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Davide Carnevali

Sul tragico contemporaneo, fra testo e scena: intervista a Davide Carnevali sul “Menelao”

Menelao, testo di Davide Carnevali messo in scena da Teatrino Giullare, ha debuttato in prima nazionale in febbraio all’Arena del Sole di Bologna e ha aperto la XIV edizione del Festival di teatro contemporaneo VIE. Menelao è una drammaturgia che diventa spettacolo e in cui la scena trova il suo nucleo a partire dal testo.

Se l’autore letterario è Davide Carnevali, protagonisti sul palco sono i volti, le maschere, i pupazzi e le virtuose illusioni di Teatrino Giullare, il quale accoglie la sfida delle parole che invocano eroismo e Ragione con una messa in scena figurativa ed elegante, che risponde all’artificio concettuale con quello figurativo.

Dioniso è morto. Dalla testa di Zeus, una lucidissima Atena, figlia di una dialettica “non generativa, perché porta in sé già tutte le conclusioni”, porta l’occhio del padre come perfetto exemplum della coglioneria umana su Menelao, il condottiero che ha raggiunto tutto, e non è felice. Certo, “non ha mai fatto un cazzo”. In Menelao, è il Teatrino Giullare a tradurre le gustose didascalie presenti nel testo di Davide Carnevali in realtà scenograficamente pratica: tutta la scena è riempita da busti, maschere e statue delle divinità greche, che mute stanno a guardare il compiersi della parabola del “non eroe”. Mute a tratti, in altre effettivamente parlanti e operanti. La stessa Atena è un piccolo pupazzo che emerge dal cranio della grande testa di Zeus, così come un pupazzo è lo stesso Menelao, con cui invece l’attore-Menelao, da dietro gli scuri occhiali da sole dietro ai quali si nasconde, interagisce e parla, trovando forse in quella piccola figura l’immagine degli stessi stessi atti venati di eroismo e leggera spensieratezza che, nella gabbia del corpo, lui sente preclusi.

Menelao e il suo alter-ego si alternano sulla scena, mentre le illusioni di quello che lo stesso Teatrino Giullare chiama un “teatro d’artificio”, e non “teatro di figura”, fanno sì che con illusione perfetta dalla polvere di un libro possa rinascere il fantasma di Agamennone, tre piccole Parche possano mettersi a giocare attorno al filo della vita di Menelao (ma non tagliarlo), i personaggi e gli spazi possano transitare con agio da una dimensione all’altra, dalla camera coniugale all’ufficio di stato, dal bagno al tempio, mentre si consuma la vera tragedia dell’eroe, incapace di dire “amore” ma anche “non amore”. Anche questo finisce delegato a Elena, qui “raffreddata” donna di stato che non ottiene, per contro, neanche il conforto di una scopata, incapace all’amore e incapace alla morte, che pur cercando di procurarsi non riesce a ottenere. Dopo lo spettacolo abbiamo intervista l’autore del testo Davide Carnevali, per indagare un po’ più a fondo l’idea che ruota attorno alla tragedia veicolata dal Menelao, e ilrapporto del drammaturgo con la parola.

M: Nel tuo testo parti dal mito ma non siamo del tutto in territorio mitico: chi è Menelao? E come hai gestito questo archetipo?

D: Menelao è un personaggio fuori dal tempo, secondo un certo punto di vista. Ha delle caratteristiche della figura mitica ma anche caratteristiche dell’uomo contemporaneo – per questo non è ubicato con precisione nel tempo e nello spazio – ma la sua non è un’identità fissa. È un po’ l’uomo insoddisfatto, che cerca una ragione per la sua infelicità e non la trova. È l’uomo che vuole sempre di più, vuole tutto ciò che non ha e quindi non è mai contento. Tutta la vicenda sta nel suo cercare una ragione e non riuscire a trovarla, quindi nel suo ripetersi. Una ripetizione che è già nel testo, anche perché questo è tutta una riflessione su un tempo che non riesce ad avanzare, nel momento in cui l’obiettivo di Menelao si allontana con la ricerca stessa. Il suo tempo non ha più valore (c’è un momento in cui gli viene detto chiaramente da Proteo, “il tuo tempo non vale nulla”). La ripetizione agisce anche a livello formale, con le ripetizioni di azioni e formule linguistiche, e serve proprio a creare questo effetto di un tempo che non avanza e rimane stagnante. Tant’è vero che lui non riesce a suicidarsi, non riesce a mettere fine a questa tragedia, rimane in un “tempo a-cronologico”. La vicenda di Menelao è dunque anche una riflessione sull’inefficienza dello schema logico per spiegare la realtà. Più lui cerca una logica e una ragione, più non si rende conto che in verità non è quello lo schema che dovrebbe usare.

M: Un personaggio un po’ “sordo”, anche, nel momento in cui tutti gli suggeriscono la via da seguire, e il tempo dello spettacolo corrisponde all’attesa che lui arrivi a una soluzione che invece il pubblico ha già in mano.

D: Beh, è perché noi stessi siamo sordi. Non ascoltiamo il nostro cuore e il nostro istinto tendendo ad ascoltare solo il cervello, ignorando quel “sesto senso”, quell’intuizione irrazionale che spesso abbiamo. Fondamentalmente non credo che questo sia un problema di ignoranza, credo sia proprio un problema di non ascolto. Spesso tutti noi intuiamo quale siano i nostri problemi, però nonostante la nostra capacità di intuire, non riusciamo a trovare una soluzione, e proprio perché la cerchiamo nella logica. Mentre alcuni tipi di problemi non hanno una matrice logica alla base. La realtà non è logica. La logica è un modo di interpretazione che non è sempre valido e che non ci aiuta sempre. Di questo sta parlando la tragedia.

M: Come e quando è nata in te la molla che ti ha portato a riflettere su questi temi e su questo personaggio?

D: Ho iniziato a lavorare sull’idea di Menelao nel 2010, ho scritto alcune scene e poi è rimasto lì per anni. È rimasto lì senza concludersi e quando l’ho ripreso in mano era il 2015. Questo in realtà mi capita spesso, a volte scrivo cose, o meglio, inizio a scriverle e poi rimangono lì perché vedo che non vanno avanti. A volte è anche salutare che sia così, quando non hai un incarico o una deadline da rispettare, quando non hai la commissione di un teatro che ti chiede di consegnare entro un tot di tempo, sei molto più libero. Il testo è nato in questo modo. Quando l’ho recuperato nel 2015 ho pensato che valesse la pena continuare a lavorarci. L’ho finito nel 2016, mentre stavo scrivendo anche altre cose.

M: Pensi che Menelao si sia – anche involontariamente – legato agli altri temi che affronti all’interno dei tuoi testi? Penso principalmente ad Atti osceni in luogo pubblico e Maleducazione Transiberiana, in cui ci sono due gradazioni diverse di lavoro sia con le immagini, che con i temi. Sembra che alcuni tornino, in qualche modo. Penso all’immagine del cuore sempre assente, spesso bruciato o in mezzo alle fiamme, o al grande tema de “la bellezza che genera distruzione” (il “conforto” che Menelao esprime a Elena), all’impossibilità e al rifiuto netto di generare realtà nuove, a un fattore di eroismo che cade continuamente, e a un certo grado di indistinzione identitaria. Nel lavoro su Pasolini certo in una direzione molto più lirica, mentre in Maleducazione affrontato da un’altra prospettiva, sicuramente più pop. Le immagini per Menelao sono ovviamente mitiche, sospese, irreali, specie considerando il tipo di messa in scena. C’è davvero questo tipo di filo a legare i vari testi?

D: Sì, quello succede sempre, probabilmente. E anche perché il periodo in cui ho finito il Menelao era proprio il periodo in cui scrivevo Atti osceni. Scrivere per immagini, e non solo scriverle ma anche stare in quell’atmosfera, è importante. Sono stato su quel tema per un po’, perché era quello che usciva da me in quel periodo. Penso di sì, quindi, da un certo punto di vista si influenzano mutuamente. Poi c’è Maleducazione, che pure ne ha subito l’influenza, ma in un’altra direzione: intendo che dopo aver fatto Menelao e Atti osceni viene voglia di fare qualcosa di totalmente differente. Lì è proprio tutta un’altra cosa, tutto un modo diverso di scrivere. Perché comunque un po’ ti consuma scrivere certe cose. Mi capita spesso di scrivere cose molto differenti l’una dall’altra e Maleducazione nasce proprio sotto questo presupposto, più legato al modo di produzione del teatro, come risposta alle domande sul come mettere in scena, per chi farlo, con che mezzi… Volevo fare qualcosa che avrei messo in scena io, per esempio, quindi con un impianto molto semplice. Lì non c’è realmente un lavoro sulle immagini perché io non sono un regista, è un lavoro attore-testo, provato durante un periodo molto lungo e attraverso varie tappe di lavoro con gli attori, quindi tutta un’altra cosa. Menelao invece è un testo che nasce da me e che nel momento in cui lo concludo non so cosa ne farò, mentre ancoraAttiosceninasce da un incarico del Teatre Nacional de Catalunya, quindi con una data di consegna e una richiesta precisa, che era quella di lavorare su Teorema di Pasolini. Sono tre presupposti differenti e tre casi differenti. I temi di questi ultimi due si legano, sì. In più, qui c’è l’impossibilità dell’amore, che penso sia il tema portante.

M: Dei tuoi testi, che sono entità autonome dalla scena (e in questo ti vedo come scrittore “puro”) un elemento molto interessante e ricco di informazioni, ma soprattutto di ironia, sono le didascalie, che poi anche per esigenze pratiche non finiscono sulla scena; il tuo scrivere, nel testo del Menelao, tende a restituire sempre un parlato molto sporcato, quotidiano e a tratti dissacrante. C’è ironia e levità, nei confronti della parola, ma anche della scena, nel momento in cui ogni spettacolo prende avvio da un conflitto o da un problema: mentre di Menelao, in didascalia, ci viene detto che si tratta de “l’individuo che vuole risolvere un problema che non esiste”. Sembrerebbe un prendere in giro anche la pratica della scrittura, che finisce per invalidarsi: sia per il personaggio che per lo spettacolo in sé.

D: Infatti Menelao non giunge a una risposta. Il tragico consiste proprio in questo, nel non poter risolvere un conflitto proprio perché non c’è un conflitto da risolvere, ed è questo il nucleo di questa rivisitazione. La tragedia in senso classico necessita di un finale, che dovrebbe essere catartico. Ma qui non c’è possibilità di finale, né di redenzione, da un certo punto di vista. Anche per la scrittura, che è proprio una messa in logica dell’esperienza, il problema sta nel suo basarsi su una messa in logica che fa perdere il contatto con l’esperienza originaria. E quindi cos’è che dobbiamo fare? Se si vuole comunicare quell’esperienza dobbiamo necessariamente ammettere l’insufficienza del linguaggio nel comunicarla. Il linguaggio è un “meno peggio”, l’esperienza resiste al linguaggio e alla sua formalizzazione logica. Il non riconoscerlo diventa la nostra tragedia. Poi, da un lato, l’ironia e la comicità sono dei buoni mezzi per veicolare certi contenuti, dall’altro, esattamente come in Maleducazione, serve per veicolare alcuni contenuti filosofici che diventerebbero troppo didattici se li proponessi in un certo modo al pubblico; e quindi cercano di passare attraverso il grottesco e l’ironia. Per operazioni come Menelao, che hanno più a che vedere con il concetto di tragico, il riso permette di evidenziare ancora di più quei momenti di tragicità e far passare lo spettatore dal riso allo sconcerto, un espediente efficace per assimilare l’aspetto tragico della vita. Qui un po’ si tratta anche di far capire che le storie – e quindi la Storia (con la esse maiuscola) – sono processi artificiali. Questa cosa viene fuori soprattutto nella scena del rapsodo, che lo denuncia apertamente “questo vizio che avete voi di riscrivere la storia a modo vostro per essere ricordati come eroi”. Ma inventarci storie non è la soluzione di tutto, è semplicemente un modo di alleviare la durezza dell’esperienza umana. Non è per forza detto che dobbiamo vivere scrivendo storie, dobbiamo affidarci anche un po’ all’istinto e al cuore più che alla ragione.

M: Abbiamo così bisogno di fare gli eroi?

D: Quello a cui ci spinge questa società, questo sistema di pensiero e questo sistema economico è rappresentarci come eroi, ma questo ci allontana, per esempio, dalla nostra vera identità. Abitiamo un mondo in cui abbiamo delle esigenze di costruzione della nostra identità che non sono intime, ma dettate da una logica esterna a noi. Lo si vede in tutto quello che sta succedendo con i social e la rappresentazione di se stessi: non si tratta di un processo di costruzione di se stessi a partire dall’ascolto della propria vera identità, ma a partire dalla filiazione ad alcune norme e ad alcuni canoni estetici e morali, anche. Quello è un problema, con cui ci scontreremo a un certo punto.

M: Com’è nata la tua collaborazione con Teatrino Giullare? Anche perché spesso tu lavori non in Italia, ma all’estero. In questo, anche, trovi che ci siano delle differenze fra i vari sistemi teatrali rispetto al modo di lavorare?

D: Sì, cambiano molte cose. Non tanto come autore, perché ho iniziato a scrivere pensando a una possibilità per le mie opere di essere messe in scena sia in Italia che all’estero, ma il fatto che la mia “carriera” sia iniziata quando ero già a Berlino ha influenzato abbastanza anche la scrittura. Cambia anche in senso pratico, però probabilmente questo riguarda più la mia attività, comunque molto limitata, di regista, più che come autore. Come autore non riguarda tanto il mio modo di lavorare quanto la facilità o non facilità con cui un testo arriva in scena. Il sistema teatrale tedesco, ad esempio, è molto differente, i testi contemporanei possono essere messi in scena da più teatri allo stesso tempo e da registi diversi. I teatri nazionali sono molto più “stabili”, non esiste questa cosa della circuitazione e delle tournée come in Italia, in cui il tuo testo ha quel numero di repliche e basta. Per Menelao più che altro la differenza ha riguardato il modo di lavorare su questa ipotesi di messa in scena. La collaborazione con loro è nata da un mutuo amore: avevano letto il testo e l’avevano trovato interessante, ne hanno fatto una lettura drammatizzata in una rassegna che organizzano a Sasso Marconi e a me è piaciuta la loro lettura. Poi quando ERT ha proposto di produrlo mi è sembrata un’operazione interessante, proprio perché mi portava da un’altra parte rispetto al “testo letterario”. Ho lavorato con loro sull’adattamento del “testo spettacolare” per questo nuovo apparato scenico, ma i creatori sono loro, lo spettacolo ha preso la strada che loro hanno tracciato. Del resto, maschere, oggetti e pupazzi parlano in un certo modo e hanno certi tempi, alcune battute non possono e non riescono a dirle con quella velocità, quella secchezza presente nel testo. Sono elementi che sono stati eliminati in favore di una poeticità, che è sicuramente favorita dal tipo di “teatro d’artificio” che fa Teatrino Giullare. Ne acquista non solo il lato poetico ma anche quella dilatazione temporale che inizialmente non era prevista e quella sorta di nostalgia che pure c’è nel personaggio. Per me è stato molto utile lavorare con loro, mi interessava vedere anche quell’altro aspetto del testo, e anche loro hanno sempre nuove trovate e nuove idee da replica a replica.

M: In generale riesci a seguire le compagnie e gli attori che mettono in scena i tuoi testi?

D: Dipende. In alcuni casi facciamo un lavoro a tavolino sul testo prima, in altri casi per molte messe in scena non sempre riesco a seguire il processo, quindi vedo il prodotto finito. I casi sono differenti.

M: Hai accennato al grado di libertà che c’è quando i tuoi testi sono messi in scena all’estero, una sorta di agio in più rispetto al sistema italiano. Però ora stai cominciando un triennio di collaborazioni con ERT: da cos’è nato questo sodalizio?

D: Incrocio di vedute, soprattutto. Avevo conosciuto Claudio Longhi quando era in giuria al Premio Riccione, e in seguito mi ha contattato e abbiamo parlato un po’ della nostra visione del teatro e della missione del teatro pubblico. Io collaboro già da qualche anno con il teatro pubblico della Catalogna e mi interessa molto il discorso del rapporto del teatro con lo spettatore e soprattutto del recupero del pubblico. L’affinità è non solo artistica ma anche etica, legata all’idea di quale sia la missione del teatro. Questa collaborazione sta prendendo varie declinazioni, anche al di là delle produzioni o dell’ospitalità per spettacoli già prodotti, ad esempio nelle produzioni di teatro per le scuole, come sta accadendo per il progetto Classroomplay, progetto partito da un’idea di Longhi. Si tratta di spettacoli di formato leggero, con due attori, pochi oggetti e video. L’idea non è portare le scuole a teatro ma che sia il teatro ad andare nelle scuole per presentare ai ragazzi sotto un’altra luce temi di filosofia, letteratura, storia dell’arte che studiano nel programma scolastico. È importantissimo far capire a questi ragazzi che il teatro può essere uno strumento didattico divertente, profondo e soprattutto vicino alla loro quotidianità. Si tratta del pubblico del presente e del futuro.

Di Maria D’Ugo

Davide Carnevali

INTERVISTA A DAVIDE CARNEVALI

Davide Carnevali è uno dei grandi drammaturghi del teatro del presente. Dopo aver visto il suo Ritratto di donna araba che guarda il mare, in programma al Festival delle colline torinesi, lo abbiamo incontrato in questa intervista per parlare di alcuni aspetti inerenti alla rappresentazione di un testo teatrale.

Enrico Pastore: Cosa ti ha spinto a scrivere per il teatro?

Davide Carnevali: Sono arrivato al teatro un po’ per caso. Fin da piccolo volevo scrivere ma non sapevo cosa. Un po’ come tutti ho iniziato a scrivere piccoli racconti all’età di quindici, sedici anni. Poi ho incontrato una persona, la mia ragazza dell’epoca, che faceva un corso da attrice e per causa sua ho incominciato a interessarmi al teatro. Lei mi chiese di scriverle qualcosa per lei, e quindi cominciai per amore. Avevo vent’anni e non pensavo minimamente che ne avrei costruito una carriera. Il teatro ha cominciato interessarmi sempre più tanto che gradualmente ho abbandonato l’idea della letteratura per dedicarmi sempre di più alla scrittura per la scena.

Enrico Pastore: Ti faccio una domanda che apparentemente è simile ma in realtà no: perché scrivere per il teatro o, meglio, perché usare la scena come supporto alla parola scritta? Cosa regala il teatro alla parola che altri media non riescono a dare?

Davide Carnevali: Il teatro è l’unica arte che permette allo spettatore di esperire lo scontro tra il corpo e la parola. Il teatro crea la possibilità di evocare un’immagine mentale e nello stesso tempo permette che si manifesti qualcosa visivamente e corporalmente. Questa manifestazione fisica può entrare in risonanza, in accordo con la parola che l’ha evocata o anche e persino smentirla, e quindi deformare l’immagine mentale che si forma nello spettatore. Questo è l’aspetto più interessante per me.

Il teatro è arte della manifestazione fisica non della parola o, per meglio dire, lo scenario dello scontro tra logos e manifestazione fisica. La cosa interessante è che nel momento in cui qualcosa di concreto, come il corpo del performer o semplicemente un accadimento sulla scena, si manifesta davanti allo spettatore entrando in disaccordo con la parola che l’ha evocato, questo fenomeno mostra chiaramente e fa fare esperienza allo spettatore dell’insufficienza del linguaggio nel descrivere la realtà.

La cultura occidentale è logica, si fida del linguaggio e vi ha cercato sicurezza e riparo. Il teatro invece serve proprio a questo: a non portare sicurezza. E il teatro non fa tanto comprendere a livello intellettuale la rimessa in discussione del reale e l’impossibilità del logos, quanto piuttosto attraverso un’esperienza vitale.

Questa per me è stata la scoperta più interessante della scrittura per il teatro. Una scrittura che ha la possibilità da un lato di concretizzarsi in letteratura teatrale, di essere cioè un’opera autonoma nel momento in cui la scena scompare, facendosi appunto letteratura e non teatro; dall’altra di avere sempre una seconda vita nel momento in cui entra in contatto proprio con la scena che la mette in discussione e in contraddizione. Questa è la vera scrittura per il teatro e quello che cerco di fare è di conciliare queste due anime diverse di una testo teatrale. Da un lato la sua autonomia come testo letterario, dall’altra la sua insufficienza costante che si manifesta sulla scena.

Enrico Pastore: Sono parole queste che sorprendono da parte di un drammaturgo, soprattutto oggi dove sembra rinasca un teatro che rinuncia alla sua autonomia di linguaggio per il testo. Io mi sono sempre scontrato con questa mentalità convinto che il teatro sia una linguaggio artistico autonomo in cui il testo è uno dei materiali disponibili e nella messa in scena può anche venire forzato, sventrato, ricomposto, violato, e che si possa agire su di esso per contrasto e contrappunto più che in una modalità traduttiva o didascalica.

Davide Carnevali: Questo dipende anche dal modo in cui un testo è scritto. Ci sono testi che ti offrono questa possibilità e altri invece che chiudono l’ipotesi di messa in scena. La grande letteratura teatrale fino alla fine dell’Ottocento sostanzialmente è stata una letteratura di chiusura. Obbligava a un tipo di messa in scena che noi abbiamo chiamato naturalista o di teatro borghese o teatro di quarta parete. E noi abbiamo, stranamente, identificato il teatro con quel tipo di letteratura quando in realtà è molto di più. Il Novecento a partire dalle Avanguardie storiche lo ha dimostrato. Se poi invece pensi agli spettatori innocenti, chiamiamoli così, come potrebbe essere mia zia, pensano ancora che il teatro sia quello di una messa in visione di ciò che è scritto.

Enrico Pastore: io noto anche che vi sia una sorta di reazione, di ritorno al teatro come messa in scena fedele di un testo. E questo soprattutto in Italia, come una sorta di rinuncia ad approfondire la ricerca della lingua autonoma del teatro dove il testo è solo uno dei materiali possibili a disposizione della creazione scenica.

Davide Carnevali: Un problema è anche la formazione dei registi, degli autori e degli attori. Spesso lo sperimento con i miei allievi quando insegno e posso dirti che non è un fenomeno solo italiano. È difficile per loro comprendere quando un testo prepara la scena e quando no, che cosa richiede un testo dal punto di vista attoriale. Ovviamente non tutte le operazioni sono buone con tutti i materiali. Ci sono testi che smontati e rimontati perdono la loro sostanza. Ce ne sono altri invece che richiedono proprio questa opzione. È necessario che nasca questo incontro felice tra autore, regista e attori, che tutte le parti siano coscienti di cosa si può fare con quel materiale fino addirittura a richiedere un nuovo materiale.

Enrico Pastore: In relazione a questi argomenti di cui stiamo parlando tu come drammaturgo come ti poni durante l’allestimento quando la parola scritta diventa viva? In che modo partecipi, se pur vi partecipi, al processo che porta alla messa in scena?

Davide Carnevali: Dipende molto dalle circostanze. Io per anni ho semplicemente scritto e, tra l’altro, stando lontano dall’Italia. Il primo obbiettivo in questi anni è stato quello che il testo fosse rappresentabile nel più ampio contesto possibile. In differenti paesi e in differenti contesti culturali. Praticamente tutti i miei testi sono stati rappresentati prima fuori dall’Italia. Questo prevede una scrittura che mi tiene lontano dalla scena. Non voglio occuparmi dei problemi della scena in quel momento. Spesso le didascalie dei miei testi sono difficilmente rappresentabili, ma quello non è mai stato un problema se si lavora di immaginazione. Questa è stata un’opzione.

In alcuni casi ci sono stati registi che mi hanno chiesto di scrivere un testo per uno specifico progetto. In questo caso ho lavorato più in combutta con il regista anche nella pianificazione del progetto scenico.

Nelle ultime esperienze invece ho cominciato io a mettere in scena i miei testi Gli ultimi lavori che hanno debuttato negli ultimi mesi, La maleducazione transiberiana al Franco Parenti e Ritratto dell’artista da morto, che ha debuttato settimana scorsa a Monaco, in questi due casi ho scritto pensando che l’avrei messo in scena io. Il mio rapporto con la scrittura era quindi radicalmente differente. In entrambi i casi conoscevo già gli attori che l’avrebbero fatto e come. Ho cercato comunque di risolvere i problemi registici già nel processo di scrittura, cercavo di crearmi il minor numero di problemi possibili.

Enrico Pastore: ti faccio quindi una domanda inaspettata ma per me interessantissima: come regista tu come ti poni nei confronti dei tuoi testi? Che tipo di regia metti in campo?

Davide Carnevali: Che io metta in scena i miei testi non significa che io sia un regista. Non lo sono, non ho l’esperienza, non ho le competenze tecniche. I due esperimenti di quest’anno sono stati molto interessanti e importanti per me. Maleducazione transiberiana è stata una riproduzione di un modello di produzione che io conosco per aver vissuto in Argentina. Ho vissuto per un periodo a Buenos Aires è sono entrato in contatto con il teatro off argentino in cui si fa con molti pochi soldi, pochi mezzi registici, spettacoli leggeri dal punto di vista scenotecnico e questo non è dovuto solo alla mancanza di fondi quanto anche dal fatto che le sale programmano nella stessa sera due o tre spettacoli. Sono spettacoli quindi già pensati per essere montati in mezz’ora.

La mancanza di fondi poi prevede un lavoro di produzione molto spalmato in un tempo in cui l’attore fa altri lavori o altre collaborazioni perché deve guadagnarsi da vivere. I tempi di lavorazione per questo motivo superano l’anno, a volte anche due. Il mio spettacolo quindi è nato seguendo un po’ questo modello, attraverso un periodo di residenze, partendo da un mio monologo Peppa Pig prende coscienza di essere un suino che si è evoluto pezzo per pezzo, assemblandosi.

Un altro aspetto interessante del modello argentino è che spesso gli autori sono anche registi se non addirittura attori dei propri testi. Vige l’arte di arrangiarsi e quindi il mio percorso è stato improntato un po’ a questo stile. Un sorta di viaggio di formazione.

Nel caso quindi di Maleducazione transiberiana è stato attuato un modello di regia che si fa insieme agli attori, smontando e rimontando il testo in funzione di ciò che loro fanno sulla scena, seguendo quindi le loro esigenze.

In Germania invece è tutto un altro mondo produttivo. Innanzitutto è un incarico di un festival. la Muncher Biennale, in coproduzione con la Staatsoper Unter der Linden di Berlino, quindi con un capacità di produzione e con un budget, disponibilità tecniche e risorse umane imparagonabile a quello fatto in Italia.

In Germania poi il ruolo del regista è molto diverso, sempre affiancato da un dramaturg che cura molti aspetti del testo dalla comunicazione al pubblico, al programma di sala, alla revisione scenica nella verbalizzazione con l’attore.

Enrico Pastore: Parlando di Ritratto di donna araba che guarda il mare si ha quasi l’impressione che vi sia un nucleo autobiografico: qual è la genesi di questo testo? Qual è la sua intenzione, l’urgenza che porta?

Davide Carnevali: C‘è sempre un nucleo autobiografico. La vita dell’autore entra sempre nell’opera volente o nolente, implicitamente o esplicitamente. È un testo molto diverso da quello che scrivo solitamente. Tendo a utilizzare di più il registro comico. Mi interessava fare un esperimento sul linguaggio seguendo un po’ il modello francese. Penso a Claudel, Koltes, Camus. È un po’ quella l’atmosfera. Ritratto di donna araba che guarda il mare a livello formale è una storia molto semplice. Non c’è una grande sperimentazione formale sia rispetto al personaggio che all’andamento della storia. C’è un andamento cronologico lineare, con dei personaggi con una certa psicologia elementi con cui solitamente non lavoro, anzi spesso vado contro il concetto di identità, di coerenza, di sviluppo cronologico.

È un lavoro nato da un’altra esigenza, quella di lavorare sulla poeticità del linguaggio, su certe atmosfere derivate da esperienze personali, da un viaggio che io ho fatto in Marocco dove ho cominciato proprio a scrivere questo testo.

Enrico Pastore: In parte mi hai già risposto: come drammaturgo hai delle stelle polari che in qualche modo ti guidano o ispirano?

Davide Carnevali: Per me è stato fondamentale portare avanti la carriera accademica. Ho conseguito un dottorato in teoria del teatro all’Università di Barcellona e di Berlino. Lo studio dal punto di vista della critica e della teoria del teatro è stato fondamentale. In realtà le suggestioni e le ispirazioni sono venute da molte parti. Penso allo studio della storia dell’arte, soprattutto le avanguardie storiche. In verità si tratta sempre di un problema della rappresentazione della realtà. Quel è la visione del mondo che si trasmette. E questo non è solo un problema che riguarda la drammaturgia.

Ph: @Pino Montisci