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Caterina Pontrandolfo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CATERINA PONTRANDOLFO

Per la cinquantunesima e, a meno di arrivi in zona cesarini, ultima intervista incontriamo Caterina Pontrandolfo. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Caterina Pontrandolfo è attrice, performer, drammaturga, regista, poetessa, cantante e ricercatrice lucana, conduce un’articolata attività artistica che sviluppa in molti ambiti espressivi: dal teatro, al cinema, alla scrittura, alla ricerca etno-musicologica e antropologica, al canto popolare. E’ ideatrice e direttrice artistica del progetto Peace Women Singing.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica è un lungo processo che parte da lontano, e ha per me caratteristiche sempre diverse, secondo che parta dalla scrittura ad esempio di un testo originale, oppure da un canto, oppure dall’innamoramento per le storie, le biografie. Ma anche per i luoghi, da cui inizio per costruire progetti che coinvolgono diversi aspetti: dalla ricerca antropologica ed etno-musicologica sul campo, raccogliendo decine e decine di interviste, alle fasi di laboratorio che in genere mettono insieme artisti professionisti e non professionisti, alla fase di scrittura che è sia scrittura scenica chea tavolino, alla fase di allestimento vero e proprio come sintesi ultima di tutto questo ampio processo. La questione creativa in genere incomincia a manifestarsi quando mi passa per la mente un’”immagine”, e magari si sta nel frattempo lavorando a tutt’altra cosa. E’ chiaro che si tratta di un’immaginazione inserita in un processo più ampio di continua relazione con la realtà, con le riflessioni che dalla sua osservazione scaturiscono in connessione con la propria storia artistica e umana. Questa immagine la definirei l’immagine-madre: è in genere un’immagine, o una serie di immagini, molto precisa che mi suscita emozione, felicità, desiderio di raggiungerla. E’ qualcosa di molto concreto, non astratto, che prevede fin da subito la presenza di un pubblico. Intorno a questa immagine-madre ecco che incominciano a muoversi diversi elementi, si attivano cioè tutte quelle azioni necessarie e indispensabili per arrivare alla creazione-realizzazione vera e propria sulla scena. Quando lavoro a progetti miei, amo curare ogni cosa: dalla ideazione, alla progettazione, alla ricerca di fondi, e di collaborazioni. Sulla scena ecco che poi questa immaginazione iniziale da cui è scaturita la concretezza del fare, dialoga, si muove e cresce come un pane lievitato. In questo senso forse la peculiarità della creazione scenica è proprio la trasformazione di elementi inizialmente separati in un sistema coerente di segni in grado di costruire l’emozione e l’interesse dello spettatore, visto non come entità anonima e astratta, ma come “proprio sguardo”. Quindi anche in fase di creazione il mio proprio sguardo, sdoppiato anche in sguardo di spettatrice, agisce come guida, senza pretese naturalmente di verità assoluta. L’efficacia di tutto questo processo creativo, la sua buona temperatura, inoltre ha a che fare per me con una condizione emotiva molto precisa che oserei dire di “felicità”.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Sicuramente coordinare meglio sia l’informazione relativa alle molteplici possibilità finanziarie esistenti oggi per la produzione, sia semplificare questi strumenti stessi per aumentare la capacità di accedere a queste fonti produttive. L’informazione e la facilitazione poi dovrebbe soprattutto riguardare gli strumenti finanziari della Comunità Europea e noi artisti stessi affacciarci maggiormente sulle immense possibilità di scambio economico e artistico che derivano dal far parte di questa Comunità. Pensarsi più europei gioverebbe sicuramente alla capacità di sfruttare queste grandi possibilità che arrivano dall’ Europa. Un ragionamento poi dovrebbe essere quello di favorire artiste/i e gruppi nella continuità produttiva per rafforzare il processo di ricerca che si va compiendo, piuttosto che finanziare singoli progetti. Molti e molte artiste della mia generazione hanno imparato a cercare i fondi per la realizzazione dei propri progetti artistici. Nulla di nuovo in realtà perché anche l’antica tradizione del capocomico presumeva questa capacità di cercare le fonti finanziarie per realizzare i propri spettacoli, una fra tutte: Isabella Andreini, e staimo parlando del ‘500. Forse oggi bisognerebbe avere anche il coraggio di fare un teatro d’arte non sovvenzionato, ma basato sugli incassi come insegna tutto il teatro del primo Novecento, quando non c’era un sistema di sovvenzioni pubbliche. Per progetti più complessi però è indispensabile l’accesso a fonti finanziarie pubbliche o private. Anche qui sarebbe opportuno creare le basi per la continuità progettuale di artisti e compagnie.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Sì è cosi. A tutti i livelli e in tutti gli ambiti dal teatro, alla musica, alla danza ogni anno c’è davvero un’esplosione produttiva segno di grandissima vitalità, che però non è sostenuta da una efficace rete distributiva. Non solo le piccole e medie realtà, anche i teatri stabili/nazionali soffrono di questa questione. Anni fa come attrice coinvolta in un interessantissimo progetto di produzione all’interno di uno dei nostri Teatri Stabili, mi stupii della mancata circuitazione di queste produzioni. Mi chiedevo come fosse possibile da un punto di vista meramente economico, investire senza avere la preoccupazione di un rientro dell’investimento se non totale, almeno parziale. Credo che la distribuzione sia proprio una debolezza strutturale del nostro sistema. E’ molto difficile ad esempio seguire il percorso di un artista e se magari perdi quell’occasione di vedere quello spettacolo in quel festival o in quel cartellone non è detto che se ne presentino altre. Poi ci sono i circuiti chiusi e invalicabili nei quali si muovono solo alcuni, come se ogni circuito avesse a cuore una sua precisa e incontestabile identità senza aprirsi al nuovo, anche con i rischi che questo comporta, senza curiosità. La sensazione è di una grande frammentazione. E sembra davvero un paradosso. Io stessa nella mia vita professionale, dal momento in cui ho cercato di muovermi autonomamente ho prodotto molto a tutti i livelli: spettacoli che ho scritto come autrice e per i quali ho trovato alcuni canali produttivi attraverso teatri, festival oppure in co-produzione, o attraverso premi di produzione, residenze etc… Anche quando ho elaborato percorsi più complessi che hanno previsto lunghe fasi di elaborazione e ricerca, coinvolgimento nel processo di creazione di comunità articolate di artisti e abitanti ad esempio, sono stata in grado di realizzare cose importanti. Ma la circuitazione di quanto prodotto non è il passaggio naturale successivo. Non sarebbe una cattiva idea pensare a strumenti finanziari che sostengano la distribuzione oltreché la produzione. C’è anche un’altra questione: gli strumenti finanziari attuali, per quanto importanti e necessari, è possibile che non diano l’incentivo agli artisti e alle compagnie di attrezzarsi per la distribuzione dei propri lavori. Allora forse guardarsi indietro e vedere quello che facevano le Compagnie d’Arte degli inizi del secolo scorso quando dovevano basarsi solo sul pubblico e sugli incassi, potrebbe spezzare questo anello debole e magari dare nuovo slancio per non subire questa questione.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Durante la quarantena personalmente ho vissuto con molta difficoltà e soggezione la questione di trasferire online la consueta attività dal vivo. Provenivo dal mio ultimo progetto “Peace Women Singing” realizzato a Matera in settembre 2019. Un progetto impossibile senza la sua dimensione reale, considerato che in scena c’erano circa 50 cantore provenienti da diversi paesi del Mediterraneo: il viaggio, lo scambio e la relazione internazionale, la complessa creazione di tre spettacoli inediti e la realizzazione di performance di canto nei vari paesi coinvolti nel progetto. Tutto questo sarebbe stato impossibile da realizzare senza il piano di “realtà” e il piano connesso di “libertà” dell’agire artistico. Sono innamorata dello spettacolo dal vivo e il pubblico reale l’ho sempre vissuto come un indispensabile compagno di viaggio, una presenza da accudire, senza retorica. Nei miei lavori, c’è sempre ad esempio un momento di condivisione del cibo con gli spettatori, un momento di laceramento e annullamento della cortina del piano di ascolto e di quello dell’azione scenica, per una necessità di attrarre a sé, come se la scena dal vivo divenisse un precipitato di gravitazione verso cui anche i corpi degli spettatori devono ad un certo punto muoversi. Questa dimensione è naturalmente impossibile con il virtuale. Ci sono in questo senso diversi problemi da considerare. Se persino un’artista come Patty Smith viene improvvisamente esautorata della sua consueta aura a causa di una diretta Facebook da casa sua, bisogna riflettere sull’uso di questi mezzi, anche se “apparentemente” necessario in questa fase.

C’è indubbiamente una questione di “estetica” dell’atto artistico su queste piattaforme di cui è necessario avere consapevolezza, proprio per non perdere di autorevolezza. La facilità di utilizzare questi strumenti virtuali, piazzando il proprio telefonino per una ripresa immediata, riduce moltissimo il livello di attenzione che normalmente abbiamo quando andiamo in scena dal vivo e “ci prepariamo” all’incontro con il pubblico reale in tutti i sensi: indossiamo un abito, un costume o un trucco, ci muoviamo su una scena sapientemente nuda o illuminata che sia, danziamo, cantiamo o recitiamo dopo aver provato a lungo e solo quando siamo pronti all’incontro apriamo “le porte” per la visione. Ho notato molta sciatteria nelle dirette Facebook cui ho assistito, non molta consapevolezza artistica, poca creatività nell’uso di questi mezzi. Questo non giova all’arte, ma solo ai proprietari di queste piattaforme che continuano ad avere e a sfruttare gratuitamente i nostri contenuti.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Io credo che in arte la deroga ad interrogarsi sulla realtà non avverrà mai. E questo è un bene. Per sua natura penso che l’atto artistico si collochi sempre nel dialogo con la realtà, sia essa definita come ciò che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, sia essa definita come risultato della stratificazione delle storie dell’umanità che ci ha preceduto fino a qui e di cui rimangono tracce persino concrete nei nostri corpi. Un dialogo sempre fertile anche se apparentemente celato, o smarrito o non immediatamente intelligibile nell’esito dell’opera di cui diveniamo artefici o anche spettatori e spettatrici. Certo viviamo una realtà complessa fatta di diversi piani anche artificiali. Forse il compito di un’artista oggi è quello arduo di semplificare questa complessità. Guardando ad esempio alla mia storia, ad un certo punto per me il confronto con la realtà ha messo in luce una mancanza: il canto. Da questa mancanza sono partita per ridisegnare il mio agire artistico, scoprendo poi che questa mancanza aveva a che fare non solo con me ma con un’ampia compagine, più grande di quanto immaginassi. Dunque forse uno strumento efficace è sempre la consapevolezza estetica ed etica di partire da un sé che dialoga con il mondo, lo osserva e si osserva e si interroga e cerca un luogo da cui poter dire la sua senza pretese, ma con grande cura.

Senza però la dimensione del sogno, anche questo confronto necessario con la realtà sarebbe inutile, o sterile. E questo è un ulteriore passaggio necessario e intramontabile in arte. Mi vengono in mente figure della mia infanzia in Lucania: artigiani che intagliando alla perfezione il legno, o lavorando con sapienza il ferro, o aggiustando minuziosamente un paio di scarpe, dunque completamente immersi e in dialogo con la propria realtà quotidiana, rompevano il silenzio e parlavano del Cosmo e delle Stelle, o di fatti prodigiosi frutto ne sono certa della loro fantasia, producendo incantamento, cioè la cellula prima del patto tra chi narra e chi ascolta.

www.caterinapontrandolfo.com; www.materamatermelodiae.it

Gommalacca Teatro

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GOMMALACCA TEATRO

Per la ventiseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlotta Vitale e Mimmo Conte di Gommalacca Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Gommalacca Teatro ha sede a Potenza e ormai da molti anni opera è conosciuta a livello nazionale. Tra il 2017 e il 2019 ha avviato due progetti paralleli, per le due Capitali Europee della Cultura 2019: Matera e Plovdiv: il progetto Aw(E)are – IO, NOI per Plovdiv2019, il progetto AWARE – La Nave degli Incanti co-prodotto con Matera2019.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Carlotta Vitale:

La creazione ha a che vedere con il complesso delle linee di forza che attraversano la scena.

Lo spazio scenico, naturalmente, propone al corpo, alla voce, alla luce e al suono che l’attraversano un’interazione, una possibilità che può, se il costrutto delle linee si intreccia, portare alla creazione.

Si danno delle “condizioni”, si propongono delle strade di ricerca che immediatamente verranno tradite, questo è l’augurio, perché è dall’interazione dello spazio e dell’essere umano che nasce un’idea di scena, una particella riconoscibile da qualsiasi occhio. La relazione che si è costruita tra lo spazio e il corpo che agisce è determinata a sua volta da chi guarda e chi viene guardato. Le linee si moltiplicano infinitamente, e si intrecciano in una serie di lanci, come quelli di una canna da pesca, tante volte quanto chi è in scena lancia segni a chi ascolta e guarda, e chi ascolta e guarda apre la sua conoscenza e il cuore all’interazione. Nel mio lavoro ho sempre immaginato che il corpo in scena fosse il frutto di millenni di evoluzione e portasse dentro il sapere “genetico” di una tradizione. Non ho mai creduto che qualcuno dei grandi maestri a cui facciamo riferimento nella formalizzazione della scena, sapesse dire qualcosa a proposito dell’efficacia della creazione scenica. Il risultato sperato, l’effetto voluto, da ciò che conosco della dimensione scenica – attraverso la mia esperienza da spettatrice e da attrice, e sicuramente più da formatrice e poi regista di gruppi informali – è un fenomeno che possiamo osservare da moltissimi punti di vista. Gli spettacoli che non dimenticherò mai sono quelli in cui la regia ha fatto un patto con sé stessa e si è mantenuta radicalmente legata ad esso, in cui gli attori, i danzatori, i performer, i cittadini erano in una condizione di generosità e ascolto, in cui il pubblico era arrivato preparato ad un appuntamento. Quindi direi che la creazione scenica è efficace quando è pensata da tutti e sognata, un po’ come per Danilo Dolci lo è il bambino, nella mia visione la costruzione della scena è pedagogia.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Carlotta Vitale:

In questo discorso bisogna distinguere in base alla funzione che una compagnia, un collettivo, un teatro stabile, un singolo artista si dà rispetto al territorio del mondo. Il compito dell’artista non è quello di rispondere ad una necessità esterna, gli spettacoli non dovrebbero essere prodotti per compiacere i gusti del pubblico, i bandi non dovrebbero proliferare offrendo occasioni sporadiche, soprattutto per le nuove generazioni, che poi senza alcun accompagnamento – in questo che è un lavoro e genera impresa – si perdono. Ho fatto un brevissimo elenco dei “non” e ce ne sarebbero ancora, perchè per negazione in questo lavoro si può capire verso che cosa si va, e in quale specifica abilità risiede la pratica culturale che si propone alla collettività. Se abbiamo compreso la nostra funzione (e mi riferisco ad un lavoro profondo con sé stessi, di funzione etica) sappiamo anche come vogliamo connetterci alla collettività, perché la pratica culturale è il lavoro con le persone.

Se al livello normativo riusciamo ad avere ben chiara la dimensione della pluralità e delle strade che gli artisti, gli operatori culturali individuano per contribuire alla produzione di immateriale e immaginario, forse potremmo dimensionare un tipo di supporto pubblico realmente commisurato alle necessità. La realtà però è un’altra. La nostra compagnia si è costruita sulla produzione teatrale, provando diverse strade espressive con grande difficoltà, producendo spettacoli per pubblico misto, contaminando i linguaggi, abbiamo avuto accesso al riconoscimento ministeriale, ma poi non lo abbiamo più alimentato e infine abbandonato. Era chiaro che non corrispondeva affatto alle nostre esigenze. Qui la questione è molto semplice da cogliere. Le condizioni richieste dai parametri ministeriali si conformano all’idea di uguaglianza, livellano le esigenze forzando il sistema ad adeguarsi, ma in realtà bisognerebbe ragionare in termini di equità per concedere a tutti le stesse opportunità. Bisognerebbe aprire una grande riflessione sulle singole regioni, chi lavora sul territorio con cosa lavora? Con quale apparato comunitario? Con quale apparato politico? Una buona parte del Sud dell’Italia si sta spopolando. Come è possibile che un circuito multidisciplinare si attenga ai parametri che forse si fa fatica a rispettare in Lombardia? Come produrre e distribuire 90 recitative in una Regione in cui il circuito è fallito due volte? Siamo riusciti a connetterci all’esterno, entrando in contatto con circuiti e distribuzione? Non l’abbiamo fatto, questa è la realtà. Abbiamo costruito impresa sui finanziamenti regionali, i progetti europei, e come per tutti la maggior parte del lavoro grava su una minoranza, ovvero c’è un nucleo centrale che lavora oltremodo per mantenere attiva una realtà delicatissima, in una regione del Sud.

Noi abbiamo bisogno di norme che intanto sappiano “nominare” il nostro lavoro, abbiamo bisogno di tutele, che in questo momento in cui mi trovo a scrivere, sono l’evidenza di un settore fragilissimo che può essere spazzato via dalla quarantena imposta da un virus contagioso. Il nostro lavoro sostiene gli spazi, i dipendenti, i CDA, gli F24, e infine gli artisti pagati (poco) e senza alcuna prospettiva. Cosa si può fare per cambiare? Individuare due linee di contributo pubblico, uno per le stabilità e i loro obiettivi di ricaduta sui territori in cui agiscono, e l’altro per la ricerca e gli artisti che ne fanno parte con le loro specificità produttive. Bisogna che i decisori si aprano alla complessità. Molti di noi non ascoltati hanno messo in campo teorie e pratiche di sopravvivenza avveniristiche e paragonate alle macchine burocratiche.

Gommalacca Teatro Plovdiv 2019

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Mimmo Conte:

Il tema potrebbe essere il più semplice da inquadrare e forse risolvere, perché riguarda una grande realtà di strutture già esistenti -almeno per il nazionale, ma diventa molto complesso quando si fa riferimento al pensiero che sta dietro alla distribuzione: oltre la visione, le azioni messe in campo. Il discorso è molto lungo e articolato da affrontare, ma si potrebbe partire da possibili “conclusioni”:

i sistemi impermeabili, sono destinati a diventare chiusi e l’esperienza umana ci insegna che i sistemi “chiusi” muoiono. Infatti i circuiti, o esperienze simili, che hanno messo in campo azioni in maggiore ascolto con i bisogni degli attori di riferimento, sono diventati possibili esempi virtuosi e di buone pratiche;

i festival nascono come risposta alle esigenze e sollecitazioni di un territorio, alla necessità dei singoli che li pensano e che decidono di creare un “ritaglio della realtà” secondo la loro visione, sentendo anche le spinte dei luoghi (cittadini e architetture) in cui nascono. Ma non hanno una funzione, se non indirettamente, di distribuzione. Potremmo immaginarli come delle isole, che si possono raggiungere o meno come artisti, e che, viste dall’alto, creano un arcipelago-panorama visibile nell’insieme. I festival possiedono un doppio carattere: produttivo e di programmazione. Tutto ciò è molto delicato, e va tutelato;

le reti in parte ci sono sia per il nazionale che l’internazionale, ma spesso hanno basi precarie, perché legate a finanziamenti “temporanei” o che rimandano a loro volta a strutture che decidono se e come finanziarle oppure sono network costituiti da piccole organizzazioni che si inventano forme nuove di collaborazione e distribuzione. Quest’ultimo punto, è ancora poco considerato in termini finanziari reali dallo Stato. Inoltre, molte reti internazionali presuppongono un cambio-di-approccio per le realtà italiane, perché operano con paradigmi e modalità molto, se non del tutto, diverse da quelle abitualmente frequentate dalle compagnie: tipo di intervento, tipo di azione, tipo di “risultato”.

Inoltre, bisogna considerare che la platea possibilmente interessata alla distribuzione è molto ampia e variegata: ci sono compagnie che quasi non conoscono il circuito teatrale come è inteso in senso “classico”, ci sono compagnie che intendono la distribuzione in modo diverso da quella abitualmente immaginata perché lavorano su forme diverse di offerta-intervento, ci sono compagnie che attraversano tanti linguaggi e non sono, per come è intesa la distribuzione teatrale, “catalogabili” in un unico senso.

Un importante punto a favore sulle questioni appena citate lo abbiamo: sono affrontate da anni da coordinamenti nazionali, aggregazioni locali e reti europee, il problema è che manca una riflessione compiuta e “definitiva” presso gli Enti statali che decidono delle politiche culturali.

Dunque, il primo intervento è: comprendere approfonditamente, a livello Ministeriale, quale è la reale condizione “esistenziale” di tutta la scena contemporanea. Per questo è necessaria un’azione di incontro-confronto finalizzata ad alimentare ed elaborare anche la visione istituzionale delle politiche per il teatro e la cultura in Italia.

Ancora: intervenire, seriamente, per verificare funzionamenti e risultati raggiunti dalle stabilità e dai circuiti teatrali, per agire di conseguenza secondo la visione istituzionale maturata e per creare condizioni utili al sistema culturale. In questa direzione, è necessario mettere in campo azioni che rendano abitabile il settore culturale a tutte le realtà artistiche che ci lavorano.

In ultimo, un passaggio molto importante è proprio quello delle professionalità da coinvolgere: sia in termini di consulenza effettiva e concreta per gli Uffici in cui si definiscono le politiche culturali nazionali e di determinati territori, senza l’influenza della “politica elettorale”; sia di figure che possano sostituirsi a punti di riferimento attualmente inadeguati (perché enti burocraticamente incancreniti e/o incapaci di pensare e agire), o ancora creare nuovi tramiti per le occasioni in Italia e nel mondo, con la capacità di snellire processi e funzioni o comunque di far nascere strutture molto più agili e che abbiamo una percezione viva della contemporaneità in cui operano.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Carlotta Vitale:

È sempre in merito alle funzioni che va elaborato il ragionamento. Il campo è molto vasto, e il mio pensiero parte dalle nuove generazioni. Gli spettatori dai tre ai diciotto anni nel 2020 sono molto lontani dall’idea di separare i piani o sentire sostituita la loro condizione di realtà o irrealtà. Sono ben abituati sia nel nucleo familiare, dei pari e a scuola (non in modo uniforme nel nostro paese) a sentirsi in dialogo critico con l’online e l’offline. Sono abituati, e non dico che tutti sappiano elaborare allo stesso livello, ed è una competenza che hanno, quella di capire la natura delle due realtà che vivono. I bambini sono spettatori partecipanti e hanno necessità della relazione analogica in tutti i campi, i preadolescenti sono capaci di riconoscere i cliché del linguaggio da youtuber, esercitano il corpo a teatro e sanno usare Zoom ad occhi chiusi, gli adolescenti non usano Facebook, che è invece il regno rutilante dei loro genitori; gli adolescenti estremizzano il rapporto con l’irrealtà fino agli hikikomori, oppure la rifiutano completamente scendendo in piazza, facendosi parte attiva e politica. Non vedo criticità dialogiche con l’off/on-line se guardo alle nuove generazioni, anzi credo che se il teatro nella sua funzione di attivatore sociale, strumento mediatore nei gruppi, entrasse a far parte sistematicamente dell’assetto della programmazione scolastica nazionale, conserverebbe la sua funzione di esperienza unica e irripetibile e si rinnoverebbe nell’idea sclerotica che le nuove generazioni hanno della sola parola “teatro”, si arricchirebbe nell’apertura al confronto con le tecnologie, la pedagogia e la scuola. Ora il ragionamento dovrebbe ricadere su una fascia di popolazione fuori dagli ambiti che ho citato, parliamo di chi proprio in questo momento storico nella nostra nazione per esempio, si trova a fruire di uno spettacolo online, e del come colmerà il vuoto tra sé e l’attore. Esistono forme d’arte che di natura hanno elaborato strumenti che possano colmare quel vuoto. Il teatro non potrà farlo mai a mio avviso. Nei cinema è possibile da molto tempo assistere a spettacoli operistici in streaming, o concerti, sicuramente. Esistono allestimenti teatrali girati in video da registi cinematografici, eccellenti. Ma non credo si tratti di questo. Non credo che in nessuno modo possa essere tradotta online l’esperienza della creazione scenica, del “fare esperienza” con un gruppo piccolo o grande che sia. In nessun modo potrà essere tradotta quella comunità che si riunisce in un dato giorno in un dato momento per condividere quell’esperienza. Per questo penso che la società teatrale non dovrà mai abdicare dalla sua funzione, anche se significa per molti rischiare la pelle. Letteralmente.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Mimmo Conte:

L’arte, il teatro, può decidere di ritagliarsi uno spazio a sé stante e staccato dal resto, può intrecciarsi fortemente con la realtà, può creare un varco: una via ancora non battuta e inaspettata. Questa qualità, questa possibilità l’arte la avrà sempre. Gli strumenti per confrontarsi con il reale sono gli strumenti che l’arte ha da sempre.

Noi possiamo limitarci ad osservare. A definire l’epoca che viviamo un’era di post-verità; e che quindi quello che prima facevamo noi: spostare l’attenzione, far credere nell’impossibile, forse giocare con l’animo umano, ora è una funzione “diffusa”. Addirittura possiamo parlare di post-logica, quando tutti i piani dei discorsi fatti, della realtà vissuta e raccontata, prendono una strada ancora inesplorata e inafferrabile; e qui ne usciamo sconfitti, se pensiamo che il nostro compito sia di avere un “compito specifico”. Credo che un artista non debba preoccuparsi di occuparsi di qualcosa di preciso. La funzione arriverà se e deve arrivare, e magari l’artista se ne accorgerà. L’artista seguirà il suo bisogno, parlerà attraverso quel bisogno. La realtà, se per realtà intendiamo il modo di vivere e pensare delle persone, cambierà sempre: l’artista, nel profondo, parla attraverso il “sentito”, crea una strada sotterranea con chi gli sta intorno, scava nel buio un passaggio che nessuno vede e probabilmente non vedrà mai. Questo l’arte ce l’ha e ce lo avrà sempre, questa è la prima possibilità che è data ad un artista per toccare il reale.