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Salomè balla da sola: madalena reversa al Festival delle colline torinesi 29

C’è stato un tempo in cui Salomè era un personaggio pericoloso. Da quando Oscar Wilde nel 1891 pubblicò il testo, sul corpo della principessa di Giudea si addensarono fosche nubi e rosee speranze. Per il mondo maschile si incarnavano nella sua figura tutte le ansie nei confronti della nascente Nuova Donna, ben lontana dallo stereotipo dell’angelo del focolare, una donna disobbediente, di prorompente sensualità, capace con la sua danza lasciva di far crollare i regni. Huysmann la definiva “dea dell’immortale isteria”. Per le donne, quelle che agognavano maggiori diritti, rappresentava invece la capacità di autodeterminarsi e la libertà nei costumi sessuali. La ballerina o l’attrice che impersonava Salomè sulla scena si trovava al centro di questo acceso dibattito, simbolo di minaccia alla stabilità sociale per gli uomini, paladina di libertà per le donne, soprattutto per le suffragiste. Intorno a Salomè si costruirono o vennero distrutte intere carriere.

La prima a doverla impersonare fu la divina Sarah Bernhardt, all’età di cinquant’anni, ma le prove vennero interrotte a causa del processo a Oscar Wilde che fu la prima vittima del caso Salomè. Interi brani del testo vennero letti durante il procedimento penale per dimostrare la perversione dello scrittore che fu per questo condannato a due anni di detenzione e rovinato nella reputazione. Non si riprenderà mai dall’esperienza del carcere e morì in povertà pochi anni dopo. La sua carriera fu stroncata e la principessa di Giudea bandita dalle scene inglesi fino al 1932.

Fuori dai confini inglesi invece il successo di Salomè crebbe a vista d’occhio. Non vi fu diva, danzatrice o attrice, che non si provò nella parte. Scoppiò quella che fu chiamata Salomania. La prima fu Loïe Fuller nel 1895 in una versione castigata nel costume e riabilitante nelle intenzioni. Salomè era una vittima del desiderio di Erode. Scalpore fece Ida Rubinstein che a Pietroburgo danzò quasi nuda, così come Aida Walker che nel 1908 fu la prima danzatrice afroamericana a interpretare il ruolo sconvolgendo lo stereotipo che un personaggio di razza bianca non potesse essere assunto da un’artista di colore. Salomè sbarcò perfino in Giappone nel 1914 dove Sada Yacco e Sumako Matsui ne proposero due versioni contrastanti. Sada fece una versione elegante ma molto criticata. Il pubblico non gradì il costume poco sensuale che velava l’intero corpo, ma soprattutto rimproverò alla diva la sua età. Non si poteva interpretare una giovane principessa all’età di quarantacinque anni. E pensare che la Bernhardt avrebbe dovuto recitare la parte a cinquanta. Sumako invece mostrò molto del suo corpo formoso e incontrò il plauso di pubblico e critica.

Chi pagò il prezzo più alto fu Maud Allan, la cui Vision of Salomè, scandalizzò tutta Londra, non solo perché era quasi svestita ma perché osò danzare a piedi nudi, un vero tabù sessuale dell’epoca. Ma ciò che fece infuriare i partiti di estrema destra fu l’intenzione di mettere in scena il testo di Wilde e scatenarono contro di lei una campagna diffamatoria che portò nel 1918 al clamoroso processo Perberton-Billings, dal nome del deputato che accusò la Allan di alto tradimento. La tesi di Pemberton-Billings, quanto mai fantasiosa, era che la Allan diffondesse idee perverse volte a indebolire lo spirito della gioventù e il fronte interno britannico. Il fatto poi che la Allan fosse lesbica era motivo di ulteriore riprovazione. Ancora una volta venne letta in tribunale la Salomè di Wilde e ancora una volta la sentenza puniva l’artista. La carriera della Allan fu distrutta.

Mata Hari, che non interpretò mai Salomè sulle scene nonostante avesse scritto accorate lettere a Strauss per ottenere la parte, essendo ballerina e sospetta spia, incarnò Salomè nella vita come colei che seduceva gli uomini e minava la stabilità dello stato in tempo di guerra, e venne per questo fucilata. Niente dagli atti processuali dimostra che fosse altro che un’avventuriera improvvida e sconsiderata alla ricerca di denaro per scappare con il suo giovane amante, ma nonostante questo passò alla storia come la spia per antonomasia.

Questo lungo preambolo non è uno sfoggio di conoscenza ma la necessaria premessa a una riflessione sulla Salomè seconda creazione di madalena reversa (gruppo costituito da Maria Alterno e Richard Pareschi). Fin dal foyer della Lavanderia a vapore si diffonde una fitta nebbia. Si fatica a mettere a fuoco persone e cose. Quando calano le luci la nebbia si inspessisce e vediamo Salomè (in scena Gloria Dorliguzzo) muoversi solitaria sul palco, fiocamente illuminata come sotto un lampione in una strada buia d’autunno torinese. Uno schermo ci rimanda alcune frase e domande che riguardano l’assenza degli dei, la loro morte nel nostro presente. Madalena reversa riflettono infatti sullo Spirito del nostro Tempo. Un tempo buio, dove è difficile scorgere figure significanti nella nebbia.

La Salomè che danza fatica a mantenere l’equilibrio, cammina incerta, si muove a scatti, come una sonnambula (sempre Huysmann scriveva: «pari a una sonnambula […] eletta fra tutte le catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli»). Salomè, benché privata della capacità seduttiva e della sensualità animalesca, rimane una creatura della notte. Non è più menade o sacerdotessa della luna, non possiede l’irriverenza spiritosa che le conferisce Laforgue, non sembra nemmeno una strega. Pare più un essere sofferente, sperduto nella foschia, alla ricerca di un occhio che la possa guardare e restituirle il potere di far tremare i polsi e battere il cuore.

Salomè balla da sola, non c’è Erode e il suo desiderio, a meno che non si supponga sia pubblico o il grande monolite sullo sfondo. Non c’è un capitano Narraboth che possa cadere preda della sua malia. Non c’è nemmeno un Giovanni da decollare. La solitaria danzatrice balla in un mondo sonoro elettronico e postindustriale vuoto di presenze umane e spirituali. È come se avesse perso il suo potere di mettere in discussione lo status quo e ne sia diventata piuttosto l’immagine. I madalena reversa scrivono infatti che Salomè: «si fa specchio, superficie liquida da percepire attraverso l’aura che produce».

Povera Salomè! Non più oggetto di strali e invettive, non più simbolo di liberazione e disobbedienza, non più simbolo di sensualità prorompente e pericolosa, ma solo della decadenza dei tempo. Un essere sperduto nel buio nebbioso in cerca di sé e degli altri una creatura di cui provare pietà e compassione. Salomè pare un mito che abbia perso tutto il suo smalto, come gli antichi dei di American Gods di Neil Gaiman. Di lei dicono nel programma di sala che: «si insinua nell’autoreferenzialità e nell’egotismo, nel materialismo del desiderio, nell’ultraviolenza e nel nichilismo estremo che abitano il nostro Presente». Eppure è ancora forte oggi, nel nostro tempo, il pregiudizio della donna che seduce i politici e destabilizza l’ordine sociale. Lo vediamo negli scandaletti quotidiani dove il politico maschio di turno cade preda di una donna senza scrupoli che lo accalappia con la sua sensualità. Mai che sia il maschio il seduttore, quello che mette in crisi le istituzioni con i suoi comportamenti sconsiderati. Salomè avrebbe ancora molto da dire oggi. Potrebbe ancora gridare al mondo la sua disobbedienza a quel re che la desidera quando non dovrebbe, a quei poeti che hanno visto in lei solo una sentina di vizi, a coloro che giudicano il suo desiderio come immorale. Salomè dovrebbe ritrovare fiducia in se stessa, rifiutarsi di essere simbolo delle idee degli altri e uscire dalla nebbia in tutto il suo splendore.

Edy Craig

Edy Craig ovvero la trasformazione non chiede il permesso!

|ENRICO PASTORE

Difficile soppesare i vantaggi e gli svantaggi nell’esser nata in una tale famiglia. Oggi si parla tanto di merito, spesso dovuto al censo e alla fortuna più che ai meriti propri. Nel caso di Edy Craig, prima donna regista d’Inghilterra, la questione si fa molto complessa, perché si intreccia con il talento, quel bene inestimabile e imponderabile, così difficile da trovare, da riconoscere, da preservare.

Difficile per lei non essere attratti dal maelstrom teatrale nel quale era stata deposta dal destino. Edy Craig non è stata solo figlia d’arte di una delle più famose dive dell’Impero Britannico, quella Ellen Terry, attrice già a otto anni, prima attrice bambina insieme alla sorella Kate, e che fece a tempo a divenire stella del cinema, Edy era anche sorella di uno dei più grandi innovatori del teatro, quel Gordon Craig i cui scritti e regie fecero discutere per decenni. Come se non bastasse: Bernard Shaw era amico di famiglia.

Nonostante questo ingombrante carico genetico, Edy aveva talento e seppe fare strada a sé tanto da divenire ella stessa una delle più grandi figure di quel nuovo teatro ribollente che nasceva insieme al secolo XX. L’essere donna fu il suo vero svantaggio, tale da farla rimanere nell’ombra della storia del teatro benché, forse, fosse più radicale del fratello (minore) Gordon e avesse altrettanti motivi per essere ricordata.

Il suo apprendistato fu molteplice: costumista e attrice al Lyceum Theatre di Henry Irving, dove recitava la madre, da cui apprese i segreti del mestiere, e in seguito costumista per le prime regie di Gordon, al quale era molto legata e scambiava un fitto carteggio di pensieri teatrali. Con Gordon condivise il gusto per l’essenziale e per le scene occupate solo da pochi e significativi oggetti. Inoltre fu un’ottima illuminotecnica finendo per adottare nelle sue regie soluzioni ardite e poeticamente efficaci.

Il salto verso la regia avvenne nei primi anni del secolo nascente, un approdo condiviso con il fratello e forse ispirato dalle protoregie di Irving e di Ellen Terry. Il profumo della nuova professione era nell’aria, un ruolo tutto da inventare e che dalla Russia all’Inghilterra, passando per Parigi e Berlino, stava già producendo frutti impensati e succosi.

Edy, prima regista dell’Impero Britannico, fu fin da subito radicale nelle sue inclinazioni tanto da spingersi in un territorio incognito, dove la ricerca estetica si univa in alleanza con l’attivismo politico. L’Inghilterra edoardiana era scossa dal movimento suffragista per l’ottenimento del diritto al voto e la pari dignità della donna. L’impero britannico, già sotto il regno della regina Vittoria aveva visto avanzare un disegno di legge a firma John Stuart Mill nel 1865, ma i tempi non erano maturi. I diritti si conquistano con fatica e con immensi sacrifici. Donne di ogni ceto sociale, all’inizio del secolo iniziarono azioni dimostrative anche violente. Molte vennero arrestate e per protesta iniziarono lo sciopero della fame. Vennero sottoposte ad alimentazione forzata. Qualcuna in questa battaglia perse la vita come Emily Davison nel 1913.

La posizione di Edy Craig si mantenne su posizioni più pacifiche benché non meno intransigenti, politicamente legate al fabianesimo ispirato alle teorie di Mill, una sorta di compromesso tra il socialismo e capitalismo in cui si propugnava la dottrina del laisser-faire e la difesa della proprietà privata. La novità di Edy fu di coniugare il New Drama di Shaw e Ibsen in cui si disegnava una donna nuova, dall’animo complesso e fuori dagli schemi svenevoli, angelici e demonici della tradizione, con l’azione politica suffragista che dal 1906 al 1914 dilagava in movimento di massa.

Il risultato fu un teatro anticipatore dell’agit-prop che di lì a qualche anno sarà protagonista nella Germania di Weimar e nella Russia Sovietica. Nel 1911, anno in cui Gordon pubblica il celebre The Art of the Theatre, Edy fonda The Pioneer Players una compagnia il cui assetto giuridico si configurava come una associazione privata i cui soci (ben 375 appartenenti per lo più a un ceto sociale benestante) versavano una quota di sostegno e partecipazione. Tale escamotage permetteva di aggirare la censura non sottoponendo i testi a verifica. Nel fondare The Pioneer Players, Edy Craig si proponeva due principali obiettivi: far emergere la soggettività femminile in ogni ambito della scena, dalla drammaturgia alla recitazione; supportare con l’attività artistica le battaglie dei movimenti suffragisti sostenendoli anche economicamente con le sottoscrizioni legate alle rappresentazioni.

Edy, nel fondare The Pioneer Players, scrisse: «Non ci lasceremo scoraggiare da deprimenti discussioni circa il fatto che ci sia o non ci sia posto per noi. Crediamo che esista sempre lo spazio per un’iniziativa che stimoli il pensiero e rafforzi l’azione del cuore». Insomma: non chiediamo il permesso. Un atteggiamento oggi perduto, dove non è più la necessità il motore dell’azione artistica ma la possibilità economica. Anche in questo The Pioneer Players si distingue per le proprie scelte antieconomiche dove per regie e allestimenti si stabiliscono principi da teatro povero, pensando al recupero di oggetti desueti, utilizzo di materiali modesti, riciclo di costumi e scenografie. Una condotta anticipatoria di ciò che avverrà nei decenni seguenti soprattutto negli anni ’60 e ’70.

L’attività artistica di The Pioneer Players si dipanò tra il 1911 e il 1925 e si manifestò immediatamente come una novità assoluta per il suo essere costituita da donne. Al vertice una triade formata dalla stessa Edy Craig, da Chris St. John, dramaturg, traduttrice e critica musicale, e da Gabrielle Enthoven, donna progressista e di grande cultura. La madre Ellen Terry, nella figura di presidente, oltre a contribuire con la sua arte all’impresa, garantì l’attenzione della stampa e del pubblico in virtù del proprio prestigio.

Edy Craig e le sue alleate e collaboratrici operarono in campo drammaturgico alcune scelte ardite e visionarie per il loro tempo. Innanzitutto drammatizzarono eventi di cronaca, portando all’attenzione del pubblico le ingiustizie sociali e le ferite che dilaniavano la società britannica soprattutto nei ceti bassi. È il caso per esempio di In the Workhouse (1911), in cui si descrive la condizione delle donne povere chiuse nelle workhouses perché impedite per legge ad uscire senza il consenso del marito, e di The Thumbscrew (1912) sul lavoro delle donne e dei minori nelle famiglie indigenti. In entrambi i casi presi in esame si procedette da un caso di cronaca e da un attento e preciso studio delle condizioni sociali, legislative ed economiche. In seguito la drammatizzazione prese la via di un naturalismo intenso, soprattutto linguistico, riproducendo la viva lingua del popolo e delle classi basse. Nel caso di In the Workhouse, lo spettacolo fece così tanto scalpore e il dibattito fu così acceso da costringere l’anno seguente (1912) il governo inglese a modificare la legge sulla tutela maritale. Sembra dunque di imbatterci in un teatro capace di mutare le condizioni sociali, un teatro di cui oggi è massimo fautore Milo Rau.

Ciò che fece Edy Craig e le sue sodali fu in pratica un’azione scenica sulle stesse linee d’azione del regista svizzero nel nostro presente. Quasi un reenactement in cui in uno spazio simile alle Workhouses, sette donne parlano e discutono le loro condizioni rappresentando diverse personalità di donne sfruttate. Ciò che fece Edy Craig fu di creare dibattito politico tramite l’azione artistica, una sorta di Interpellation, per usare un termine caro a Milo Rau, scatenando nella società una reazione che costrinse le autorità a intervenire per modificare l’assetto sociale.

Altro vettore innovativo fu la riscoperta, insieme a Chris St. John che ne curò la traduzione e pubblicazione, delle opere di Rosvita, la monaca sassone dell’ordine benedettino del decimo secolo, prima drammaturga del medioevo. I testi di Rosvita conformati per la messa in scena del suo tempo prevedevano poche didascalie e la dislocazione delle scene in luoghi e tempi diversi ignorando completamente le unità aristoteliche. Questo permise una libertà interpretativa impensata rispetto ai testi moderni innescando l’inventiva di Edy Craig.

In particolare in Paphnutius (1914), storia di una prostituta redenta, vediamo in atto alcune delle idee più innovative e radicali della regista inglese. Innanzitutto dislocò l’azione (in un primo tempo pensata per il King’s Hall di Covent Garden e in seguito, per un incidente, spostata negli spazi del Savoy Theatre) in tre diversi luoghi deputati sparsi all’interno del teatro: il palcoscenico diventò il bordello, i corridoi ospitarono le scene di strada e per l’azione del coro. Inoltre allestì un ring di box per rappresentare il deserto e le dimore degli eremiti. Lo spettacolo si presentava quindi come itinerante, riportando alla luce la modalità medioevale di fruizione.

Inoltre i cori vennero utilizzati come nell’opera lirica. Costituiti da trentaquattro elementi misti cantarono salmi gregoriani e antifone, inserendosi drammaturgicamente laddove necessari e non come semplice tappeto sonoro di sottofondo. Inoltre fece largo uso di un antinaturalismo scenografico scegliendo la povertà di mezzi e quindi l’utilizzo di sacchi di iuta, paglia e cesti di giunco, una semplice croce per il deserto. Per il bordello invece, pur recuperando teli e arredi dal sapore antico, sfoggiò una maggiore ricchezza, inserendo scene di gruppo e coreografie danzate, quasi contrappunto terreno alle scene più spirituali. Tale contrasto e l’utilizzo dei cori cantati restituirono la sacralità del rito al testo medievale, la cui lingua fu comunque resa fluida e attuale.

Terza direttrice, praticata soprattutto durante gli anni di guerra dal 1914 al 1918, dove la lotta politica suffragista firmò una sorta di armistizio e di pace tra i sessi per sostenere la nazione nel conflitto, fu quella di inscenare drammi in cui la questione femminile fosse primaria ma confinata nei territori teatrali attraverso la rivalutazione dei ruoli femminili operati dai migliori drammaturghi europei: Claudel, Shaw, Evreinov, Echegaray, Maeterlinck etc. Anche la scelta di utilizzare testi provenienti da tutta Europa è un chiaro segno politico volto al superamento delle divisioni provocate dal conflitto. Da sottolineare come la Suor Beatrice di Maeterlinck messa in scena da Edy Craig fosse in linea con le scelte estetica di Mejerchol’d quando realizzò lo stesso testo nel ai tempi della collaborazione con Vera Kommissaržèvskaja nel 1906: il palcoscenico sfruttato il lunghezza, gli attori impiegati in pose statiche come dei bassorilievi su pietra, un incedere ritmico lento, ieratico, sacrale, il grande utilizzo di scene corali.

Tra i numerosi meriti di Edy Craig fu inoltre il connubio scenico con i testi della drammaturga americana Susan Glaspell. Edy Craig nel mettere in scena i lavori dell’autrice americana, i cui testi riferiscono quasi sempre a esperienze di donne costrette ai margini, decise di utilizzare lo spazio scenico come luogo della femminilità circondato da un esterno invisibile, il fuori scena, come ambiente maschile e oppressivo. In Trifles il palcoscenico è una semplice cucina, ambiente simbolo di un universo femminile casalingo, e in The Verge una serra e una torre, luoghi di rifugio dal maschile.

Edy Craig fu una delle registe più importanti dell’inizio del Novecento. Una pioniera non solo in un mestiere nascente le cui regole dovevano ancora essere scritte, ma anche nel saper coniugare la lotta politica con la ricerca estetica. Oggi pochi ricordano la sua opera, le sue innovazioni, le sue lotte. Nella storia del teatro ha grande spazio il pensiero teatrale di Gordon Craig mentre a malapena si menziona il lavoro di Edy. È tempo oggi di rivalutare l’apporto delle donne nelle prime avanguardie teatrali del secolo ventesimo. Loïe Fuller, Cléo de Mérode, Vera Kommissaržèvskaja, Sada Yacco, Hanako, Leonora Carrington, Josephine Baker e molte altre donne coraggiose, ardite, indipendenti, capaci in un’epoca molto più pregna di pregiudizi della nostra di farsi strada e di ispirare e orientare l’azione artistica d’avanguardia. È tempo di riconsiderare la storia, riscriverla se necessario, facendo riemergere le grandi donne dimenticate che hanno saputo cambiare l’estetica e il pensiero sulle arti sceniche del loro tempo con grande e immenso talento.