Macbeth

MACBETH di G.Verdi regia di Emma Dante

Macbeth è una caduta nel più profondo degli abissi. Un franare precipitoso, senza pause, senza indugi, in accelerazione costante fino allo schianto. Così in Shakespeare, parimenti in Verdi. E per seguire il precipitare sia il Bardo che Verdi sacrificano la forma, diventano spicci, si corre all’omicidio, alla strage, alla caduta.

Macbeth è tragedia nerissima del potere, ché pien di misfatti è il calle della potenza. Tragedia perché il fato spinge Macbeth verso l’abisso, par quasi che non abbia scelta, eppur c’è sempre una scelta, ma Macbeth è cieco, così come la sposa sua crudele. Non vedono alternative. L’immaginazione loro li spinge in alto e a fondo, a immergersi in un fiume di sangue e delitto. E se Macbeth dubita, lei lo pungola e lo sfida e ogni paura si smaga e svanisce. Se tra i coniugi infernali in Shakespeare c’è un rapporto di simbiosi, per Verdi/Piave, è Lady Macbeth (incarnato dal soprano Anna Pirozzi in un’ottima interpretazione) colei che detiene il potere nella coppia. Macbeth è burattino nelle mani della sua Lady e del destino.

Nell’oscura notte di questa tragedia, dove solo le nebbie e le funeste brame dei potenti si agitano, dove il sonno pare proibito, terzo personaggio plurimo come sciame, sono le streghe, popolo a parte, paria del mondo civile, ma di esso motore e stimolo.

Mondo di istinti e desiderio, orribile, mostruoso e deforme, è colmo di fascino, misterioso e sensuale. Attrae Macbeth come tela di ragno, lasciandolo invischiato, sempre più impossibilitato a mosse libere, sempre più prossimo allo scacco matto e alla perdizione.

E la musica di Verdi coglie appieno questo oscillare e fremere di mondi adiacenti. Le arie non sono mai completamente bel canto, le marce da bel mondo civile si affiancano ai toni cupi e notturni. Effetti di contrasto, percussioni e trilli. Si toccano gli estremi, perché nulla di medio avviene in questa tragedia. Si beve il calice della violenza fino all’ultima goccia: si apre la scena nel sangue della battaglia, si chiude su Macbeth trafitto da mille lame. Sangue chiama sangue, si cade senza paracadute.

È un continuo oscillare anche nella regia di Emma Dante in questo allestimento andato in scena al Teatro Regio di Torino. A scene molto riuscite, seguono altre più meccaniche, farraginose, di movimento schematico.

Suggestiva la scena iniziale dove un telo ribollente di vita oscura rivela le streghe, moltiplicate in legione. Molto riuscita la marcia del primo atto, dove ballerine da carillon, un giullare, soldati da opera di pupi, conducono come in processione il re Duncano verso il suo fatal destino. Come se tutto fosse stordente fiera, una macabra burla. E così la scena successiva dove Macbeth si sdoppia, diventa duplice, un doppio generato dalla sua immaginazione prolettica ma ancora dubitosa. E così il delitto si moltiplica prima nella finzione e poi nella realtà. Si reitera fino al compimento.

La messinscena acquista toni religiosi quasi da deposizione cristica nel ritrovamento del cadavere del buon re Duncano anche se nel reiterarla si perde un poco di potenza.

Ottima la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth, dove il sonno negato viene reso per contrasto da un proliferare di letti d’ospedale, in autonomo movimento, lenti ma inesorabili all’assedio dell’inferma regicida sotto una stellata di lumini, anch’essi multipli della candelina shakespiriana.

Meno riuscite le scene del sabba delle streghe, in un moltiplicarsi di parti osceni, quasi un deporre di uova di malefico sciame. E quel cumulo di neonati forse un po’ troppo sopra le righe e fuori dal seminato, sebbene simbolo di una reazione malvagia, quella che si scatena nel percorrere il sentiero del delitto. Anche il finale della foresta di Birnam in mossa contro il tiranno, fatta di pale di foglie di fico, come il movimento dei soldati in accerchiamento di Macbeth a spade sguainate. Troppo meccanica, in movimento forzato e schematico benché molto potente nella sua chiusa con decine di spade a confluire sul corpo del malvagio caduto.

Riuscita nonostante un certo addensamento claustrofobico la scena del banchetto, dove Macbeth in preda alle visioni del fantasma di Banco, si inerpica in una scala di troni che lo vedono prigioniero sul gradino più alto. Per scendere non può far altro che gettarsi nel vuoto. E quelle corone, quasi inferriata di prigione, fatte di lance, lo costringono sempre più detenuto dei suoi desideri.

Un Macbeth riuscito, potente ed espressivo, in cui la regia di Emma Dante conferisce, nonostante alcune forzature e piccoli difetti di movimento, a conferire un surplus di corpo alla possente visionarietà della musica verdiana.

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