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Tatiana Pavlova: dalla Russia con ardore

|ENRICO PASTORE

Tatiana Pavlova, esule russa (oggi diremmo ucraina essendo nata nel 1890 a Ekaterinoslav sulle rive del Dnepr), è stata la miccia che causò non pochi cambiamenti nel nostro teatro ancorato, negli anni’20, ai mattatori, ai grandi artisti solitari circondati da gregari, un teatro molto distante dalle rivoluzioni nel campo della messinscena e del lavoro sull’attore che avvenivano in altri paesi europei, Russia, Francia e Germania in testa. Ma prima di parlare delle riforme messe in moto da Tatiana Pavlova nel nostro paese, cominciamo con la sua formazione, passo fondamentale per capire la portata dei cambiamenti di cui fu fautrice.

Come lei tenne a specificare la sua famiglia: «non ha mai avuto a che fare con l’arte, mai nessuno degli avi più lontani, né da parte di mio padre, né da parte di mia madre». La sua fascinazione per il teatro nasce a scuola, dove vede i primi spettacoli, cui vuole partecipare ma viene sempre scartata perché considerata non all’altezza. Questi rifiuti anziché placare il suo desiderio, lo stimolano. Crea recite in casa con i suoi fratelli e poi all’età di otto anni comincia a frequentare il teatro cittadino e, dopo aver imparato i monologhi a memoria, li prova in casa per se stessa.

Raggiunta l’adolescenza, siamo nel 1905, anno chiave nella storia di Russia per lo scoppio dei primi moti rivoluzionari, avviene finalmente per lei l’incontro che le cambierà la vita. In città arriva la compagnia di Pavel Nikolaevič Orlenev, per recitare I fratelli Karamazov. Tatiana ne è così impressionata da chiedere un incontro con il grande attore. Quest’ultimo è un professionista di grande talento ma dal carattere difficile pronto a dissiparsi in continui eccessi eppure capace di adottare in modo autonomo un metodo simile a quello di Stanislavskij. Non bisogna dimenticare, e questo vale anche per la stessa Pavlova, che non necessariamente bisogna essere stati allievi del maestro per assaporare l’aroma del suo metodo. Le grandi idee si diffondono, si espandono dal centro di emanazione e senza paura di commettere un errore documentario e storico si può facilmente adottare il principio antropologico della diffusione di stimoli, secondo il quale appunto le idee e le pratiche viaggiano nelle parole e nei corpi degli attori a una velocità diversa e indefinibile, attraverso variazioni e differenze.

Orlenev mantiene la parola e parla con i genitori di Tatiana i quali però nicchiano e rimandano a un futuro da definirsi. La ragazza è impaziente e scappa di casa raggiungendo la successiva tappa della tournée della compagnia. Qui viene inseguita dalla madre che la riporta a casa, ma Tatiana scappa una seconda volta. La madre la raggiunge ancora ma lei parte con l’Orlenev per la Siberia. L’attore scriverà un telegramma ai genitori affermando che la ragazza ha del talento e ne varrà la pena.

Così comincia il suo duro apprendistato teatrale secondo i principi del metodo di Orlenev. Il sistema adottato prevedeva tre fasi denominate: cervello, cuore e bocca. Innanzitutto l’attore doveva studiare, non solo il copione, ma l’intera opera del drammaturgo e persino l’epoca storica e le usanze del paese d’origine (per mettere in scena Ibsen, Orlenev andò a vivere addirittura in Norvegia per comprendere l’ambiente dei drammi); a questo si aggiungeva un’analisi puntigliosa del personaggio da tutti i punti di vista. A questa fase ne seguiva una più profonda e ardua: entrare nella sensibilità del personaggio, trovare nel proprio animo gli ancoraggi dove fare aderire la personalità da interpretare. Ultima: la ricerca di gesti, modalità, intonazioni capaci di proiettare all’esterno verso lo spettatore tali sentimenti animando la parola scritta, facendola vivere. Tutto questo non passava necessariamente attraverso la verità. Tatiana Pavlova racconta su questo punto un aneddoto interessante: «Durante lo spettacolo, piansi finché potei, con lacrime vere perché quella era la mia parte, ma lui mi si avvicinò dicendo che le mie lacrime non arrivavano neanche alla ribalta. Erano lacrime vere, ma aveva ragione lui le lacrime vere non arrivavano, devono essere lacrime di artista capace di farle sentire e soprattutto di indirizzarle».

Nonostante questo per Orlenev l’interpretazione passava attraverso una riviviscenza, per: «un logorio dello spirito che si traduce in una vera e profonda sofferenza fisica». Queste parole di Tatiana fanno capire come l’Orlenev volesse dall’attore un recupero interiore dei sentimenti propri del personaggio e che tali dovessero coincidere con quelli dell’interprete, il quale doveva essere in grado di manovrarli con la tecnica affinché non venisse sommerso tanto da soccombere. Era una forma recitativa in cui si miscelavano, in un equilibrio sempre da riformulare, abbandono e controllo.

Un altro punto fondamentale del processo artistico e creativo di Pavel Orlenev era l’organicità dell’insieme degli attori i quali, condividendo un metodo, dovevano recitare insieme in un’atmosfera comune. Tale approccio era diffuso in Russia in tutti gli ambienti d’avanguardia, fosse il Teatro d’Arte di Mosca o il Teatro Drammatico di Vera Komissarievžskaija, oppure in seguito gli esperimenti di Vachtangov, Tairov o Mejerchol’d. Questa coerenza interna della compagnia sarà uno dei portati principali di Tatiana Pavlova al teatro italiano.

Il sodalizio con Orlenev dura fino al 1910 quando Tatiana decide che è il momento di fare altre esperienze anche se per il suo maestro nutrirà sempre grande ammirazione e rispetto. Nel 1911 la troviamo dunque attrice al Teatro Drammatico di Mosca. Allo scoppiò della rivoluzione, avendo un passaporto Montenegrino, come straniera riesce ad espatriare, prima a Istanbul, e in seguito a Parigi. Nella capitale francese non trova l’ambiente teatrale che si potesse adattare a lei e decide di trasferirsi in Italia giungendo a Torino nel 1919.

Non conoscendo la nostra lingua all’inizio lavora per i film muti. Torino all’epoca ospitava, sulle rive della Dora, gli studi della Ambrosio Film, la prima casa di produzione cinematografica italiana e una delle prime al mondo, in un bel edificio industriale liberty (oggi inspiegabilmente in totale abbandono dopo aver ospitato per decenni il Teatro Espace, diretto dalla famiglia Bergamasco). La Ambrosio film divenne famosa in Europa non solo per le comiche di Robinet e di Fricot, non solo per il lancio del genere Peplum di cui Gli ultimi giorni di Pompei (1908) sono il capolavoro indiscusso della casa di produzione, ma soprattutto per i film dannunziani come La Gioconda degli Olivi e La fiaccola sotto il moggio (1916), La nave (1921) e soprattutto per Cenere (1917), unica interpretazione di Eleonora Duse sulla sceneggiatura di Grazia Deledda. Per la Ambrosio Film Tatiana Pavlova girerà alcuni film muti diretti da Aleksandr Ural’ski tra cui L’orchidea fatale e La catena del 1920 e Nella morsa della colpa (1921).

Durante questa attività cinematografica Tatiana non smette di pensare al teatro ma prima di cimentarsi sulle scene italiane deve impararne la lingua. I suoi insegnati saranno Armando Falconi, Cesare Dondini, direttore del Santa Cecilia di Roma e l’attore Tullio Germinati il quale reciterà al cinema con Visconti, Rossellini e Renè Clair. Ad aiutarla in questa fase di adattamento e di lancio nel panorama teatrale italiano è affiancata da Jakov L’vov, un avvocato e impresario, che seppe prima presentarla a Giuseppe Paradossi, membro di uno dei più grandi consorzi di teatrali e di distribuzione, e poi affiancandola per limare le asprezze del carattere e l’incertezza nella lingua. L’vov sarà fondamentale anche per la venuta in Italia del Gruppo Praga, formato dai transfughi del Teatro D’arte di Mosca in esilio tra cui figurerà il regista Šestov di cui si parlerà in seguito.

Nonostante tutti gli sforzi Tatiana Pavlova non perderà mai l’accento russo che sempre la caratterizzerà nel bene e nel male (Pirandello non la sopportava mentre D’Annunzio ne lodava il fascino) e, forse, non volle mai perderlo, per mantenere un tratto caratteristico ed esotico. Nel 1923 si sente pronta quindi a fondare una propria compagnia che debutterà al Teatro Valle con Sogno d’amore di Korosotov.

Nel lavoro con la sua compagnia unisce in sé il doppio ruolo di attrice e regista benché la parola in Italia non solo non era usata, ma mal se ne comprendeva la funzione e l’utilizzo. Sarà solo nel 1931 che il critico Enrico Rocca della testata Il lavoro fascista utilizzerà il termine proprio in rapporto a un lavoro della Pavlova.

Tatiana apporta nel lavoro di compagnia le prassi imparate da Orlenev e nei teatri di Mosca spiazzando gli attori italiani abituati a ben altre pratiche. Innanzitutto il lavoro si svolgeva in tuta, studiando l’intero copione e analizzando i personaggi. Oltre allo studio collettivo si univa un training fisico con esercizi di respirazione. Tatiana applica con qualche modifica il metodo cervello-cuore-bocca di Orlenev insieme alla vulgata stanislavskiana probabilmente appresa a Mosca. Utilizza tutti i linguaggi scenici (le luci soprattutto a sottolineare i momenti chiave e i cambi di atmosfera) per dare profondità allo sviluppo attraverso una organica composizione scenica. Inoltre abolisce la buca del suggeritore e gli applausi a chiamata limitando i ringraziamenti, anch’essi comunitari, alla fine dello spettacolo e caratterizzati da un semplice chinare del capo.

La critica italiana, soprattutto Silvio D’Amico, si accorge della novità. La recitazione si fa più intensa, veritiera. Lo spettacolo risulta più organico e compatto, dove gli attori si amalgamano in un ascolto e tensione costanti. Il testo risulta più profondo e la vicenda più avvincente e commovente. Per la scena italiana è una vera rivoluzione ancora dominata dalle grandi figure di mattatori e da un lavoro concepito in solitaria, dove le prove servono solo per concertare l’azione comune, le entrate e le uscite. Così scrive Sandro Paparatti nel 1975: «Tatiana Pavlova è stata colei che ha dato nuova vita al teatro italiano, colei che ha portato una ventata di novità […], colei che diede all’attore non solo la parola, ma l’anima, il movimento, il cuore, la libertà di esprimere se stesso, pur mantenendo per il testo e per l’autore il massimo rispetto».

Ogni innovazione richiama su di sé gli strali dei detrattori e i peana dei fautori. Di certo Tatiana Pavlova fa rumore e riscuote successo. La sua compagnia alterna testi classici russi a contemporanei italiani privilegiando Bontempelli, Rosso di San Secondo, Ugo Betti, Sulla nuova drammaturgia mantiene una posizione che ancora oggi avrebbe qualcosa da insegnare ai direttori artistici dei teatri stabili: «Non è meno diffusa, né meno sbagliata, l’idea che un lavoro, per essere rappresentato, debba contare o sulla notorietà del nome dell’autore, o sull’importanza delle raccomandazioni o della posizione sociale: e sono persuasa che a un ingegno originale le porte del teatro sono assai facilmente aperte. E come siamo tutti felici allorché ci troviamo di fronte a un lavoro che appassiona e si impone, dovuto a un autore ancora ignoto, il quale è destinato a salire, un bel giorno, ad alta fama».

Tra i meriti di Tatiana Pavlova vi è anche l’umiltà di chiamare altri registi a dirigere la propria compagnia, allargando così gli strumenti a disposizione per sé e per i suoi attori. Prima collaborazione con il finnico Strenkowski che dirige il grande successo di Resurrezione di Tolstoj che riceve dal pubblico ben diciotto chiamate d’applausi ed è salutato dalla critica come il successo dell’anno. Poi è la volta di Šarov del Gruppo Praga, e poi di Evreinov. In seguito Tatiana Pavlova chiama in Italia Vladimir Nemirovič-Dančenko, fondatore insieme a Stanislavskij del Teatro D’Arte di Mosca il quale dirigerà tra il 1932 e il 1934 Il valore della vita, scritto da lui stesso, Il giardino dei ciliegi secondo il carteggio con Čechov e quindi riportando nell’opera l’atmosfera di commedia, contrariamente alla regia di Stanislavskij, e La gatta di Rino Alessi. In seguito Nemirovič-Dančenko preparerà la Pavlova per la parte di Mirandolina ne La locandiera diretta da Guido Salvini.

Questi inviti rafforzeranno l’influsso della scuola russa in Italia rivoluzionando completamente il modo di recitare e gestire uno spettacolo, oltre a consolidare l’istituto della regia il cui ruolo non è quello del dittatore che impone agli attori la propria visione ma, secondo le parole dello stesso Nemirovič-Dančenko, ripetute più volte da Pavlova, di colui che aspira a: «ottenere che gli attori siano convinti di aver fatto tutto da sé».

I meriti e le collaborazione di Tatiana Pavlova sono innumerevoli sia nel teatro, nel cinema, nell’opera (dove lavora con i cantanti come se fossero attori di prosa) e nelle prime regie teatrali televisive per la RAI. Tra questi contributi non dimenticheremo l’attenzione dedicata alla pedagogia. Tatiana Pavlova è stata infatti, insieme e su invito di Silvio D’Amico, fondatrice dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insegno dal 1935 al 1938 unendo le classi di recitazione e di regia in modo che gli allievi potessero provare quando avevano appreso. Per far questo rifiutava di stare agli orari e i suoi studenti, ammaliati dal suo sistema di insegnamento, disertavano le altre classi. Questo fu causa di attrito con Silvio D’Amico che nel 1938 la costrinse a dimettersi lanciandole accuse di anti-italianità.

Da questo momento inizia una sorta di declino scenico per Tatiana, nonostante avesse sposato Nino D’Aroma, biografo di Mussolini e direttore dell’Istituto Luce. La sua azione si dirigerà soprattutto verso l’opera lirica e il teatro televisivo. Una volta ritiratasi dalle scene continuerà a insegnare a Firenze al Piccolo Teatro.

Tatiana Pavlova fu un turbine nel sostanziale immobilismo delle scene italiane tra il 1920 e lo scoppio della Seconda Guerra. Certo c’erano le eccezioni: Petrolini, i Futuristi, Anton Giulio Bragaglia, i De Filippo, ma la consuetudine vinceva sulle novità che all’estero erano già comunemente indagate. Tatiana Pavlova ebbe però l’intelligenza di comprendere lo spirito di un paese ancora pieno di forze artistiche di grande livello e di cogliere l’aspetto più importante della cultura italiana: il connubio dello sperimentalismo con la tradizione. Certo questo si potrebbe dire di qualsiasi cultura ma forse in Italia tale aspetto è più accentuato a causa di un passato ingombrante e impossibile da ignorare. Tatiana Pavlova lo comprese e avviò una riforma percepita da pubblico e critica a volte come irruente a volte come gentile, ma di certo ferrea nella sua applicazione. In questo aspetto vanno forse ricercate le ragioni del suo successo oggi purtroppo parzialmente dimenticato nonostante le pubblicazioni anche recenti su di lei.

Ancora oggi la questione è costantemente dibattuta ma forse andrebbero mutati i termini: ogni sperimentazione si innesta in una tradizione. I due aspetti sono complementari e inscindibili. Tatiana Pavlova ne era consapevole e lo dimostra in questa sua dichiarazione: «nel cuore e nel genio di questi due artisti (Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko ndr.) il metodo è nato, o meglio rinato, dall’esperienza dei loro predecessori: e chi troviamo al posto di codesti predecessori? Lo ha dichiarato Stanislavskij in persona: un italiano, quello che l’Europa acclamò forse come il più grande attore dell’Ottocento, Tommaso Salvini».

Hanako

Hanako: il fascino della morte esotica

|ENRICO PASTORE

Hanako nacque con il nome di Hisa Ota in un piccolo villaggio nel Giappone centrale il primo anno dell’era Meiji ossia il 1868. La sua seconda nascita fu tenuta a battesimo da Loie Fuller in un albergo di Copenaghen nel 1901 dove era giunta rocambolescamente a seguito di una troupe di artisti nipponici senza aver mai prima calcato le scene.

Ecco come avvenne la sua seconda nascita raccontata dalla stessa Fuller: «Vennero tutti a salutarmi nel mio albergo e recitarono non so quale brano del loro repertorio. Scorsi allora, in mezzo agli attori, una dolce giapponesina che avrei volentieri consacrato prima attrice della compagnia. Ma per questi nipponici le donne non contavano e tutti i grandi ruoli erano realizzati da uomini. Tuttavia io avevo notato solo lei. Recitava un ruolo di terzo piano, è vero, ma con una intelligenza, con delle moine così divertenti, da topolino trotterellante. […] Quando la prova fu terminata riunii gli attori e dissi loro: se volete restare con me bisogna che mi obbediate. E se non prendete questa piccina come prima attrice non avrete alcun successo. E poiché ella aveva un nome impronunciabile, la battezzai seduta stante Hanako».

Il racconto della Fuller, allora impresaria di Sada Yacco, ci lascia intravedere alcuni aspetti interessanti: da una parte la grande abilità di impresaria di Loie Fuller nel saper fiutare il talento laddove nessuno era in grado di scorgerlo e, in secondo luogo, la sua capacità di spazzar via con un battito di ciglia l’intera tradizione giapponese che non conosceva, come la ignorava il pubblico e la critica. Loie vide in Hanako, così come aveva visto in Sada Yacco, la futura diva, la vedette esotica da mostrare allo spettatore europeo, e soprattutto francese, annoiato e sempre alla ricerca di succose novità ovunque queste provenissero. Da ultimo Loie sapeva che Hanako era portatrice di una femminilità e sensualità esotica che avrebbe elettrizzato il pubblico borghese.

Questi elementi furono fondamentali non solo per il successo di Hanako e Sada Yacco ma anche per Josephine Baker, la danzatrice nera che fece impazzire Parigi e la Francia. Il mondo dello spettacolo all’inizio del Ventesimo secolo scopriva il divismo e annesso a questo la potenza dei media di comunicazione, della stampa, della fotografia, che moltiplicavano le attese, le aspettative, i desideri. Tutto questo era amplificato dal mistero che aleggiava su tutto ciò che proveniva dall’Estremo Oriente di cui, allora, come per altri versi anche oggi, poco o nulla si sapeva.

Per comprendere appieno la capacità di Loie Fuller di spargere notizie ad arte (oggi le chiameremmo fake news) a fini pubblicitari e per aumentare le aspettative del suo potenziale pubblico ecco due episodi che ci aiutano a capire le strategie messe in atto dall’impresaria americana. Il primo riguarda Sada Yacco e su un suo presunto incontro a Buckingham Palace con la regina Vittoria al suo arrivo a Londra nel 1900. Secondo la stampa francese la Regina chiese se potesse fare qualcosa per l’attrice che l’aveva tanto impressionata e Sada Yacco rispose se potesse intercedere presso l’imperatore del Giappone pregandolo di concedere anche alle donne il diritto di andare in scena. Peccato la legge fosse già stata promulgata nel 1891! Quindi certamente la notizia arrivò ai mezzi di informazione da una fonte interessata a spargere una notizia falsa ma succosa.

Anche ad Hanako successe qualcosa di simile. Alla fine della prima tournée Hanako non tornò in Giappone ma si fermò ad Anversa. Qui la storia prende due strade diverse. La prima più veritiera racconta che Hanako non volendo tornare in Giappone dove da donna sola e abbandonata dal marito non avrebbe trovato una situazione stabile, cantò e danzò in un locale di cui in seguito acquistò la proprietà. Dopo questo passo cercò di costruire una compagnia con dei connazionali per sfruttare il successo ottenuto con la Fuller e ancora nelle menti degli spettatori. Dopo aver girato per l’Europa rimase senza soldi e chiese aiuto all’impresaria e amica americana che le offrì un secondo contratto.

La seconda storia raccontata dalla Fuller ci dipinge ben altro quadro. Hanako era stata presa in ostaggio da un connazionale che la sfruttava come ballerina e cantante per intrattenere rozzi marinai nel porto di Anversa. Hanako disperata chiese aiuto all’amica la quale inviò subito nelle Fiandre un connazionale che la liberò con sotterfugi dalle grinfie del losco oste e la riportò in treno a Parigi dove giunse povera e bisognosa. Ora il racconto è evidentemente fasullo e in realtà la Fuller pentita di aver lasciato andare troppo presto un’attrice di tanto talento, inviò al ristorante di Anversa la sua segretaria e Kaoru Yoshiwara, ex-attore e interprete. Kaoru non solo convinse Hanako a firmare nuovamente un contratto con la Fuller e a vendere il ristorante, ma divenne anche suo marito. Tutto questo ci racconta semplicemente come all’inizio del secolo le migliori menti dello spettacolo sapevano già sfruttare i media inventando notizie che potessero in qualche modo smuovere il pubblico. Tali strategie non solo le usò la Fuller, ma Marinetti, pubblicando il Primo Manifesto su Le Figaro e inventando forme di pubblicità occulta e ingannevole, e Tzara che per la sua prima serata dada parigina inviò alla stampa la notizia della certa presenza di Charlie Chaplin!

Dopo questa parentesi torniamo a Hisa Ota in arte Hanako. Come giunse in Europa? La sua infanzia e prima giovinezza è costellata di abbandoni. La sua famiglia la cedette a balia a Nagoya non potendo permettersi di mantenerla per i debiti del padre. In questa seconda famiglia fu addestrata alla danza e a suonare il Koto, una piccola arpa. Anche il secondo padre si indebitò per le scommesse e Hanako fu venduta a una compagnia di danzatrici girovaghe che attraversavano il Giappone centrale a piedi. Lasciò presto la compagnia e tornò a Nagoya dove si affiliò a una casa di geishe. Qui fu notata da un anziano costruttore che ne pagò il riscatto e la sposò. Era un uomo violento e autoritario e per Hanako non fu semplice. L’uomo però quando Hanako si innamorò di Azushima, un giovane intermediario di affari di Kyoto, la lasciò libera concedendole il divorzio, purché abbandonasse la città. La coppia partì per Yokohama, il porto aperto dagli americani al commercio con il Giappone nel 1859. Qui Azushima, finiti i soldi, fu richiamato dalla famiglia, e senza scrupolo abbandonò l’amante senza alcun sostegno. Hanako non potendo, e non volendo, tornare alla vecchia vita si imbarcò verso l’Europa con una compagnia di artisti, che dopo una tappa a Londra raggiunse la Danimarca dove fu scoperta da Loie Fuller.

Da questo momento in avanti la sua storia artistica non diverge molto da quella di Sada Yacco. Le sue performance, su testi giapponesi rivisti e riscritti secondo il gusto europeo da Loie Fuller, si basavano principalmente sulle sue famose morti in scena. A partire da La Martyre, passando Un drama au Yoshiwara, Poupèe Japonaise, La petit Japonaise e L’Ophélie japonaise, il sodalizio con la Fuller durò quasi ininterrottamente dal 1905 al 1914, attraversando tutte le migliori piazze europee e non solo. Fu ammirata da Isadora Duncan e Eleonora Duse, ma fu disprezzata da Gordon Craig, il quale non aveva risparmiato critiche nemmeno a Sada Yacco: «Hanako ci ha fatto credere a un mucchio di bugie, Lei e tutta la sua tribù ci hanno imbrogliato con l’orribile convinzione che tutto ciò che vogliamo sia il suicidio… Non lasciate che in Europa si pensi che lei e il suo modo di rappresentare in ogni più piccolo dettaglio riflettano l’arte del teatro d’Oriente. Non rappresenta il Giappone più di quanto il disegno sulle pagine centrali dell’Illustrated London News rappresenti l’antico spirito dell’India».

Una stroncatura senza appello. Gordon Craig pensava inoltre che le attrici giapponesi degradassero un’arte teatrale condotta ai massimi livelli per secoli dagli uomini, cosa per altro falsa, in quanto per secoli le donne ebbero una parte fondamentale in alcune forme spettacolari legate allo sciamanesimo e la danzatrice Okina fu la fondatrice leggendaria del teatro Kabuki. La questione però è quanto si intendesse Gordon Craig di teatro giapponese per esprimersi in questi toni. In verità non vide mai dal vivo uno spettacolo tradizionale nipponico. Tutto quello che sapeva veniva dai libri. E per questo gli sfuggì un tratto peculiare della cultura giapponese portato in scena sia da Sada Yacco sia da Hanako: la capacità di stratificare la propria tradizione con gli influssi provenienti da altre culture. Per secoli il Giappone è stato una fucina di reinvenzione di tradizioni importate dalla Cina o dalla Corea, a partire dalla scrittura, la religione, la pittura, il design. Il teatro non fece differenza. Il Nō, il Kabuki o le danze Buyo (quelle delle geishe per intendersi) incontrarono l’Occidente, utilizzarono tali elementi sovrapponendoli ai propri ma senza snaturarne i principi fondamentali.

Quello che non riusciva a comprendere Gordon Craig è che Hanako, inconsciamente e naturalmente, agì come fecero molti suoi connazionali usando le tecniche tradizionali adattandole al nuovo contesto. Non per questo erano meno giapponesi. Tutto questo è particolarmente evidente nell’incontro con Rodin, avvenuto a Marsiglia, sempre per tramite di Loie Fuller, durante l’Esposizione Coloniale del 1906, dove il grande scultore si era già innamorato delle danzatrici cambogiane. Da questa conoscenza scaturì una profonda amicizia durata negli anni.

Rodin in quel periodo era interessato a catturare il movimento nella danza. Di Hanako vide La Poupèe, la storia di una moglie gelosa dell’attenzione amore del marito verso le bambole da lui costruite. Dopo averlo scacciato di casa, un cliente entra nel negozio per cercare una bambola. L’unica che desidera è la più amata dal marito. La moglie la vende ma, pentita, si sostituisce alla bambola. Il marito tornato a casa e scoperta la vendita uccide la moglie. Rodin si innamorò dell’attrice Hanako e del suo modo straniante seppur iperrealistico di recitare e le chiese di posare per lui. Fu il soggetto più lavorato dal maestro in ben più di cinquanta maschere, oltre ai disegni e ai bozzetti. Da queste maschere, ottenute con ore e ore di posa estenuanti, per la difficoltà di mantenere le espressioni, si può intuire che ciò che per Rodin erano sentimenti ed espressioni reali impressi nel corpo, per Hanako erano i Mie, le pose tipiche del Kabuki. Un Mie, secondo la definizione che ne dà Savarese: «è un’espressione stilizzata dell’attore che culmina in una posa di tutto il corpo; enfatizza l’umore del personaggio in un dato momento del dramma, attraverso una particolare espressione del volto dopo aver mosso il torso e i fianchi».

Hanako dunque utilizzava le tecniche del Kabuki per rappresentare i sentimenti del proprio personaggio, e questo non stupisce perché nel cosiddetto mondo fluttuante, l’universo artistico giapponese, gli attori Kabuki e le geishe vivevano a stretto contatto. In origine addirittura condividevano la stessa arte. Tale vicinanza fu subito proibita dallo shogunato in quanto fautrice di disordini tra il pubblico.

Per gli Occidentali e per lo stesso Rodin, le espressioni di Hanako erano intese come l’affiorare di veri sentimenti attraverso il corpo. Niente di più lontano dal vero. Erano gesti stranianti ottenuti mediante lo studio del vero. Erano maschere in movimento. Ciò avviene in gran parte della cultura giapponese. Pensiamo ai bonsai: sono alberi veri ma non sono naturali, nel senso che sono opera dell’uomo sulla natura. E così l’Ikebana o l’arte dei giardini: per quanto si cerchi in natura non si troverà mai nulla di simile. Questa modalità era sconosciuta agli europei e Gordon Craig cercava dunque in Hanako qualcosa che non avrebbe potuto trovare perché giudicava e utilizzava parametri sbagliati. Per i giapponesi da sempre si è trattato di assimilare gli influssi e renderli nipponici e originali. La questione della verità non si è nemmeno mai posta. Essi arrivano all’essenza del dramma attraverso uno straniamento che parte del reale e lo trasformano facendo apparire il risultato a sua volta “naturale” benché non lo sia per niente. Ciò che importa è la verità del sentimento suscitato nell’osservatore.

Hanako rappresenta nella storia del teatro, in modo diverso da Sada Yacco, un suggestivo incontro con i teatri orientali proprio a causa del lavoro svolto con Rodin. Le maschere dello scultore francese ci fanno intuire un metodo di lavoro e come l’attrice giapponese utilizzasse la propria tradizione scenica pur in un contesto completamente differente. Lo sguardo occidentale, sia pro, sia contro, non seppe vedere il lavorio dell’attore su se stesso e sul personaggio perché non conosceva i fondamenti delle tradizioni estremo orientali. L’esotico non ci abbandona nemmeno oggi. Siamo sempre pronti a vedere nel diverso ciò che ci aspettiamo. La visione è qualcosa di complesso. Va coltivata e nutrita perché non sempre avere occhi significa vedere.

Sada Yacco

Sada Yacco: memoria di una geisha

| ENRICO PASTORE

La storia di Sada Kawakami, in arte Sada Yacco, è emblematica di come l’Occidente recepì l’incontro con il teatro estremo orientale: infatuazione che corre sul filo dell’acqua, un innamoramento fruttuoso ma fiorito dal germe dell’esotismo. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Europa fu contagiata dal fascino dell’arte giapponese, generato soprattutto dalle stampe di Hokusai, di Hiroshige, di Harunobu.

Possiamo farci un’idea di questo innamoramento nel ritratto di Pere Tanguy di Van Gogh dove sullo sfondo si possono notare delle stampe giapponesi e l’immancabile Monte Fuji.

Quello che accade con Sada Yacco è cruciale nella storia del teatro innanzitutto perché fu uno dei primi incontri diretti e documentati con la vita teatrale del lontano Oriente, un incrocio inaspettato, esplosivo, illuminante. Da Ellen Terry a Sarah Bernhardt, da Eleonora Duse a Isadora Duncan e Ruth St. Denis, unanime fu l’attrazione e l’ammirazione per la minuta Sada Yacco. Eppure lei non era un’attrice e quello che danzava sui palchi di tutta Europa non era nulla di tradizionale, ma qualcosa di confezionato per i nostri occhi. Qualcosa di molto simile ai menu dei ristoranti cinesi di San Francisco. Ma chi era veramente Sada Yacco e da dove nasceva la sua arte?

Sada Yacco fu allevata fin dalla prima infanzia come Geisha, uno status spesso confuso dagli occidentali con la prostituzione di lusso. E se non mancano elementi per generare questa confusione, una geisha (la cui traduzione del termine dice Gente d’arte) in realtà nasce per intrattenere l’élite e viene educata in diverse arti, dal canto, alla musica, alla danza, dalla calligrafia alla cerimonia del tè e all’ikebana. Una simulazione di affetto arricchita da alta e faticosissima educazione dedicata a chi poteva permetterselo.

Sada era una geisha con alti protettori come Ito Irobuni, più volte primo ministro, ma con aspirazioni del tutto inusuali: anziché puntare a un matrimonio di alto profilo, decise di sposarsi con uno studente per contribuire alla sua ascesa. Quello studente fu Kawakami Otojiro, il primo vero riformatore del teatro giapponese, il fautore di quello che fu chiamato Shimpa, ossia la nouvelle vague del sol levante.

Kawakami fu un giovane ribelle, vissuto per strada mangiando le offerte dei templi, finché incontrò l’intellettuale Fukuzawa Yukichi, fondatore di una delle prime moderne scuole. Inizialmente il giovane fu accolto proprio nell’istituto di Fukuzawa ma se ne fece presto espellere per riprendere i vagabondaggi. Il suo sogno segreto era diventare un influente uomo politico. In linea di principio era anche possibile. L’epoca Meiji (1868-1912) fu un periodo di grandi rivolgimenti per modernizzare il Giappone recuperando il distacco con l’Occidente senza perdere la propria anima. Il motto dell’epoca era: spirito giapponese, tecnica occidentale. Ogni rivoluzione, per quanto ben governata, porta con sé caos e nel disordine le occasioni più impensate e un certo rimescolamento della classe dirigente.

Per raggiungere il suo scopo Kawakami si lanciò in un nuovo genere: gli entetzu ossia i discorsi in pubblico, che accompagnava con ballate a sfondo politico. Si esibiva negli yosè, locali della piccola borghesia, oltre che per strada. Fu più volte arrestato per i contenuti eversivi delle sue invettive e fu solo allora, dopo il confino a Osaka, che incominciò a pensare al teatro come forma di espressione capace di metterlo al riparo dall’ingerenza delle autorità. Quale teatro aveva in mente Kawakami Otojiro?

In un primo tempo, sull’onda della riforma del 1886 del teatro Kabuki e all’azione di Nakai Chomin. Quest’ultimo fu ispiratore del nascente teatro studentesco volto a inscenare drammi politici capaci di anticipare letteralmente l’agit prop che negli anni venti del Novecento dilagò in Russia e nella Repubblica di Weimar. Il giovane cantastorie, e ora attore improvvisato, guardò a un insolito melange tra Kabuki e teatro di cronaca, cosa non impensabile perché parte della tradizione. Kawakami costituì una compagnia e mise in scena a Tokyo l’attentato al leader riformista Itagari. La rappresentazione fu un successo. E fu proprio a teatro che Sada Yacco incontrò il suo futuro marito.

Intanto nel 1891 cadde un altro tabù del teatro giapponese: si permise alle donne di recitare. Nacquero compagnie miste nonostante i pregiudizi non cessassero in quanto il pubblico era affezionato agli Onnagata, attori uomini interpreti di ruoli femminili.

Nonostante tutto il nuovo teatro si affermava e cominciava a guardare a Occidente come tutta la società Giapponese. Kawakami non fu da meno e partì nel 1893 per la Francia, lasciando le cure della sua compagnia alla futura moglie Sada.

Cosa vide oltre ad Antoine nella capitale francese è avvolto nel mistero. Certo è che tornando in patria cercò subito un drammaturgo che attualizzasse i fatti di cronaca. Come detto, anche nel Kabuki non era inconsueto il riferimento al presente, ma con Kawakami e lo shimpa questo aspetto divenne un punto di forza. Per ottenere maggiore successo, con lo scoppio della guerra cino-giapponese, Kawakami andò al fronte e non solo si fece fotografare in pose eroiche sul campo di battaglia ma mise in scena in patria i suoi racconti di guerra. Il successo gli arrise per un certo periodo tanto da arrischiare altre riforme (come il buio e il silenzio in sala sconosciuti al teatro giapponese) e arrivò persino a costruire un teatro a Tokyo, ma il successo gli fece commettere un grave errore strategico. Da attore cercò di candidarsi alle elezioni quando il pregiudizio nei confronti della categoria, considerata quasi come fuori casta, era ancora troppo forte. Fu attaccato e deriso, accusato di essere un imbroglione e un millantatore, e il teatro in costruzione cadde in mano agli usurai. Siamo nel 1898 quando, sull’orlo del baratro, a Kawakami e Sada Yacco capitò una fortuna imprevista: una tournée in America.

Qui la luce che illuminava Otojiro gradualmente si spense e si accese luminosa su Sada Yacco. In America le cose non andarono benissimo dopo un’iniziale fortuna a San Francisco nel 1899. La compagnia visse di stenti fino a Chicago (addirittura due attori morirono di fame) dove, tramite un insperato contratto per una serata sola, il 22 ottobre al Liberty Theatre, la stella di Sada Yacco cominciò a brillare.

Durante la tournée ebbero la possibilità di vedere Ellen Terry e Henry Irving recitare Shakespeare e Kawakami, sull’onda del successo ottenuto dalla moglie, fiutò una possibilità e cominciò a operare riduzioni shakespeariane. Il primo testo affrontato fu il Mercante di Venezia dove Sada Yacco era Porzia in un dramma praticamente ridotto al solo giudizio di Antonio. Sada non riuscì a imparare la parte a memoria e non fece che recitare litanie buddiste ma grazie alla sua recitazione così insolita, antinaturalistica e capace di smuovere grandi emozioni, nessuno se ne accorse e il successo fu straordinario. Ellen Terry stessa ne fu entusiasta. Fu così che Sada Yacco, attrice per ventura e non per vocazione, partì per l’Europa dove, dopo un esordio a Londra, al quale partecipò perfino la Regina Vittoria, si diresse a Parigi con un contratto con l’impresaria più spregiudicata dell’epoca: Loïe Fuller, madre delle danze serpentine.

Sada Yacco Courtesy of Cultural Path Futaba Museum

Siamo nel 1900, l’anno dell’esposizione universale e Loïe Fuller si era assicurata uno spazio in Rue de Paris proprio al centro del quartiere dei divertimenti. Attrazione principale, in quella fiera dove abbondavano le culture esotiche, fu proprio Sada Yacco dove per ben 213 volte recitò insieme al marito La Geisha e il Cavaliere, una riduzione da più testi Kabuki abbreviato a uso occidentale e in cui per la prima volta apparvero le famose morti in scena di Sada Yacco. Fu l’unico vero successo dell’Esposizione tanto da ricavare con il suo spettacolo la settima parte dell’intero incasso della manifestazione. Ma cosa videro gli spettatori? E quanto c’era di giapponese nel recitare di Sada Yacco? E i giapponesi all’estero come reagirono?

Cominciamo dal principio. Sada Yacco era una geisha, di quelle con grande talento se addirittura un primo ministro fu un suo fedele protettore, e come tale abile, dopo lunghi anni di addestramento, in varie arti tra cui la danza e il canto. Essendo interdetto alle donne il recitare, le tecniche utilizzate provenivano comunque dal Kabuki e dal Nō benché in versioni semplificate. Inoltre Sada era appassionata di teatro e poté vedere in azione sia gli attori tradizionali sia i nuovi appartenenti al movimento shimpa. Non è da sottovalutare la capacità di assimilazione dei giapponesi capaci, fin dal settimo secolo, di prendere dalle culture vicine e, nell’imitarle, variarle fino a farle proprie.

Inoltre non bisogna dimenticare l’abilità tutta nipponica di utilizzare gesti rituali anche nelle pratiche di tutti i giorni, attitudine di certo più spiccata in un epoca, come quella Meiji, ancora vicina alle tradizioni pur se in piena rivoluzione culturale. Sada Yacco dunque fece quello che gli attori di ogni latitudine fecero per migliaia di anni: apprendere per variare, utilizzare le tecniche per adattarsi ai vari pubblici.

Con questa premessa, e aggiungendo che Kawakami adattò testi del Kabuki e testi occidentali e,per i palati del pubblico europeo e americano, ridusse i tempi di esecuzione mantenendo però gli aspetti spettacolari e la sfarzosità dei costumi del teatro giapponese (nel loro bagaglio di tournée ne avevano ben dodici tonnellate), si spiega l’enorme interesse suscitato da un’attrice così insolita. Quello che videro gli spettatori non era quindi teatro tradizionale nipponico ma una rivisitazione di Kawakami. L’ignoranza dei modelli originari sommata all’infatuazione per la japonnerie, spinse a vedere ciò che non c’era. I giapponesi all’estero infatti furono scandalizzati perché percepirono una degradazione della tradizione.

Il problema sollevato dalla vicenda di Sada Yacco è il concetto di originario, già problematico in filosofia e antropologia, ma ancora più tortuoso in teatro. Cosa è originario? Ogni attore dalla notte dei tempi ha imparato delle tecniche da un maestro, le ha ibridate con quelle di altri artisti incontrati in vita e provenienti da tradizioni differenti, e poi ha tramandato la variazione ai suoi allievi in un ciclo infinito di differenza e ripetizione. Anche in Giappone il Kabuki aveva dovuto riformarsi proprio a causa dell’incontro con l’Occidente e il Nō era decaduto a causa della scarsa attenzione del pubblico. Ciò che si sarebbe visto in Giappone nel tempo di cui stiamo narrando di certo non era il Kabuki dell’epoca Edo e molti cultori giapponesi infatti storcevano il naso di fronte a questi “tradimenti” del canone.

Di certo Sada Yacco, donna proveniente da una tradizione fluttuante come il mondo artistico cui apparteneva, al talento innato sommava proprio l’abilità di ibridare le tecniche e adattarsi al pubblico occidentale davanti al quale recitava. Il suo successo fu enorme in tutta Europa: la Secessione viennese ne fece la propria bandiera, in Germania grande fu la fascinazione verso la sua arte, la Duse rimase impressionata dalle capacità della piccola Geisha. Hofmannstahl nel suo saggio Sulla pantomima scrisse: «anche l’azione più semplice può trasformarsi in cerimonia […] non vi è gesto, per quanto insignificante che non possa essere purificato ed elevato a dignità […], così erano le cerimonie di Sada Yacco, pur tra dialoghi in una lingua sconosciuta, drammi prolissi e azioni incomprensibili». Inoltre divenne un fenomeno di costume tanto che in Francia e in Italia si vendevano kimono con il suo nome.

Kimono Sada Yacco

Il successo non le arrise in egual modo in patria dove il confronto con il canone era più verificabile. Dopo le tre tournée europee e la morte di Kawakami nel 1911, Sada Yacco, insegnò per breve tempo nella scuola aperta dal marito, ma presto tornò a stringere una relazione amorosa con il suo primo amante. E in Giappone da diva divenne solo ragione di scandalo. Si ritirò dalle scene con queste parole: «Comunque un giorno/ dovrò abituarmi a nascondermi/ ed essere un fiore poco appariscente». Aprì una fabbrica di seta all’avanguardia con sole otto ore di lavoro e spazi di ricreazione comuni e attività sportive, che chiamò Kawakami. Poi di lei tutti si dimenticarono finché morì settantacinquenne sconosciuta al mondo. Queste le sue ultime parole note: la mia vita è stata uno sbaglio.

La storia e il successo di Sada Yacco, oggi purtroppo dimenticata, destino condiviso con altre, troppe, donne di quell’epoca inquieta e che seppero portare al mondo il loro talento e la loro differenza, ci parla ancor oggi dei difficili rapporti tra diverse e distanti culture. Spesso nell’altro, nel diverso, cerchiamo il conosciuto o l’esotico da cartolina. Siamo poco propensi a mettere da parte i nostri pregiudizi e osservare con lo sguardo libero e aperto. La più grande lezione della piccola geisha Sada Yacco, grande attrice per caso, forse sta proprio in questo: nella sua abilità di far vedere quello che il pubblico desiderava mantenendo inalterata l’essenza (il fiore direbbero nel Nō) della sua arte. In fondo nel teatro è sempre la stessa storia: si sta tra l’essere e il non essere, tra l’ombra e la luce, e in quello spazio della durata di un minuto brillare evocando un istante di meraviglia per l’occhio che guarda.