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Tommaso Serratore

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A TOMMASO SERRATORE

Per la quarantunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Tommaso Serratore, friulano di nascita e torinese d’adozione. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Tommaso Serratore è danzatore e coreografo associato a VersiliaDanza e più volte collaboratore di Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori recenti ricordiamo: L’esatto Colore del Dubbio, La Leggerezza del Divenire, Passenger_ il coraggio di stare, Mr. Furry.

Tommaso Serratore
Tommaso Serratore Mr. Furry ph: @Andrea Valenti

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

I processi creativi degli autori sono molteplici e soprattutto personali; ognuno trova la sua modalità di approccio ad un tema che può essere più o meno di richiamo sullo spettatore. La particolarità della creazione scenica sta proprio nella capacità dell’autore di esternare il suo immaginario in maniera unica e riconoscibile, portando lo sguardo dello spettatore dentro a una personale visione.

Da spettatore, le rappresentazioni più avvincenti sono quelle che mi coinvolgono non solo per l’interpretazione dei protagonisti, ma anche per la cura di tutta la regia. Luce, suono, azione e ogni aspetto drammaturgico ed estetico devono fondersi all’unisono per rendere spettacolare una creazione.

Qualche anno fa mio padre, all’epoca era un ragioniere cinquantacinquenne, è venuto a vedere un mio spettacolo nel carcere di Teramo. La location e gli interpreti (semiprofessionisti e detenuti) erano sicuramente eccezionali e l’insieme dei mestieri (suono, luce, videomapping) ha trasformato quattro mura di uno spazio grigio e senza immaginario, in qualcosa di magico e possibile.

Mio padre alla fine della performance era commosso in silenzio, senza sapere effettivamente perché. In quella occasione ho percepito l’efficacia di una mia creazione, site specific, facendomi comprendere la responsabilità come autore di dover portare in Teatro quel tipo di suggestioni.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so se è corretto definire “evoluto” questo sistema, sicuramente sono aumentate le possibilità, si sono moltiplicati i bandi per accedere a benefici, ma spesso questi si riducono a una rendicontazione economica senza una reale cura, attenzione o investimento sull’artista.

Personalmente posso dire che tutte le esperienze più significative e più durature del mio percorso artistico fanno riferimento a contatti diretti, conoscenze sul campo, scambi tra individui.

La drammatica situazione conseguente al COVID19 sta sicuramente mettendo allo scoperto la realtà del sistema: finalmente gli artisti stanno cercando di fare corpo unico all’emergere delle criticità concrete di un mestiere che presenta una serie di specificità. Superata questa emergenza, i lavoratori dello spettacolo dovranno rimanere uniti per riorganizzare l’intero impianto, dalle scuole di danza al sistema produttivo e distributivo ministeriale, non per sopravvivere, ma per essere riconosciuti come lavoratori e dare dignità a coloro che alla danza hanno dato il valore di una professione. Parlando con alcuni colleghi anche stranieri si è pensato alla necessità di istituire un provvedimento unico europeo in grado di equiparare i titoli di studi, tutelare gli artisti in egual misura, oltre che favorire la mobilità.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Effettivamente gli artisti sono per lo più autodidatti, si fanno da sé, diventando autori, interpreti, videomaker, manager delle proprie creazioni. Ci sono quelli che riescono a mantenere una propria identità intellettuale e quelli che procedono secondo le richieste del sistema distributivo contemporaneo. Sono strategie diverse, scelte che ogni artista è portato a fare. Attualmente i budget di produzione sono minimi e i festival premiano i lavori agili, assoli senza scenografie e con impianti tecnici ridotti al minimo. Tutto ciò uniforma il livello artistico.

In questo momento l’artista si ritrova a doversi occupare più di questioni amministrative e gestionali e meno di ricerca artistica, al punto che gli spettacoli spesso rispondono a una disponibilità economica e non a una necessità comunicativa. Spesso non c’è alle spalle un percorso creativo che va a costruire un messaggio esplicito da condividere con il pubblico. Inoltre questa tendenza sta provocando la scomparsa di figure professionali come quelle di costumisti, scenografi, macchinisti e tanti altri. L’artista continua ad essere il manager di se stesso in quanto, ad oggi, non è sostenibile economicamente avere accanto un manager che provvederebbe al meglio nelle forme contrattuali, mantenendo così separati i ruoli. Ad ogni modo sembra non esserci spazio per gli artisti che cercano un dialogo con gli operatori del settore. Questi, nonostante gli inviti, non si muovono molto volentieri per andare a vedere gli spettacoli degli artisti, se non in contesti a loro dedicati. Mi piacerebbe vedere più operatori e direttori con occhi curiosi nei teatri, penso dovrebbe parte del loro mestiere. Per questo non penso che il sistema si sia evoluto. Si risolve tutto con un bando, un video, con link, quando lo spettacolo dev’essere guardato dal vivo.

L’idea che potrebbe alleggerire gli artisti nel lavoro di comunicazione e promozione dei propri lavori potrebbe essere quella di istituire un albo annuale degli spettacoli prodotti in Italia cosi che anche gli operatori, direttori e critici, possano avere una panoramica completa delle produzioni promosse in tutto il Paese; un documento da redigere ogni anno che include tutte le schede complete degli spettacoli prodotti dalle compagnie italiane nell’arco di 12 mesi. Ciò garantirebbe una visibilità a tutti gli artisti e la possibilità, per i direttori artistici, di manifestare interesse agli spettacoli secondo la mission specifica del festival o della stagione, in particolare in un periodo come questo in cui sarebbe auspicabile sostenere il “made in Italy”.

Tommaso Serratore Passenger ph: Salvatore Insana

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il Teatro oggi ha perso la sua funzione sociale; è venuto meno, da parte del pubblico, tutto il rituale che si accompagna alla visione: spesso si arriva in ritardo e si scappa al termine, manca quel momento di condivisione tra pubblico e artista che spesso è la parte più gratificante per una persona che crede nel suo lavoro. Siamo nell’era dell’istantaneo, ma il teatro è un’altra cosa. Bisogna concedersi il lusso di prendersi del tempo.

Sicuramente i social network e le varie piattaforme hanno accelerato il processo di uniformità delle poetiche riducendo l’apporto creativo e artistico, collocando l’attenzione su ciò che è più riconoscibile. Il digitale è una bella vetrina, è allettante, può rendere tutto brillante, ma se le aspettative diventano alte, poi la realtà deve corrispondere alle attese.

Per me questo mestiere è artigianale, vivo, materiale. Amo vivere il teatro, allestirlo, costruirlo, inventarlo, disegnarlo con le luci, ambientarlo con i suoni. Il Teatro è una stratificazione di mestieri, è quindi il risultato di tante competenze messe assieme. Lo spettacolo dal vivo coinvolge i nostri sensi, si percepisce la profondità, si sentono i respiri, si godono i vuoti, ci avvolge in una atmosfera unica che di volta in volta crea una nuova empatia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il processo creativo di un artista trova la sua forza nella realtà in cui vive, che attraversa, che incontra. Non a caso, le diverse correnti stilistiche della danza si riconoscono per ambito geografico, a seconda della realtà in cui si risiede. Un atto creativo è porre l’attenzione su un aspetto della realtà che altrimenti rimarrebbe invisibile; la bellezza di un lavoro sta proprio nel riuscire a trasporre una situazione, un concetto, un pensiero reale inducendo chi osserva a entrare nell’immaginario dell’artista. E’ solo attraverso l’incontro con lo spettatore che la performance rivive la realtà. L’efficacia dell’atto creativo sta nella lettura visiva, nel saper cogliere ciò che c’è di autentico in quello che si vede. In questo campo i bambini sono straordinari, stimolano lo sguardo, i sensi e la fantasia, rendendo possibile ogni visione. Risvegliare quel tipo di sguardo permetterebbe all’adulto di non ricercare sottotesti in quello che vede ma di scendere al concreto prendendo per buono quello che c’è.

Zelda

VITE E PENSIERI D’ARTISTA: Zelda di Piccola Compagnia della Magnolia e Zona Tarkovskij di Versiliadanza

Continua la stagione di Officine Caos/Stalker Teatro con due lavori intensi e forti come Zelda di Piccola Compagnia della Magnolia e Zona Tarkovskij di Versiliadanza. Due lavori accomunati dall’esplorazione della vita e del pensiero di due artisti a loro modo unici ed eccezionali.

Entrati in sala veniamo precipitati in piena Zona Tarkovskij, accolti dalle immagini di Stalker proiettate sullo schermo. Quel tubo infinito, la pioggia cadente, una vaga luce a illuminare la parete del condotto più avanti, appena dopo la curva. E poi le parole e i pensieri del grande regista, la sua fede che l’arte potesse portare grazia in questo vasto mondo che respira.

Una danza minima, fatta di piccoli gesti, tensioni muscolari che si distendono piano, senza fretta, come fiori che sbocciano con fatica e pazienza. Equilibri sul punto di rottura, gesti semplici e fragili a ricordare la grazia di Tarkovskij nel raccontare la struggente bellezza del mondo nell’inquadrare piccoli resti abbandonati in una putrida pozza d’acqua.

La Zona Tarkovskij è in fondo tutta lì, in questi detriti abbandonati, come d’alieni dopo un picnic, come nel romanzo dei Fratelli Strugavskij che hanno dato origine alla leggenda degli Stalker. Le crepe nel muro bianco, la luce che illumina quel povero specchio nel bagno, l’erba scossa dal vento, la polvere vorticante nell’aria assolata.

La musica di un violoncello dal vivo accompagna le immagini, la danza e le parole del grande regista. Tutto scivola lento, come nei suoi film, tutto trova una sua dimensione fragile, impermanente e perciò irripetibile e magnifica. Da tutto traspare l’amore dei giapponesi per la bellezza di un fiore di ciliegio assediata dall’istante successivo che gli darà morte e putrescenza.

Attraversata la Zona Tarkovskij ci troviamo invece in una sala da ospedale. Un letto inclinato verso di noi, la malata tenuemente illuminata da una luce fioca che non le offende gli occhi, e ci rimanda l’immagine di Munch nella sua Bambina malata.

La donna in quella vestaglietta rosa come la copertina e come i fiori abbandonati sotto il suo letto è Zelda, la moglie di Francis Scott Fitzgerald, l’autore de Il grande Gatsby e Tenera è la notte. Zelda è scrittrice anche lei, abbandonata schizofrenica in un letto di un oscuro ospedale, e ricorda, a sprazzi, a frammenti, a rigurgiti, l’età del jazz, la New York sfavillante prima della crisi del ’29, quella delle paillettes e del foxtrot.

I racconti di Zelda sono come pezzi di uno specchio rotto. Non si percepisce l’immagine intera, solo alcune sensazioni, amori barcollanti tra la gioia e l’incomprensione, viaggi in prima classe per un’Europa pronta a essere sacrificata nel mattatoio della guerra mondiale, l’Alabama e New York.

Tutto si affolla nella mente malata di Zelda ma in qualche modo ci fornisce un’immagine di un’epoca e di una vita cucita come il manto di Arlecchino. Dalle lenzuola rosa fuoriescono i ricordi in forma d’oggetti: un anello, una lettera, un articolo di giornale, uno specchietto per signora, le scarpette da ballerina. Una sorta di Vanitas vanitatum di barocca memoria.

Brava Giorgia Cerruti nella sua prova d’attrice. Il suo volto e le sue mani sole a disegnare mille immagini e sentimenti di questa donna unica nella sua ininquadrabile eccezionalità svanita dal mondo nelle fiamme d’incendio dell’ospedale che la recludeva, ricongiunta a Francis nel gelo del sarcofago.

Zona Tarkovskij e Zelda sono due lavori diversi ma accomunati da una grazia più intellettuale che emotiva, eseguiti con tecnica ineccepibile e padronanza di mezzi espressivi che non sempre si incontra. Ma sono anche due lavori freddi, che concedono poco alla commozione, che illuminano più il piacere dell’intelletto che le vampe ruggenti e affamate dell’emozione.

Una grazia che rispetta più la temperatura esterna che dimostrarsi un preavviso di un’estate. Seppur bella la regina d’inverno cattura l’occhio vorace ma non ci scalda il cuore.