sempre. Di questo sta parlando la tragedia.
M:
Come e quando è nata in te la molla che ti ha portato a riflettere
su questi temi e su questo personaggio?
D:
Ho iniziato a lavorare sull’idea di Menelao
nel 2010, ho scritto alcune scene e poi è rimasto lì per anni. È
rimasto lì senza concludersi e quando l’ho ripreso in mano era il
2015. Questo in realtà mi capita spesso, a volte scrivo cose, o
meglio, inizio a scriverle e poi rimangono lì perché vedo che non
vanno avanti. A volte è anche salutare che sia così, quando non hai
un incarico o una deadline
da rispettare, quando non hai la commissione di un teatro che ti
chiede di consegnare entro un tot di tempo, sei molto più libero. Il
testo è nato in questo modo. Quando l’ho recuperato nel 2015 ho
pensato che valesse la pena continuare a lavorarci. L’ho finito nel
2016, mentre stavo scrivendo anche altre cose.
M:
Pensi che Menelao
si sia – anche involontariamente – legato agli altri temi che
affronti all’interno dei tuoi testi? Penso principalmente ad Atti
osceni in luogo pubblico
e Maleducazione
Transiberiana, in cui
ci sono due gradazioni diverse di lavoro sia con le immagini, che con
i temi. Sembra che alcuni tornino, in qualche modo. Penso
all’immagine del cuore sempre assente, spesso bruciato o in mezzo
alle fiamme, o al grande tema de “la bellezza che genera
distruzione” (il “conforto” che Menelao esprime a Elena),
all’impossibilità e al rifiuto netto di generare realtà nuove, a
un fattore di eroismo che cade continuamente, e a un certo grado di
indistinzione identitaria. Nel lavoro su Pasolini certo in una
direzione molto più lirica, mentre in Maleducazione
affrontato da un’altra prospettiva, sicuramente più pop. Le
immagini per Menelao sono ovviamente mitiche, sospese, irreali,
specie considerando il tipo di messa in scena. C’è davvero questo
tipo di filo a legare i vari testi?
D:
Sì, quello succede sempre, probabilmente. E anche perché il periodo
in cui ho finito il Menelao
era proprio il periodo in cui scrivevo Atti
osceni. Scrivere
per immagini, e non solo scriverle
ma anche stare in
quell’atmosfera, è importante. Sono stato su quel tema per un po’,
perché era quello che usciva da me in quel periodo. Penso di sì,
quindi, da un certo punto di vista si influenzano mutuamente. Poi c’è
Maleducazione,
che pure ne ha subito l’influenza, ma in un’altra direzione:
intendo che dopo aver fatto Menelao
e Atti osceni
viene voglia di fare qualcosa di totalmente differente. Lì è
proprio tutta un’altra cosa, tutto un modo diverso di scrivere.
Perché comunque un po’ ti consuma scrivere certe cose. Mi capita
spesso di scrivere cose molto differenti l’una dall’altra e
Maleducazione
nasce proprio sotto questo presupposto, più legato al modo di
produzione del teatro, come risposta alle domande sul come mettere in
scena, per chi farlo, con che mezzi… Volevo fare qualcosa che avrei
messo in scena io, per esempio, quindi con un impianto molto
semplice. Lì non c’è realmente un lavoro sulle immagini perché
io non sono un regista, è un lavoro attore-testo, provato durante un
periodo molto lungo e attraverso varie tappe di lavoro con gli
attori, quindi tutta un’altra cosa. Menelao
invece è un testo che nasce da me e che nel momento in cui lo
concludo non so cosa ne farò, mentre ancoraAttiosceninasce da un incarico
del Teatre Nacional de
Catalunya, quindi con
una data di consegna e una richiesta precisa, che era quella di
lavorare su Teorema
di Pasolini.
Sono tre presupposti differenti e tre casi differenti. I temi di
questi ultimi due si legano, sì. In più, qui c’è l’impossibilità
dell’amore, che penso sia il tema portante.
M:
Dei tuoi testi, che sono entità autonome dalla scena (e in questo ti
vedo come scrittore “puro”) un elemento molto interessante e
ricco di informazioni, ma soprattutto di ironia, sono le didascalie,
che poi anche per esigenze pratiche non finiscono sulla scena; il tuo
scrivere, nel testo del Menelao,
tende a restituire sempre un parlato molto sporcato, quotidiano e a
tratti dissacrante. C’è ironia e levità, nei confronti della
parola, ma anche della scena, nel momento in cui ogni spettacolo
prende avvio da un conflitto o da un problema: mentre di Menelao, in
didascalia, ci viene detto che si tratta de “l’individuo che
vuole risolvere un problema che non esiste”. Sembrerebbe un
prendere in giro anche la pratica della scrittura, che finisce per
invalidarsi: sia per il personaggio che per lo spettacolo in sé.
D:
Infatti Menelao non giunge a una risposta. Il tragico consiste
proprio in questo, nel non poter risolvere un conflitto proprio
perché non c’è un conflitto da risolvere, ed è questo il nucleo
di questa rivisitazione. La tragedia in senso classico necessita di
un finale, che dovrebbe essere catartico. Ma qui non c’è
possibilità di finale, né di redenzione, da un certo punto di
vista. Anche per la scrittura, che è proprio una messa in logica
dell’esperienza, il problema sta nel suo basarsi su una messa in
logica che fa perdere il contatto con l’esperienza originaria. E
quindi cos’è che dobbiamo fare? Se si vuole comunicare
quell’esperienza dobbiamo necessariamente ammettere l’insufficienza
del linguaggio nel comunicarla. Il linguaggio è un “meno
peggio”, l’esperienza resiste al linguaggio e alla sua
formalizzazione logica. Il non riconoscerlo diventa la nostra
tragedia. Poi, da un lato, l’ironia e la comicità sono dei buoni
mezzi per veicolare certi contenuti, dall’altro, esattamente come
in Maleducazione,
serve per veicolare alcuni contenuti filosofici che diventerebbero
troppo didattici se li proponessi in un certo modo al pubblico; e
quindi cercano di passare attraverso il grottesco e l’ironia. Per
operazioni come Menelao,
che hanno più a che vedere con il concetto di tragico, il riso
permette di evidenziare ancora di più quei momenti di tragicità e
far passare lo spettatore dal riso allo sconcerto, un espediente
efficace per assimilare l’aspetto tragico della vita. Qui un po’
si tratta anche di far capire che le storie – e quindi la Storia
(con la esse maiuscola) – sono processi artificiali. Questa cosa
viene fuori soprattutto nella scena del rapsodo, che lo denuncia
apertamente “questo vizio che avete voi di riscrivere la storia a
modo vostro per essere ricordati come eroi”. Ma inventarci storie
non è la soluzione di tutto, è semplicemente un modo di alleviare
la durezza dell’esperienza umana. Non è per forza detto che
dobbiamo vivere scrivendo storie, dobbiamo affidarci anche un po’
all’istinto e al cuore più che alla ragione.
M:
Abbiamo così bisogno di fare gli eroi?
D:
Quello a cui ci spinge questa società, questo sistema di pensiero e
questo sistema economico è rappresentarci come eroi, ma questo ci
allontana, per esempio, dalla nostra vera identità. Abitiamo un
mondo in cui abbiamo delle esigenze di costruzione della nostra
identità che non sono intime, ma dettate da una logica esterna a
noi. Lo si vede in tutto quello che sta succedendo con i social e la
rappresentazione di se stessi: non si tratta di un processo di
costruzione di se stessi a partire dall’ascolto della propria vera
identità, ma a partire dalla filiazione ad alcune norme e ad alcuni
canoni estetici e morali, anche. Quello è un problema, con cui ci
scontreremo a un certo punto.
M:
Com’è nata la tua collaborazione con Teatrino Giullare? Anche
perché spesso tu lavori non in Italia, ma all’estero. In questo,
anche, trovi che ci siano delle differenze fra i vari sistemi
teatrali rispetto al modo di lavorare?
D:
Sì, cambiano molte cose. Non tanto come autore, perché ho iniziato
a scrivere pensando a una possibilità per le mie opere di essere
messe in scena sia in Italia che all’estero, ma il fatto che la mia
“carriera” sia iniziata quando ero già a Berlino ha influenzato
abbastanza anche la scrittura. Cambia anche in senso pratico, però
probabilmente questo riguarda più la mia attività, comunque molto
limitata, di regista, più che come autore. Come autore non riguarda
tanto il mio modo di lavorare quanto la facilità o non facilità con
cui un testo arriva in scena. Il sistema teatrale tedesco, ad
esempio, è molto differente, i testi contemporanei possono essere
messi in scena da più teatri allo stesso tempo e da registi diversi.
I teatri nazionali sono molto più “stabili”, non esiste questa
cosa della circuitazione e delle tournée come in Italia, in cui il
tuo testo ha quel numero di repliche e basta. Per Menelao
più che altro la differenza ha riguardato il modo di lavorare su
questa ipotesi di messa in scena. La collaborazione con loro è nata
da un mutuo amore: avevano letto il testo e l’avevano trovato
interessante, ne hanno fatto una lettura drammatizzata in una
rassegna che organizzano a Sasso Marconi e a me è piaciuta la loro
lettura. Poi quando ERT
ha proposto di produrlo mi è sembrata un’operazione interessante,
proprio perché mi portava da un’altra parte rispetto al “testo
letterario”. Ho lavorato con loro sull’adattamento del “testo
spettacolare” per questo nuovo apparato scenico, ma i creatori sono
loro, lo spettacolo ha preso la strada che loro hanno tracciato. Del
resto, maschere, oggetti e pupazzi parlano in un certo modo e hanno
certi tempi, alcune battute non possono e non riescono a dirle con
quella velocità, quella secchezza presente nel testo. Sono elementi
che sono stati eliminati in favore di una poeticità, che è
sicuramente favorita dal tipo di “teatro d’artificio” che fa
Teatrino Giullare.
Ne acquista non solo il lato poetico ma anche quella dilatazione
temporale che inizialmente non era prevista e quella sorta di
nostalgia che pure c’è nel personaggio. Per me è stato molto
utile lavorare con loro, mi interessava vedere anche quell’altro
aspetto del testo, e anche loro hanno sempre nuove trovate e nuove
idee da replica a replica.
M:
In generale riesci a seguire le compagnie e gli attori che mettono in
scena i tuoi testi?
D:
Dipende. In alcuni casi facciamo un lavoro a tavolino sul testo
prima, in altri casi per molte messe in scena non sempre riesco a
seguire il processo, quindi vedo il prodotto finito. I casi sono
differenti.
M:
Hai accennato al grado di libertà che c’è quando i tuoi testi
sono messi in scena all’estero, una sorta di agio in più rispetto
al sistema italiano. Però ora stai cominciando un triennio di
collaborazioni con ERT: da cos’è nato questo sodalizio?
D:
Incrocio di vedute, soprattutto. Avevo conosciuto Claudio
Longhi quando era in
giuria al Premio
Riccione, e in seguito
mi ha contattato e abbiamo parlato un po’ della nostra visione del
teatro e della missione del teatro pubblico. Io collaboro già da
qualche anno con il teatro pubblico della Catalogna e mi interessa
molto il discorso del rapporto del teatro con lo spettatore e
soprattutto del recupero del pubblico. L’affinità è non solo
artistica ma anche etica, legata all’idea di quale sia la missione
del teatro. Questa collaborazione sta prendendo varie declinazioni,
anche al di là delle produzioni o dell’ospitalità per spettacoli
già prodotti, ad esempio nelle produzioni di teatro per le scuole,
come sta accadendo per il progetto Classroomplay,
progetto partito da un’idea di Longhi. Si tratta di spettacoli di
formato leggero, con due attori, pochi oggetti e video. L’idea non
è portare le scuole a teatro ma che sia il teatro ad andare nelle
scuole per presentare ai ragazzi sotto un’altra luce temi di
filosofia, letteratura, storia dell’arte che studiano nel programma
scolastico. È importantissimo far capire a questi ragazzi che il
teatro può essere uno strumento didattico divertente, profondo e
soprattutto vicino alla loro quotidianità. Si tratta del pubblico
del presente e del futuro.
Di
Maria D’Ugo