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Sada Yacco

Sada Yacco: memoria di una geisha

| ENRICO PASTORE

La storia di Sada Kawakami, in arte Sada Yacco, è emblematica di come l’Occidente recepì l’incontro con il teatro estremo orientale: infatuazione che corre sul filo dell’acqua, un innamoramento fruttuoso ma fiorito dal germe dell’esotismo. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Europa fu contagiata dal fascino dell’arte giapponese, generato soprattutto dalle stampe di Hokusai, di Hiroshige, di Harunobu.

Possiamo farci un’idea di questo innamoramento nel ritratto di Pere Tanguy di Van Gogh dove sullo sfondo si possono notare delle stampe giapponesi e l’immancabile Monte Fuji.

Quello che accade con Sada Yacco è cruciale nella storia del teatro innanzitutto perché fu uno dei primi incontri diretti e documentati con la vita teatrale del lontano Oriente, un incrocio inaspettato, esplosivo, illuminante. Da Ellen Terry a Sarah Bernhardt, da Eleonora Duse a Isadora Duncan e Ruth St. Denis, unanime fu l’attrazione e l’ammirazione per la minuta Sada Yacco. Eppure lei non era un’attrice e quello che danzava sui palchi di tutta Europa non era nulla di tradizionale, ma qualcosa di confezionato per i nostri occhi. Qualcosa di molto simile ai menu dei ristoranti cinesi di San Francisco. Ma chi era veramente Sada Yacco e da dove nasceva la sua arte?

Sada Yacco fu allevata fin dalla prima infanzia come Geisha, uno status spesso confuso dagli occidentali con la prostituzione di lusso. E se non mancano elementi per generare questa confusione, una geisha (la cui traduzione del termine dice Gente d’arte) in realtà nasce per intrattenere l’élite e viene educata in diverse arti, dal canto, alla musica, alla danza, dalla calligrafia alla cerimonia del tè e all’ikebana. Una simulazione di affetto arricchita da alta e faticosissima educazione dedicata a chi poteva permetterselo.

Sada era una geisha con alti protettori come Ito Irobuni, più volte primo ministro, ma con aspirazioni del tutto inusuali: anziché puntare a un matrimonio di alto profilo, decise di sposarsi con uno studente per contribuire alla sua ascesa. Quello studente fu Kawakami Otojiro, il primo vero riformatore del teatro giapponese, il fautore di quello che fu chiamato Shimpa, ossia la nouvelle vague del sol levante.

Kawakami fu un giovane ribelle, vissuto per strada mangiando le offerte dei templi, finché incontrò l’intellettuale Fukuzawa Yukichi, fondatore di una delle prime moderne scuole. Inizialmente il giovane fu accolto proprio nell’istituto di Fukuzawa ma se ne fece presto espellere per riprendere i vagabondaggi. Il suo sogno segreto era diventare un influente uomo politico. In linea di principio era anche possibile. L’epoca Meiji (1868-1912) fu un periodo di grandi rivolgimenti per modernizzare il Giappone recuperando il distacco con l’Occidente senza perdere la propria anima. Il motto dell’epoca era: spirito giapponese, tecnica occidentale. Ogni rivoluzione, per quanto ben governata, porta con sé caos e nel disordine le occasioni più impensate e un certo rimescolamento della classe dirigente.

Per raggiungere il suo scopo Kawakami si lanciò in un nuovo genere: gli entetzu ossia i discorsi in pubblico, che accompagnava con ballate a sfondo politico. Si esibiva negli yosè, locali della piccola borghesia, oltre che per strada. Fu più volte arrestato per i contenuti eversivi delle sue invettive e fu solo allora, dopo il confino a Osaka, che incominciò a pensare al teatro come forma di espressione capace di metterlo al riparo dall’ingerenza delle autorità. Quale teatro aveva in mente Kawakami Otojiro?

In un primo tempo, sull’onda della riforma del 1886 del teatro Kabuki e all’azione di Nakai Chomin. Quest’ultimo fu ispiratore del nascente teatro studentesco volto a inscenare drammi politici capaci di anticipare letteralmente l’agit prop che negli anni venti del Novecento dilagò in Russia e nella Repubblica di Weimar. Il giovane cantastorie, e ora attore improvvisato, guardò a un insolito melange tra Kabuki e teatro di cronaca, cosa non impensabile perché parte della tradizione. Kawakami costituì una compagnia e mise in scena a Tokyo l’attentato al leader riformista Itagari. La rappresentazione fu un successo. E fu proprio a teatro che Sada Yacco incontrò il suo futuro marito.

Intanto nel 1891 cadde un altro tabù del teatro giapponese: si permise alle donne di recitare. Nacquero compagnie miste nonostante i pregiudizi non cessassero in quanto il pubblico era affezionato agli Onnagata, attori uomini interpreti di ruoli femminili.

Nonostante tutto il nuovo teatro si affermava e cominciava a guardare a Occidente come tutta la società Giapponese. Kawakami non fu da meno e partì nel 1893 per la Francia, lasciando le cure della sua compagnia alla futura moglie Sada.

Cosa vide oltre ad Antoine nella capitale francese è avvolto nel mistero. Certo è che tornando in patria cercò subito un drammaturgo che attualizzasse i fatti di cronaca. Come detto, anche nel Kabuki non era inconsueto il riferimento al presente, ma con Kawakami e lo shimpa questo aspetto divenne un punto di forza. Per ottenere maggiore successo, con lo scoppio della guerra cino-giapponese, Kawakami andò al fronte e non solo si fece fotografare in pose eroiche sul campo di battaglia ma mise in scena in patria i suoi racconti di guerra. Il successo gli arrise per un certo periodo tanto da arrischiare altre riforme (come il buio e il silenzio in sala sconosciuti al teatro giapponese) e arrivò persino a costruire un teatro a Tokyo, ma il successo gli fece commettere un grave errore strategico. Da attore cercò di candidarsi alle elezioni quando il pregiudizio nei confronti della categoria, considerata quasi come fuori casta, era ancora troppo forte. Fu attaccato e deriso, accusato di essere un imbroglione e un millantatore, e il teatro in costruzione cadde in mano agli usurai. Siamo nel 1898 quando, sull’orlo del baratro, a Kawakami e Sada Yacco capitò una fortuna imprevista: una tournée in America.

Qui la luce che illuminava Otojiro gradualmente si spense e si accese luminosa su Sada Yacco. In America le cose non andarono benissimo dopo un’iniziale fortuna a San Francisco nel 1899. La compagnia visse di stenti fino a Chicago (addirittura due attori morirono di fame) dove, tramite un insperato contratto per una serata sola, il 22 ottobre al Liberty Theatre, la stella di Sada Yacco cominciò a brillare.

Durante la tournée ebbero la possibilità di vedere Ellen Terry e Henry Irving recitare Shakespeare e Kawakami, sull’onda del successo ottenuto dalla moglie, fiutò una possibilità e cominciò a operare riduzioni shakespeariane. Il primo testo affrontato fu il Mercante di Venezia dove Sada Yacco era Porzia in un dramma praticamente ridotto al solo giudizio di Antonio. Sada non riuscì a imparare la parte a memoria e non fece che recitare litanie buddiste ma grazie alla sua recitazione così insolita, antinaturalistica e capace di smuovere grandi emozioni, nessuno se ne accorse e il successo fu straordinario. Ellen Terry stessa ne fu entusiasta. Fu così che Sada Yacco, attrice per ventura e non per vocazione, partì per l’Europa dove, dopo un esordio a Londra, al quale partecipò perfino la Regina Vittoria, si diresse a Parigi con un contratto con l’impresaria più spregiudicata dell’epoca: Loïe Fuller, madre delle danze serpentine.

Sada Yacco Courtesy of Cultural Path Futaba Museum

Siamo nel 1900, l’anno dell’esposizione universale e Loïe Fuller si era assicurata uno spazio in Rue de Paris proprio al centro del quartiere dei divertimenti. Attrazione principale, in quella fiera dove abbondavano le culture esotiche, fu proprio Sada Yacco dove per ben 213 volte recitò insieme al marito La Geisha e il Cavaliere, una riduzione da più testi Kabuki abbreviato a uso occidentale e in cui per la prima volta apparvero le famose morti in scena di Sada Yacco. Fu l’unico vero successo dell’Esposizione tanto da ricavare con il suo spettacolo la settima parte dell’intero incasso della manifestazione. Ma cosa videro gli spettatori? E quanto c’era di giapponese nel recitare di Sada Yacco? E i giapponesi all’estero come reagirono?

Cominciamo dal principio. Sada Yacco era una geisha, di quelle con grande talento se addirittura un primo ministro fu un suo fedele protettore, e come tale abile, dopo lunghi anni di addestramento, in varie arti tra cui la danza e il canto. Essendo interdetto alle donne il recitare, le tecniche utilizzate provenivano comunque dal Kabuki e dal Nō benché in versioni semplificate. Inoltre Sada era appassionata di teatro e poté vedere in azione sia gli attori tradizionali sia i nuovi appartenenti al movimento shimpa. Non è da sottovalutare la capacità di assimilazione dei giapponesi capaci, fin dal settimo secolo, di prendere dalle culture vicine e, nell’imitarle, variarle fino a farle proprie.

Inoltre non bisogna dimenticare l’abilità tutta nipponica di utilizzare gesti rituali anche nelle pratiche di tutti i giorni, attitudine di certo più spiccata in un epoca, come quella Meiji, ancora vicina alle tradizioni pur se in piena rivoluzione culturale. Sada Yacco dunque fece quello che gli attori di ogni latitudine fecero per migliaia di anni: apprendere per variare, utilizzare le tecniche per adattarsi ai vari pubblici.

Con questa premessa, e aggiungendo che Kawakami adattò testi del Kabuki e testi occidentali e,per i palati del pubblico europeo e americano, ridusse i tempi di esecuzione mantenendo però gli aspetti spettacolari e la sfarzosità dei costumi del teatro giapponese (nel loro bagaglio di tournée ne avevano ben dodici tonnellate), si spiega l’enorme interesse suscitato da un’attrice così insolita. Quello che videro gli spettatori non era quindi teatro tradizionale nipponico ma una rivisitazione di Kawakami. L’ignoranza dei modelli originari sommata all’infatuazione per la japonnerie, spinse a vedere ciò che non c’era. I giapponesi all’estero infatti furono scandalizzati perché percepirono una degradazione della tradizione.

Il problema sollevato dalla vicenda di Sada Yacco è il concetto di originario, già problematico in filosofia e antropologia, ma ancora più tortuoso in teatro. Cosa è originario? Ogni attore dalla notte dei tempi ha imparato delle tecniche da un maestro, le ha ibridate con quelle di altri artisti incontrati in vita e provenienti da tradizioni differenti, e poi ha tramandato la variazione ai suoi allievi in un ciclo infinito di differenza e ripetizione. Anche in Giappone il Kabuki aveva dovuto riformarsi proprio a causa dell’incontro con l’Occidente e il Nō era decaduto a causa della scarsa attenzione del pubblico. Ciò che si sarebbe visto in Giappone nel tempo di cui stiamo narrando di certo non era il Kabuki dell’epoca Edo e molti cultori giapponesi infatti storcevano il naso di fronte a questi “tradimenti” del canone.

Di certo Sada Yacco, donna proveniente da una tradizione fluttuante come il mondo artistico cui apparteneva, al talento innato sommava proprio l’abilità di ibridare le tecniche e adattarsi al pubblico occidentale davanti al quale recitava. Il suo successo fu enorme in tutta Europa: la Secessione viennese ne fece la propria bandiera, in Germania grande fu la fascinazione verso la sua arte, la Duse rimase impressionata dalle capacità della piccola Geisha. Hofmannstahl nel suo saggio Sulla pantomima scrisse: «anche l’azione più semplice può trasformarsi in cerimonia […] non vi è gesto, per quanto insignificante che non possa essere purificato ed elevato a dignità […], così erano le cerimonie di Sada Yacco, pur tra dialoghi in una lingua sconosciuta, drammi prolissi e azioni incomprensibili». Inoltre divenne un fenomeno di costume tanto che in Francia e in Italia si vendevano kimono con il suo nome.

Kimono Sada Yacco

Il successo non le arrise in egual modo in patria dove il confronto con il canone era più verificabile. Dopo le tre tournée europee e la morte di Kawakami nel 1911, Sada Yacco, insegnò per breve tempo nella scuola aperta dal marito, ma presto tornò a stringere una relazione amorosa con il suo primo amante. E in Giappone da diva divenne solo ragione di scandalo. Si ritirò dalle scene con queste parole: «Comunque un giorno/ dovrò abituarmi a nascondermi/ ed essere un fiore poco appariscente». Aprì una fabbrica di seta all’avanguardia con sole otto ore di lavoro e spazi di ricreazione comuni e attività sportive, che chiamò Kawakami. Poi di lei tutti si dimenticarono finché morì settantacinquenne sconosciuta al mondo. Queste le sue ultime parole note: la mia vita è stata uno sbaglio.

La storia e il successo di Sada Yacco, oggi purtroppo dimenticata, destino condiviso con altre, troppe, donne di quell’epoca inquieta e che seppero portare al mondo il loro talento e la loro differenza, ci parla ancor oggi dei difficili rapporti tra diverse e distanti culture. Spesso nell’altro, nel diverso, cerchiamo il conosciuto o l’esotico da cartolina. Siamo poco propensi a mettere da parte i nostri pregiudizi e osservare con lo sguardo libero e aperto. La più grande lezione della piccola geisha Sada Yacco, grande attrice per caso, forse sta proprio in questo: nella sua abilità di far vedere quello che il pubblico desiderava mantenendo inalterata l’essenza (il fiore direbbero nel Nō) della sua arte. In fondo nel teatro è sempre la stessa storia: si sta tra l’essere e il non essere, tra l’ombra e la luce, e in quello spazio della durata di un minuto brillare evocando un istante di meraviglia per l’occhio che guarda.

Edy Craig

Edy Craig ovvero la trasformazione non chiede il permesso!

|ENRICO PASTORE

Difficile soppesare i vantaggi e gli svantaggi nell’esser nata in una tale famiglia. Oggi si parla tanto di merito, spesso dovuto al censo e alla fortuna più che ai meriti propri. Nel caso di Edy Craig, prima donna regista d’Inghilterra, la questione si fa molto complessa, perché si intreccia con il talento, quel bene inestimabile e imponderabile, così difficile da trovare, da riconoscere, da preservare.

Difficile per lei non essere attratti dal maelstrom teatrale nel quale era stata deposta dal destino. Edy Craig non è stata solo figlia d’arte di una delle più famose dive dell’Impero Britannico, quella Ellen Terry, attrice già a otto anni, prima attrice bambina insieme alla sorella Kate, e che fece a tempo a divenire stella del cinema, Edy era anche sorella di uno dei più grandi innovatori del teatro, quel Gordon Craig i cui scritti e regie fecero discutere per decenni. Come se non bastasse: Bernard Shaw era amico di famiglia.

Nonostante questo ingombrante carico genetico, Edy aveva talento e seppe fare strada a sé tanto da divenire ella stessa una delle più grandi figure di quel nuovo teatro ribollente che nasceva insieme al secolo XX. L’essere donna fu il suo vero svantaggio, tale da farla rimanere nell’ombra della storia del teatro benché, forse, fosse più radicale del fratello (minore) Gordon e avesse altrettanti motivi per essere ricordata.

Il suo apprendistato fu molteplice: costumista e attrice al Lyceum Theatre di Henry Irving, dove recitava la madre, da cui apprese i segreti del mestiere, e in seguito costumista per le prime regie di Gordon, al quale era molto legata e scambiava un fitto carteggio di pensieri teatrali. Con Gordon condivise il gusto per l’essenziale e per le scene occupate solo da pochi e significativi oggetti. Inoltre fu un’ottima illuminotecnica finendo per adottare nelle sue regie soluzioni ardite e poeticamente efficaci.

Il salto verso la regia avvenne nei primi anni del secolo nascente, un approdo condiviso con il fratello e forse ispirato dalle protoregie di Irving e di Ellen Terry. Il profumo della nuova professione era nell’aria, un ruolo tutto da inventare e che dalla Russia all’Inghilterra, passando per Parigi e Berlino, stava già producendo frutti impensati e succosi.

Edy, prima regista dell’Impero Britannico, fu fin da subito radicale nelle sue inclinazioni tanto da spingersi in un territorio incognito, dove la ricerca estetica si univa in alleanza con l’attivismo politico. L’Inghilterra edoardiana era scossa dal movimento suffragista per l’ottenimento del diritto al voto e la pari dignità della donna. L’impero britannico, già sotto il regno della regina Vittoria aveva visto avanzare un disegno di legge a firma John Stuart Mill nel 1865, ma i tempi non erano maturi. I diritti si conquistano con fatica e con immensi sacrifici. Donne di ogni ceto sociale, all’inizio del secolo iniziarono azioni dimostrative anche violente. Molte vennero arrestate e per protesta iniziarono lo sciopero della fame. Vennero sottoposte ad alimentazione forzata. Qualcuna in questa battaglia perse la vita come Emily Davison nel 1913.

La posizione di Edy Craig si mantenne su posizioni più pacifiche benché non meno intransigenti, politicamente legate al fabianesimo ispirato alle teorie di Mill, una sorta di compromesso tra il socialismo e capitalismo in cui si propugnava la dottrina del laisser-faire e la difesa della proprietà privata. La novità di Edy fu di coniugare il New Drama di Shaw e Ibsen in cui si disegnava una donna nuova, dall’animo complesso e fuori dagli schemi svenevoli, angelici e demonici della tradizione, con l’azione politica suffragista che dal 1906 al 1914 dilagava in movimento di massa.

Il risultato fu un teatro anticipatore dell’agit-prop che di lì a qualche anno sarà protagonista nella Germania di Weimar e nella Russia Sovietica. Nel 1911, anno in cui Gordon pubblica il celebre The Art of the Theatre, Edy fonda The Pioneer Players una compagnia il cui assetto giuridico si configurava come una associazione privata i cui soci (ben 375 appartenenti per lo più a un ceto sociale benestante) versavano una quota di sostegno e partecipazione. Tale escamotage permetteva di aggirare la censura non sottoponendo i testi a verifica. Nel fondare The Pioneer Players, Edy Craig si proponeva due principali obiettivi: far emergere la soggettività femminile in ogni ambito della scena, dalla drammaturgia alla recitazione; supportare con l’attività artistica le battaglie dei movimenti suffragisti sostenendoli anche economicamente con le sottoscrizioni legate alle rappresentazioni.

Edy, nel fondare The Pioneer Players, scrisse: «Non ci lasceremo scoraggiare da deprimenti discussioni circa il fatto che ci sia o non ci sia posto per noi. Crediamo che esista sempre lo spazio per un’iniziativa che stimoli il pensiero e rafforzi l’azione del cuore». Insomma: non chiediamo il permesso. Un atteggiamento oggi perduto, dove non è più la necessità il motore dell’azione artistica ma la possibilità economica. Anche in questo The Pioneer Players si distingue per le proprie scelte antieconomiche dove per regie e allestimenti si stabiliscono principi da teatro povero, pensando al recupero di oggetti desueti, utilizzo di materiali modesti, riciclo di costumi e scenografie. Una condotta anticipatoria di ciò che avverrà nei decenni seguenti soprattutto negli anni ’60 e ’70.

L’attività artistica di The Pioneer Players si dipanò tra il 1911 e il 1925 e si manifestò immediatamente come una novità assoluta per il suo essere costituita da donne. Al vertice una triade formata dalla stessa Edy Craig, da Chris St. John, dramaturg, traduttrice e critica musicale, e da Gabrielle Enthoven, donna progressista e di grande cultura. La madre Ellen Terry, nella figura di presidente, oltre a contribuire con la sua arte all’impresa, garantì l’attenzione della stampa e del pubblico in virtù del proprio prestigio.

Edy Craig e le sue alleate e collaboratrici operarono in campo drammaturgico alcune scelte ardite e visionarie per il loro tempo. Innanzitutto drammatizzarono eventi di cronaca, portando all’attenzione del pubblico le ingiustizie sociali e le ferite che dilaniavano la società britannica soprattutto nei ceti bassi. È il caso per esempio di In the Workhouse (1911), in cui si descrive la condizione delle donne povere chiuse nelle workhouses perché impedite per legge ad uscire senza il consenso del marito, e di The Thumbscrew (1912) sul lavoro delle donne e dei minori nelle famiglie indigenti. In entrambi i casi presi in esame si procedette da un caso di cronaca e da un attento e preciso studio delle condizioni sociali, legislative ed economiche. In seguito la drammatizzazione prese la via di un naturalismo intenso, soprattutto linguistico, riproducendo la viva lingua del popolo e delle classi basse. Nel caso di In the Workhouse, lo spettacolo fece così tanto scalpore e il dibattito fu così acceso da costringere l’anno seguente (1912) il governo inglese a modificare la legge sulla tutela maritale. Sembra dunque di imbatterci in un teatro capace di mutare le condizioni sociali, un teatro di cui oggi è massimo fautore Milo Rau.

Ciò che fece Edy Craig e le sue sodali fu in pratica un’azione scenica sulle stesse linee d’azione del regista svizzero nel nostro presente. Quasi un reenactement in cui in uno spazio simile alle Workhouses, sette donne parlano e discutono le loro condizioni rappresentando diverse personalità di donne sfruttate. Ciò che fece Edy Craig fu di creare dibattito politico tramite l’azione artistica, una sorta di Interpellation, per usare un termine caro a Milo Rau, scatenando nella società una reazione che costrinse le autorità a intervenire per modificare l’assetto sociale.

Altro vettore innovativo fu la riscoperta, insieme a Chris St. John che ne curò la traduzione e pubblicazione, delle opere di Rosvita, la monaca sassone dell’ordine benedettino del decimo secolo, prima drammaturga del medioevo. I testi di Rosvita conformati per la messa in scena del suo tempo prevedevano poche didascalie e la dislocazione delle scene in luoghi e tempi diversi ignorando completamente le unità aristoteliche. Questo permise una libertà interpretativa impensata rispetto ai testi moderni innescando l’inventiva di Edy Craig.

In particolare in Paphnutius (1914), storia di una prostituta redenta, vediamo in atto alcune delle idee più innovative e radicali della regista inglese. Innanzitutto dislocò l’azione (in un primo tempo pensata per il King’s Hall di Covent Garden e in seguito, per un incidente, spostata negli spazi del Savoy Theatre) in tre diversi luoghi deputati sparsi all’interno del teatro: il palcoscenico diventò il bordello, i corridoi ospitarono le scene di strada e per l’azione del coro. Inoltre allestì un ring di box per rappresentare il deserto e le dimore degli eremiti. Lo spettacolo si presentava quindi come itinerante, riportando alla luce la modalità medioevale di fruizione.

Inoltre i cori vennero utilizzati come nell’opera lirica. Costituiti da trentaquattro elementi misti cantarono salmi gregoriani e antifone, inserendosi drammaturgicamente laddove necessari e non come semplice tappeto sonoro di sottofondo. Inoltre fece largo uso di un antinaturalismo scenografico scegliendo la povertà di mezzi e quindi l’utilizzo di sacchi di iuta, paglia e cesti di giunco, una semplice croce per il deserto. Per il bordello invece, pur recuperando teli e arredi dal sapore antico, sfoggiò una maggiore ricchezza, inserendo scene di gruppo e coreografie danzate, quasi contrappunto terreno alle scene più spirituali. Tale contrasto e l’utilizzo dei cori cantati restituirono la sacralità del rito al testo medievale, la cui lingua fu comunque resa fluida e attuale.

Terza direttrice, praticata soprattutto durante gli anni di guerra dal 1914 al 1918, dove la lotta politica suffragista firmò una sorta di armistizio e di pace tra i sessi per sostenere la nazione nel conflitto, fu quella di inscenare drammi in cui la questione femminile fosse primaria ma confinata nei territori teatrali attraverso la rivalutazione dei ruoli femminili operati dai migliori drammaturghi europei: Claudel, Shaw, Evreinov, Echegaray, Maeterlinck etc. Anche la scelta di utilizzare testi provenienti da tutta Europa è un chiaro segno politico volto al superamento delle divisioni provocate dal conflitto. Da sottolineare come la Suor Beatrice di Maeterlinck messa in scena da Edy Craig fosse in linea con le scelte estetica di Mejerchol’d quando realizzò lo stesso testo nel ai tempi della collaborazione con Vera Kommissaržèvskaja nel 1906: il palcoscenico sfruttato il lunghezza, gli attori impiegati in pose statiche come dei bassorilievi su pietra, un incedere ritmico lento, ieratico, sacrale, il grande utilizzo di scene corali.

Tra i numerosi meriti di Edy Craig fu inoltre il connubio scenico con i testi della drammaturga americana Susan Glaspell. Edy Craig nel mettere in scena i lavori dell’autrice americana, i cui testi riferiscono quasi sempre a esperienze di donne costrette ai margini, decise di utilizzare lo spazio scenico come luogo della femminilità circondato da un esterno invisibile, il fuori scena, come ambiente maschile e oppressivo. In Trifles il palcoscenico è una semplice cucina, ambiente simbolo di un universo femminile casalingo, e in The Verge una serra e una torre, luoghi di rifugio dal maschile.

Edy Craig fu una delle registe più importanti dell’inizio del Novecento. Una pioniera non solo in un mestiere nascente le cui regole dovevano ancora essere scritte, ma anche nel saper coniugare la lotta politica con la ricerca estetica. Oggi pochi ricordano la sua opera, le sue innovazioni, le sue lotte. Nella storia del teatro ha grande spazio il pensiero teatrale di Gordon Craig mentre a malapena si menziona il lavoro di Edy. È tempo oggi di rivalutare l’apporto delle donne nelle prime avanguardie teatrali del secolo ventesimo. Loïe Fuller, Cléo de Mérode, Vera Kommissaržèvskaja, Sada Yacco, Hanako, Leonora Carrington, Josephine Baker e molte altre donne coraggiose, ardite, indipendenti, capaci in un’epoca molto più pregna di pregiudizi della nostra di farsi strada e di ispirare e orientare l’azione artistica d’avanguardia. È tempo di riconsiderare la storia, riscriverla se necessario, facendo riemergere le grandi donne dimenticate che hanno saputo cambiare l’estetica e il pensiero sulle arti sceniche del loro tempo con grande e immenso talento.