Archivi tag: Mimmo Conte

Gommalacca Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA GOMMALACCA TEATRO

Per il decimo appuntamento di Resistenze Artistiche ci dirigiamo in Basilicata per raggiungere Carlotta Vitale e Mimmo Conte, fondatori e direttori della Compagnia Gommalacca Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gommalacca Teatro – Carlotta Vitale Il diario di Sofia

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Il nostro lavoro culturale non si è mai fermato. In effetti il teatro, nella sua pratica quotidiana, non può interrompersi, è un fatto che avviene ogni giorno e che possibilmente abbiamo interrogato con più forza, e alle volte disperazione, nel corso di tutte le fasi, molto diverse, dall’inizio della crisi pandemica. All’inizio di marzo 2020 abbiamo visto sfumare letteralmente la programmazione estiva sulla quale stavamo lavorando con due progetti piuttosto grandi anche economicamente, legati a una nuova natura produttiva della compagnia e che esprimevano meglio il nostro modo di intendere la relazione tra scena, persone e spazio pubblico. Lì in quel punto ci siamo trovati “interrotti” non solo nell’annullamento di una data, ma proprio di un processo che dopo dieci anni aveva trovato un suo culmine nel 2019 con la Capitale Europea della Cultura e che aveva la necessità di essere accudito, sviluppato e finanziato.

Quella interruzione, in quel momento, ha significato ritrovarci con le armi spuntate, e nei mesi, sempre più consapevoli di dover ricominciare da un grado zero, da un minimo che potesse essere sostenibile lavorativamente e umanamente. Riguardo alla pedagogia la nostra scelta durante il primo lockdown è stata di tenere il rapporto con la comunità teatrale online ma solo per i mesi di marzo e aprile, poi la programmazione nella pedagogia e negli spettacoli si è messa del tutto in relazione con gli spazi intermedi, aperti e accessibili della città e dei comuni. L’acquisizione della pratica lanciata da Ippolito Chiarello del teatro in bicicletta (delivery theatre) è stato uno strumento poetico molto funzionale per ricostruire, e in alcuni casi creare, il rapporto perduto con le persone. I progetti Erasmus plus e le progettazioni in essere non si sono mai arrestati, anzi sono stati una leva psicologica e economica che ha stimolato nuovi dialoghi con le amministrazioni e le scuole. In fasi alterne è risultato utile poter collocare i dipendenti della compagnia in cassa integrazione e con il sostegno dei contributi extra-FUS siamo riusciti, con grandissime difficoltà, a mantenere una direzione.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Progettazione, cura dei pensieri e tempo per farli crescere, cura delle relazioni con le persone (fruitori, partecipanti, interlocuzioni pubbliche) produzione sostenibile, contrasto della povertà educativa, contrasto delle discriminazioni per sesso, razza, lingua e religione, spazi pubblici, rigenerazione umana, ricerca cultura e documentazione del patrimonio culturale, nuovi linguaggi multimediali per la scena, ricerca su linguaggi interattivi e sensoriali per le fasce dei più piccoli, ricerca sulle drammaturgie originali, nuove alleanze artistiche.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Siamo stati ministeriali nel periodo dal 2012 al 2014, poi le nostre esigenze e caratteristiche produttive non erano più assimilabili alla lettura che il Ministero della Cultura fa delle realtà produttive italiane. Negli anni tra il 2015 e il 2019 grazie alla nuova legge regionale n.37 del 2014 alla quale stesura abbiamo contribuito insieme agli operatori lucani, la nostra compagnia è riuscita a trovare una sua giusta collocazione in termini di finanziamento pubblico mettendo in equilibrio il progetto e la produzione.

Dopo le elezioni del 2019, e il radicale cambio politico, il processo amministrativo si è “incantato” ovvero si è bloccato come sotto l’effetto di un incantesimo. Durante la fase pandemica in Basilicata gli operatori del settore teatro, cinema, danza, arti visive sono stati dimenticati senza alcuna interlocuzione e finanziamento previsto per legge che potesse aiutarci nella transizione verso le condizioni attuali. Ovviamente abbiamo lottato e richiesto con tutti gli strumenti leciti possibili la riapertura del dialogo. Alcuna vicinanza e comprensione, anzi nella angoscia delle spese a cui non si riusciva a far fronte e alla emorragia del pubblico, delle date e dei contatti, abbiamo dovuto tirare fuori i denti, mostrare i pungi e invitare allo scontro, forse era questo un linguaggio più decifrabile di quello della pace che preferiamo perseguire. Nel 2021 siamo stati riconosciuti dal Ministero come compagnia di innovazione per l’infanzia e la gioventù e l’apparato regionale ha riorganizzato le dirigenze, qualche piccolo passo senza tanto clamore e con rigore è stato fatto. Il dialogo tra lo Stato e la Regione in materia di Spettacolo dal Vivo manca.

Mimmo Conte La nave degli incanti

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Le strategie non sono state differenti da quelle che sempre abbiamo messo in campo nella ricerca della relazione con le persone: innovazione culturale e attivazione delle comunità attraverso il dialogo, l’indagine e la rappresentazione artistica. Ricerca della propria qualità artistica nei contesti in sui si opera, anche per interventi minimi e non preceduti da contatti con il pubblico, non smettere di farsi domande su chi compone il gruppo di persone a cui ti stai rivolgendo, con quali strumenti stai interagendo e studio, studio, studio delle nuove forme di contaminazione intorno alle metodologie e nuovi linguaggi delle scena.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Yuval Noah Harari ci evidenzia in diverse occasioni che tra tutti gli “homo” il Sapiens è quello che è sopravvissuto perché capace di “immaginare”. Immaginare di creare città, regni, imperi, leggi, soldi. Su questo processo si costruisce l’aspettativa sul nostro futuro. La riflessione sull’avventurarci o meno nella tessitura ministeriale del prossimo triennio è stata lunga e dibattuta all’interno della compagnia, tanto da cercare confronti per sviluppare punti di vista e valutare pro e contro. Ci siamo fatti domande a proposito della nostra natura, della sostenibilità economica sull’ingresso dal 2023 nei cluster ministeriali. Abbiamo fatto e stiamo facendo un esercizio di immaginazione che si tradurrà in azioni sui territori. Il decreto con il suo funzionamento è “una parte” del grande lavoro che una compagnia come la nostra deve fare per “immaginare il proprio futuro”. “Una parte” con dei requisiti molto rigidi in cui per un terzo valgono il progetto e le idee, tutto il resto è personale assunto, spazi e quantità. La nostra aspettativa è quella di partecipare ad un processo di rinnovamento delle norme che possano dialogare con la realtà e soprattutto lavorare per rendere visibile l’evidente, imbarazzante, squilibrio territoriale per chi opera al Sud e nelle Isole. Noi non veniamo al Nord? Lo crediamo bene! La spesa dei trasporti incide al 40% nelle scelte di chi programma sia per chi vuole “salire” che per chi vorrebbe “scendere”.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Quello che non si fa:

Non si esce dalla propria personale paura di perdere tutto (cosa in realtà abbiamo da perdere? Abbiamo tutto! Non gli diamo il valore giusto però).

Non ci si prende cura.

Non si scrive e dice quello che per davvero si pensa.

Non si prende atto che non c’è un braccio a cui appoggiarsi (parafrasando Virginia Woolf).

Non si lavora sul desiderio, il proprio e quello del pubblico. Desiderio, non gusto o consuetudine. “Teatro” è una parola bellissima da pronunciare, è bellissimo parlarne, ma poi quanti escono di casa per andarci? Bisogna accettarlo per costruire nuove parole che si hanno voglia di frequentare.

Non si è potuto fare:

Prendersi tempo con serenità per affrontare il cambiamento, monopolizzati da regole quali-quantitative, regole contrasto Covid e angoscia per le sale vuote, che a capienza piena rimangono mezze vuote, nella maggioranza dei casi, non vale per tutti.

Mettere le basi è un processo lungo, lunghissimo. Ci vogliono strumenti di indagine, superamento delle proprie ambizioni personali, capacità di contestualizzare, ascolto, e e desiderio di mettere le basi. Alle volte non si riesce con i propri figli. Si fa un passo alla volta, con voci unite però. Chi immagina e scrive le leggi e le norme non spunta come un fungo da in giorno all’altro, si muove in un ecosistema storicizzato e rigido che legge la realtà con le stesse lenti da decenni. Per aprire un dialogo ai fini di un cambiamento normativo ci vuole spirito europeo, determinazione e desiderio democratico. Non so se nel grande sistema ci arriveremo mai, ma so che nel piccolo può avvenire lentamente.

Breve BIO:

Abbiamo fondato la nostra compagnia, Gommalacca Teatro, in Basilicata nel 2008.

Il punto di partenza è stata Potenza, la città base che con tutte le sue criticità ha contribuito a sviluppare una nostra caratteristica peculiare: la capacità di mettere in relazione le persone e gli spazi attraverso il teatro, le discipline performative, l’arte e la co-creazione lontani dai grandi centri di produzione.

Contatti: c.vitale@gommalaccateatro.it

Gommalacca Teatro

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GOMMALACCA TEATRO

Per la ventiseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlotta Vitale e Mimmo Conte di Gommalacca Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Gommalacca Teatro ha sede a Potenza e ormai da molti anni opera è conosciuta a livello nazionale. Tra il 2017 e il 2019 ha avviato due progetti paralleli, per le due Capitali Europee della Cultura 2019: Matera e Plovdiv: il progetto Aw(E)are – IO, NOI per Plovdiv2019, il progetto AWARE – La Nave degli Incanti co-prodotto con Matera2019.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Carlotta Vitale:

La creazione ha a che vedere con il complesso delle linee di forza che attraversano la scena.

Lo spazio scenico, naturalmente, propone al corpo, alla voce, alla luce e al suono che l’attraversano un’interazione, una possibilità che può, se il costrutto delle linee si intreccia, portare alla creazione.

Si danno delle “condizioni”, si propongono delle strade di ricerca che immediatamente verranno tradite, questo è l’augurio, perché è dall’interazione dello spazio e dell’essere umano che nasce un’idea di scena, una particella riconoscibile da qualsiasi occhio. La relazione che si è costruita tra lo spazio e il corpo che agisce è determinata a sua volta da chi guarda e chi viene guardato. Le linee si moltiplicano infinitamente, e si intrecciano in una serie di lanci, come quelli di una canna da pesca, tante volte quanto chi è in scena lancia segni a chi ascolta e guarda, e chi ascolta e guarda apre la sua conoscenza e il cuore all’interazione. Nel mio lavoro ho sempre immaginato che il corpo in scena fosse il frutto di millenni di evoluzione e portasse dentro il sapere “genetico” di una tradizione. Non ho mai creduto che qualcuno dei grandi maestri a cui facciamo riferimento nella formalizzazione della scena, sapesse dire qualcosa a proposito dell’efficacia della creazione scenica. Il risultato sperato, l’effetto voluto, da ciò che conosco della dimensione scenica – attraverso la mia esperienza da spettatrice e da attrice, e sicuramente più da formatrice e poi regista di gruppi informali – è un fenomeno che possiamo osservare da moltissimi punti di vista. Gli spettacoli che non dimenticherò mai sono quelli in cui la regia ha fatto un patto con sé stessa e si è mantenuta radicalmente legata ad esso, in cui gli attori, i danzatori, i performer, i cittadini erano in una condizione di generosità e ascolto, in cui il pubblico era arrivato preparato ad un appuntamento. Quindi direi che la creazione scenica è efficace quando è pensata da tutti e sognata, un po’ come per Danilo Dolci lo è il bambino, nella mia visione la costruzione della scena è pedagogia.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Carlotta Vitale:

In questo discorso bisogna distinguere in base alla funzione che una compagnia, un collettivo, un teatro stabile, un singolo artista si dà rispetto al territorio del mondo. Il compito dell’artista non è quello di rispondere ad una necessità esterna, gli spettacoli non dovrebbero essere prodotti per compiacere i gusti del pubblico, i bandi non dovrebbero proliferare offrendo occasioni sporadiche, soprattutto per le nuove generazioni, che poi senza alcun accompagnamento – in questo che è un lavoro e genera impresa – si perdono. Ho fatto un brevissimo elenco dei “non” e ce ne sarebbero ancora, perchè per negazione in questo lavoro si può capire verso che cosa si va, e in quale specifica abilità risiede la pratica culturale che si propone alla collettività. Se abbiamo compreso la nostra funzione (e mi riferisco ad un lavoro profondo con sé stessi, di funzione etica) sappiamo anche come vogliamo connetterci alla collettività, perché la pratica culturale è il lavoro con le persone.

Se al livello normativo riusciamo ad avere ben chiara la dimensione della pluralità e delle strade che gli artisti, gli operatori culturali individuano per contribuire alla produzione di immateriale e immaginario, forse potremmo dimensionare un tipo di supporto pubblico realmente commisurato alle necessità. La realtà però è un’altra. La nostra compagnia si è costruita sulla produzione teatrale, provando diverse strade espressive con grande difficoltà, producendo spettacoli per pubblico misto, contaminando i linguaggi, abbiamo avuto accesso al riconoscimento ministeriale, ma poi non lo abbiamo più alimentato e infine abbandonato. Era chiaro che non corrispondeva affatto alle nostre esigenze. Qui la questione è molto semplice da cogliere. Le condizioni richieste dai parametri ministeriali si conformano all’idea di uguaglianza, livellano le esigenze forzando il sistema ad adeguarsi, ma in realtà bisognerebbe ragionare in termini di equità per concedere a tutti le stesse opportunità. Bisognerebbe aprire una grande riflessione sulle singole regioni, chi lavora sul territorio con cosa lavora? Con quale apparato comunitario? Con quale apparato politico? Una buona parte del Sud dell’Italia si sta spopolando. Come è possibile che un circuito multidisciplinare si attenga ai parametri che forse si fa fatica a rispettare in Lombardia? Come produrre e distribuire 90 recitative in una Regione in cui il circuito è fallito due volte? Siamo riusciti a connetterci all’esterno, entrando in contatto con circuiti e distribuzione? Non l’abbiamo fatto, questa è la realtà. Abbiamo costruito impresa sui finanziamenti regionali, i progetti europei, e come per tutti la maggior parte del lavoro grava su una minoranza, ovvero c’è un nucleo centrale che lavora oltremodo per mantenere attiva una realtà delicatissima, in una regione del Sud.

Noi abbiamo bisogno di norme che intanto sappiano “nominare” il nostro lavoro, abbiamo bisogno di tutele, che in questo momento in cui mi trovo a scrivere, sono l’evidenza di un settore fragilissimo che può essere spazzato via dalla quarantena imposta da un virus contagioso. Il nostro lavoro sostiene gli spazi, i dipendenti, i CDA, gli F24, e infine gli artisti pagati (poco) e senza alcuna prospettiva. Cosa si può fare per cambiare? Individuare due linee di contributo pubblico, uno per le stabilità e i loro obiettivi di ricaduta sui territori in cui agiscono, e l’altro per la ricerca e gli artisti che ne fanno parte con le loro specificità produttive. Bisogna che i decisori si aprano alla complessità. Molti di noi non ascoltati hanno messo in campo teorie e pratiche di sopravvivenza avveniristiche e paragonate alle macchine burocratiche.

Gommalacca Teatro Plovdiv 2019

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Mimmo Conte:

Il tema potrebbe essere il più semplice da inquadrare e forse risolvere, perché riguarda una grande realtà di strutture già esistenti -almeno per il nazionale, ma diventa molto complesso quando si fa riferimento al pensiero che sta dietro alla distribuzione: oltre la visione, le azioni messe in campo. Il discorso è molto lungo e articolato da affrontare, ma si potrebbe partire da possibili “conclusioni”:

i sistemi impermeabili, sono destinati a diventare chiusi e l’esperienza umana ci insegna che i sistemi “chiusi” muoiono. Infatti i circuiti, o esperienze simili, che hanno messo in campo azioni in maggiore ascolto con i bisogni degli attori di riferimento, sono diventati possibili esempi virtuosi e di buone pratiche;

i festival nascono come risposta alle esigenze e sollecitazioni di un territorio, alla necessità dei singoli che li pensano e che decidono di creare un “ritaglio della realtà” secondo la loro visione, sentendo anche le spinte dei luoghi (cittadini e architetture) in cui nascono. Ma non hanno una funzione, se non indirettamente, di distribuzione. Potremmo immaginarli come delle isole, che si possono raggiungere o meno come artisti, e che, viste dall’alto, creano un arcipelago-panorama visibile nell’insieme. I festival possiedono un doppio carattere: produttivo e di programmazione. Tutto ciò è molto delicato, e va tutelato;

le reti in parte ci sono sia per il nazionale che l’internazionale, ma spesso hanno basi precarie, perché legate a finanziamenti “temporanei” o che rimandano a loro volta a strutture che decidono se e come finanziarle oppure sono network costituiti da piccole organizzazioni che si inventano forme nuove di collaborazione e distribuzione. Quest’ultimo punto, è ancora poco considerato in termini finanziari reali dallo Stato. Inoltre, molte reti internazionali presuppongono un cambio-di-approccio per le realtà italiane, perché operano con paradigmi e modalità molto, se non del tutto, diverse da quelle abitualmente frequentate dalle compagnie: tipo di intervento, tipo di azione, tipo di “risultato”.

Inoltre, bisogna considerare che la platea possibilmente interessata alla distribuzione è molto ampia e variegata: ci sono compagnie che quasi non conoscono il circuito teatrale come è inteso in senso “classico”, ci sono compagnie che intendono la distribuzione in modo diverso da quella abitualmente immaginata perché lavorano su forme diverse di offerta-intervento, ci sono compagnie che attraversano tanti linguaggi e non sono, per come è intesa la distribuzione teatrale, “catalogabili” in un unico senso.

Un importante punto a favore sulle questioni appena citate lo abbiamo: sono affrontate da anni da coordinamenti nazionali, aggregazioni locali e reti europee, il problema è che manca una riflessione compiuta e “definitiva” presso gli Enti statali che decidono delle politiche culturali.

Dunque, il primo intervento è: comprendere approfonditamente, a livello Ministeriale, quale è la reale condizione “esistenziale” di tutta la scena contemporanea. Per questo è necessaria un’azione di incontro-confronto finalizzata ad alimentare ed elaborare anche la visione istituzionale delle politiche per il teatro e la cultura in Italia.

Ancora: intervenire, seriamente, per verificare funzionamenti e risultati raggiunti dalle stabilità e dai circuiti teatrali, per agire di conseguenza secondo la visione istituzionale maturata e per creare condizioni utili al sistema culturale. In questa direzione, è necessario mettere in campo azioni che rendano abitabile il settore culturale a tutte le realtà artistiche che ci lavorano.

In ultimo, un passaggio molto importante è proprio quello delle professionalità da coinvolgere: sia in termini di consulenza effettiva e concreta per gli Uffici in cui si definiscono le politiche culturali nazionali e di determinati territori, senza l’influenza della “politica elettorale”; sia di figure che possano sostituirsi a punti di riferimento attualmente inadeguati (perché enti burocraticamente incancreniti e/o incapaci di pensare e agire), o ancora creare nuovi tramiti per le occasioni in Italia e nel mondo, con la capacità di snellire processi e funzioni o comunque di far nascere strutture molto più agili e che abbiamo una percezione viva della contemporaneità in cui operano.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Carlotta Vitale:

È sempre in merito alle funzioni che va elaborato il ragionamento. Il campo è molto vasto, e il mio pensiero parte dalle nuove generazioni. Gli spettatori dai tre ai diciotto anni nel 2020 sono molto lontani dall’idea di separare i piani o sentire sostituita la loro condizione di realtà o irrealtà. Sono ben abituati sia nel nucleo familiare, dei pari e a scuola (non in modo uniforme nel nostro paese) a sentirsi in dialogo critico con l’online e l’offline. Sono abituati, e non dico che tutti sappiano elaborare allo stesso livello, ed è una competenza che hanno, quella di capire la natura delle due realtà che vivono. I bambini sono spettatori partecipanti e hanno necessità della relazione analogica in tutti i campi, i preadolescenti sono capaci di riconoscere i cliché del linguaggio da youtuber, esercitano il corpo a teatro e sanno usare Zoom ad occhi chiusi, gli adolescenti non usano Facebook, che è invece il regno rutilante dei loro genitori; gli adolescenti estremizzano il rapporto con l’irrealtà fino agli hikikomori, oppure la rifiutano completamente scendendo in piazza, facendosi parte attiva e politica. Non vedo criticità dialogiche con l’off/on-line se guardo alle nuove generazioni, anzi credo che se il teatro nella sua funzione di attivatore sociale, strumento mediatore nei gruppi, entrasse a far parte sistematicamente dell’assetto della programmazione scolastica nazionale, conserverebbe la sua funzione di esperienza unica e irripetibile e si rinnoverebbe nell’idea sclerotica che le nuove generazioni hanno della sola parola “teatro”, si arricchirebbe nell’apertura al confronto con le tecnologie, la pedagogia e la scuola. Ora il ragionamento dovrebbe ricadere su una fascia di popolazione fuori dagli ambiti che ho citato, parliamo di chi proprio in questo momento storico nella nostra nazione per esempio, si trova a fruire di uno spettacolo online, e del come colmerà il vuoto tra sé e l’attore. Esistono forme d’arte che di natura hanno elaborato strumenti che possano colmare quel vuoto. Il teatro non potrà farlo mai a mio avviso. Nei cinema è possibile da molto tempo assistere a spettacoli operistici in streaming, o concerti, sicuramente. Esistono allestimenti teatrali girati in video da registi cinematografici, eccellenti. Ma non credo si tratti di questo. Non credo che in nessuno modo possa essere tradotta online l’esperienza della creazione scenica, del “fare esperienza” con un gruppo piccolo o grande che sia. In nessun modo potrà essere tradotta quella comunità che si riunisce in un dato giorno in un dato momento per condividere quell’esperienza. Per questo penso che la società teatrale non dovrà mai abdicare dalla sua funzione, anche se significa per molti rischiare la pelle. Letteralmente.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Mimmo Conte:

L’arte, il teatro, può decidere di ritagliarsi uno spazio a sé stante e staccato dal resto, può intrecciarsi fortemente con la realtà, può creare un varco: una via ancora non battuta e inaspettata. Questa qualità, questa possibilità l’arte la avrà sempre. Gli strumenti per confrontarsi con il reale sono gli strumenti che l’arte ha da sempre.

Noi possiamo limitarci ad osservare. A definire l’epoca che viviamo un’era di post-verità; e che quindi quello che prima facevamo noi: spostare l’attenzione, far credere nell’impossibile, forse giocare con l’animo umano, ora è una funzione “diffusa”. Addirittura possiamo parlare di post-logica, quando tutti i piani dei discorsi fatti, della realtà vissuta e raccontata, prendono una strada ancora inesplorata e inafferrabile; e qui ne usciamo sconfitti, se pensiamo che il nostro compito sia di avere un “compito specifico”. Credo che un artista non debba preoccuparsi di occuparsi di qualcosa di preciso. La funzione arriverà se e deve arrivare, e magari l’artista se ne accorgerà. L’artista seguirà il suo bisogno, parlerà attraverso quel bisogno. La realtà, se per realtà intendiamo il modo di vivere e pensare delle persone, cambierà sempre: l’artista, nel profondo, parla attraverso il “sentito”, crea una strada sotterranea con chi gli sta intorno, scava nel buio un passaggio che nessuno vede e probabilmente non vedrà mai. Questo l’arte ce l’ha e ce lo avrà sempre, questa è la prima possibilità che è data ad un artista per toccare il reale.