Sulla compagnia Gli Omini di Pistoia si è scritto molto e i consensi sono stati pressoché unanimi per una volta assolutamente meritati. Petì Glassè presentato al Teatro della Caduta è il loro ultimo lavoro, una sorta di varietà che raccoglie alcuni dei migliori personaggi incontrati nelle loro peregrinazioni anarco-sociologiche come amano chiamarle. Un best of o potremmo anche dire un catalogo o bestiario umano, una commedia umana all’inizio del terzo millennio. Personaggi soli, coppie, filosofi in erba alla bocciofila, amanti delusi: Gli Omini presentano un florilegio di figure umane che sfilano sul palco, un caleidoscopio che riporta alla vista il gran teatro del mondo di barocca memoria. E tra quei personaggi potremmo esserci pure noi. Non siamo per niente esclusi, anzi. Forse non siamo lì solo perché Gli Omini non ci hanno incontrato e intervistato.
Un mondo di picari che sopravvive alla vita, un’umanità non tanto grande miracolo quanto folle branco di pazzi che solo con l’illusione della civiltà può credersi essere superiore. Un’immagine divertente, tenera, ma anche molto triste dell’essere umano.
In Petì Glassè Gli Omini rispolverano lo splendore del teatro comico popolare che si è sempre ispirato alla gente comune per creare i suoi personaggi migliori. Pensiamo ad Aldo Fabrizi quando faceva il vetturino, o il Mario Cioni di Roberto Benigni, e infine Troisi che in molti dei suoi personaggi respirava la vita popolare dei vicoli di Napoli. L’azione de Gli Omini è certo più scientifica. Le loro indagini cercano con bramosia le storie di cui poi i loro spettacoli si nutrono, un’azione di ricerca quasi sociologica. Una raccolta sul campo di frasi, discorsi che vengono annotati e poi diventano dramma, ma il fondo del loro agire scenico è il gran teatro popolare che del mondo ha fatto sempre luogo elettivo per cogliere i propri personaggi.
Ottima anche la qualità della recitazione de Gli Omini (che sono lo ricordiamo Francesco rotelli, Francesca Santeanesi, Luca Zacchini e Giulia Zacchini). Fresca, non libresca, né muffita oralità da teatro stabile. La lingua vera e popolare, la cadenza, l’accento, il vernacolo, il dialetto. Certo ogni tanto in questo navigar tra le lingue qualche volta si cade, come l’accento cremasco che diventa quasi veneto, ma in fondo non è questo che conta, è il colore della vita vera, delle persone che ci circondano e con noi fanno parte di questa tragicommedia infinita che è la vita.