Per la quarantaseiesima intervista de Lo Stato delle cose andiamo a Milano per incontrare Matteo Lanfranchi di Effetto Larsen. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Matteo Lanfranchi è il direttore artistico di Effetto Larsen, un gruppo con base a Milano che si occupa principalmente di performance site specific con forte interazione del pubblico partecipante. Ricordiamo tra gli ultimi lavori: After/dopo, Mnemosyne, Stormo, Tracce – una questione di identità, Pop Up Civilization.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La mia carriera è iniziata come attore in teatro, per poi fondare Effetto Larsen e dedicarmi alla regia e all’attività di autore. Nel 2013 ci siamo evoluti e abbiamo esteso il nostro campo d’azione allo spazio pubblico e ai progetti di arte partecipata, ambito in cui continuiamo ad essere attivi a livello internazionale. Faccio questa piccola premessa per precisare che dal mio punto di vista la creazione scenica non è più solo per il palco, ma coinvolge i cittadini – o il pubblico, o i partecipanti, c’è dibattito in Europa anche su come chiamarli – fin dall’inizio del processo creativo.
Siamo pionieri, insieme a molti altri artisti in giro per il mondo, di una forma d’arte contemporanea che attinge al teatro nella sua dimensione di condivisione, elaborazione, trasformazione, catarsi. Siamo usciti dal teatro come edificio e come tradizione per recuperarne quella che per me ne è la radice: le relazioni. Una creazione è efficace quando diventa opportunità per creare relazioni, e una relazione è realmente tale quando c’è disponibilità a farsi cambiare, ad accettare la trasformazione.
Ogni progetto Effetto Larsen è frutto di un lungo percorso di ricerca, fatto di sessioni aperte a chiunque voglia partecipare: la nostra peculiarità consiste nell’ascolto, nell’aprire le porte del nostro spazio di lavoro. È un processo delicato, che a volte viene frainteso, specie da chi confonde ascoltare il pubblico con lo svendersi. È esattamente il contrario. Per ascoltare il pubblico bisogna avere una visione molto chiara, restare fedeli a sé stessi e accettare questa relazione e la trasformazione che comporta. È come essere su un veliero: il pubblico soffia il vento, ma sta a noi alzare le vele e mantenere la rotta.
Sviluppiamo progetti che siano accessibili a più persone possibile, e che permettano una fruizione su più livelli. In una frase, cerchiamo di creare le condizioni perché il pubblico possa vivere un’esperienza profonda e significativa. Lavori come i nostri non sono possibili senza il pubblico, non è nemmeno possibile provarli, e questo esprime bene il valore che hanno per noi le relazioni, cuore pulsante della nostra ricerca artistica.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Prima di fare qualcosa di nuovo, bisognerebbe smettere di fare ciò che si sta già facendo.
Smettere di lamentarsi del sistema, smettere di aspettarsi di vivere dell’elemosina dei fondi pubblici, smettere di chiudersi nella bolla sociale degli artisti, smettere di dare per scontata la qualità del proprio lavoro. Ho sentito mille volte dire che ci vorrebbero più fondi pubblici, che all’estero è meglio, che l’Italia è un disastro, che bisognerebbe cambiare tutto.
Se qualcuno ha desiderio di darsi da fare per una riforma politica, ben venga, ma deve saper parlare anche il linguaggio della politica, non può aspettarsi di riuscirci parlando solo la lingua del teatro. Personalmente, ho già un progetto nella mia vita, ed è Effetto Larsen: se e quando mai la situazione cambierà, avrò già finito la mia carriera. Il tempo del teatro – e quello della vita – è l’adesso.
La crisi Covid-19 ha messo in evidenza le ingenuità del settore, l’ostinazione a voler continuare a fare ciò che si faceva anche quando non stava funzionando, il vittimismo di tanti artisti, che vorrebbero essere sostenuti solo perché tali. Ma chi decide chi è un artista e chi no? Se il mio vicino di casa domani decide di essere un artista, va tutelato? Sia chiaro, sono un profondo sostenitore dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, e rispetto chi si impegna seriamente per affermarli, ma a quarant’anni suonati non sopporto più le ingenuità: se non c’è consapevolezza, se si continua a lavorare principalmente per passione, se non si sviluppano pensiero e capacità, si finisce con l’essere troppo facilmente ricattabili, e si indebolisce la categoria.
Aspettarsi più fondi pubblici dal governo, dopo anni di tagli, è come aspettarsi di essere amati da qualcuno che ci ha più volte rifiutati: tocca guardare altrove. E per farlo servono competenze, altro punto spesso dato per scontato: si parla sempre di soldi pubblici, ma mai delle competenze di chi deve non solo erogarli, ma anche riceverli, gestirli, amministrarli, garantire qualità, tutte cose che valgono ormai anche per gli artisti. Se non si può o non si vuole sviluppare competenze, è necessario affiancarsi persone che le abbiano, per gestire questa complessità. La qualità non basta più, da almeno vent’anni, e ormai è sempre più rara da trovare, ovvia conseguenza delle modalità produttive. Accettare quelle modalità significa collaborare al mantenimento del sistema che tutti lamentiamo. Si tratta di smettere di nutrirlo, e di iniziare ad immaginarne di nuovi.
Tocca anche smettere di accettare condizioni di lavoro insostenibili, come residenze sottopagate o con condizioni sgradevoli, o dove gli artisti sono trattati come se si stesse facendo loro un favore. Di nuovo, è il contrario: senza artisti, non girerebbero un sacco di soldi. Ricordiamocelo. Ricordiamoci che in qualsiasi crisi, in qualsiasi società, artisti e pubblico ci saranno sempre, siamo noi il centro, e finché ci saranno questi due elementi l’arte sopravvivrà. È il resto a venire dopo.
Rispetto all’estero: l’erba del vicino non è sempre la più verde. La nostra compagnia lavora tanto in altri paesi, ma perché col tempo abbiamo trovato i giusti interlocutori, non il paese dei balocchi. Ci sono difficoltà diverse, e alcune sono trasversali almeno a tutta l’Europa, come ad esempio la carenza di pubblico giovane. Altri paesi hanno un welfare più sviluppato, non c’è dubbio, ma penso che se davvero si crede che un altro paese sia più adatto al proprio lavoro, bisognerebbe semplicemente smettere di lamentarsi e trasferirsi. Come dice Rilke nelle “Lettere a un giovane poeta”, bisogna chiedersi sinceramente se si desidera fare questa vita, e se la risposta “sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità.”
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Se non ci sono fondi ci devono essere idee, sempre e a tutti i livelli. Personalmente credo che tra le responsabilità delle realtà che godono di finanziamento pubblico, dovrebbe esserci anche quella di sviluppare un’alternativa economica, un modo altro di continuare a fare ciò che si fa, altrimenti ogni taglio diventa un ricatto, che pesa su tutta la catena produttiva fino agli artisti.
È poi necessario, di nuovo, sviluppare competenze, frugare in altri contesti, imparare da chi ha risolto problemi analoghi, farsi muovere dalla curiosità, e non solo all’interno della sala prove. In ormai 25 anni di carriera ho raramente sentito gli artisti mettere in discussione la qualità di quello che fanno, o le istituzioni tentare qualcosa di diverso, o attingere da mondi paralleli, come ad esempio quello delle aziende. Per farlo tocca rimboccarsi le maniche, ed essere disponibili a imparare qualcosa di nuovo.
Affacciarsi sul mercato internazionale richiede grande costanza e apertura mentale: il punto è trovare realtà con obiettivi e poetiche allineate al proprio lavoro, costruire la fiducia necessaria a conquistare i produttori, aprire dei dialoghi, costruirsi una rete di relazioni, investire tempo ed energie. Noi abbiamo lavorato molto per individuare i giusti interlocutori, e una grande svolta è arrivata nel 2015, quando sono stato invitato dalla Venaria Reale ad entrare a far parte di In Situ, un network europeo dedicato all’arte nello spazio pubblico. I network esistono eccome, ce ne sono moltissimi, bisogna considerare l’Europa come campo di azione, non solo l’Italia.
Appartengo a una generazione di attori che ha iniziato la propria carriera con tournée internazionali, un lusso ormai dimenticato – e diciamolo, non solo per gli italiani. In Europa da diversi anni si parla del passaggio da prodotto a processo, un punto estremamente interessante: non più repliche, ma un percorso che resti aperto e malleabile. Non funziona pensare semplicemente di vendere il proprio spettacolo all’estero, è sempre più difficile per tutti, va ripensata l’intera progettualità. Si parla di audience development, che non vuol dire vendere più biglietti, ma intercettare bisogni e sacche di pubblico ancora non sfiorate dall’offerta culturale. Il mondo cambia velocemente, non si può pensare di continuare a ragionare come negli anni ’90 o addirittura ‘70.
Uno dei punti deboli del nostro paese è la mancanza di un reale sostegno alla mobilità internazionale. Per compensare questa mancanza, noi ci siamo trovati a sviluppare un business model: anni fa alcune aziende hanno cominciato a chiederci dei progetti di formazione. Abbiamo imparato a declinare i nostri talenti anche in quel mondo, abbiamo integrato le nostre competenze per imparare a muoverci al suo interno, e questo ci ha permesso di essere artisticamente liberi. La nostra ricerca non ha vincoli, se non quelli che diamo a noi stessi. Raccontato così sembra semplice e strategico, ma è stato invece il frutto di una enorme dose di frustrazione verso il sistema produttivo nostrano, unita a un immenso desiderio di continuare a fare ciò che ci anima.
Ci piacerebbe arrivare a sostenere altri nella mobilità internazionale, specie i più giovani, a mio avviso la categoria più in pericolo. La mia generazione deve iniziare a preoccuparsi del passaggio di consegne, di cosa vogliamo costruire e lasciare a chi comincia oggi.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Gli artisti, oggi e forse sempre, hanno un ruolo e una responsabilità che possono decidere di raccogliere: intercettare bisogni umani a volte non consapevoli, che aleggiano nella società senza risposta. L’arte può aprire finestre verso mondi alternativi, rispondendo a questi bisogni, senza pretesa di risolverli, ma ascoltandoli. È necessario almeno tentare di lavorare a quel livello, creare le condizioni per attivare pensiero ed emozione, per creare almeno la possibilità di cambiare punto di vista. In questo modo si può recuperare la dimensione più sacra della rappresentazione, dare vita a rituali contemporanei adatti alla società in cui viviamo. Ho enorme rispetto per il teatro ben fatto, qualsiasi forma esso abbia, credo sia una delle forme d’arte più difficili e delicate da realizzare, un lavoro per pochissimi. Credo però che non sia più tempo di chiudersi in sala prove, non ora almeno.
La condivisione è il motore del contemporaneo: dalla sharing economy ai progetti partecipati, dalla qualità delle relazioni come unica vera sorgente di felicità – argomento oggetto di pagine di ricerca e letteratura – all’ascolto come principio esistenziale. L’esperienza si certifica unica e irripetibile solo quando cambiano le persone coinvolte.
La crisi legata al Covid-19 ha mostrato chiaramente come il mondo cambi a seconda di dove ci mettiamo ad osservarlo. Una delle cose che più mi ha colpito è stata la durissima reazione di tanti teatranti all’idea di muoversi verso il digitale. Siamo tutti d’accordo che il nostro mestiere è dal vivo, ma se non si può, cos’altro si può fare intanto? Ho visto tre tipi di reazione: chi ha chiesto l’immediata riapertura dei teatri, senza nemmeno chiedere al pubblico se fosse interessato; chi ha portato online quello che faceva su palco, senza preoccuparsi di adattarlo; e chi ha esplorato, indagando i limiti di questo mezzo.
Effetto Larsen si è trovata ad offrire un palinsesto digitale di workshop e incontri, inizialmente in modo disordinato, e via via più strutturato. Abbiamo poi raccolto la richiesta del pubblico che ci segue, una versione online di Pop-up Civilisation, un progetto sul senso di comunità: “Siamo tutti in sospensione, è il momento perfetto per riflettere su come vorremmo costruire la società quando torneremo a uscire”. Avevo immensi dubbi e mille resistenze, poi con alcune sessioni aperte abbiamo trovato il modo di far funzionare il progetto anche online, e ora ne stiamo realizzando la versione francese, con una produzione internazionale. Ce lo aspettavamo? No. Pensavamo avrebbe funzionato? Forse. Ci siamo solo lasciati la possibilità di scoprire e di sbagliare. Questo ci rende migliori di altri? Assolutamente no. So solo che questa esplorazione ci ha permesso di nutrirci interiormente e reggere il lockdown, che abbiamo imparato moltissimo, e che quando torneremo a lavorare dal vivo avremo qualcosa in più rispetto a prima, e non qualcosa in meno.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Qualche tempo fa ho trovato un quaderno di appunti del mio primo anno in Paolo Grassi. A vent’anni, su una pagina ho scritto, bello grande: “Il teatro non è la rappresentazione della realtà”. Non ricordavo assolutamente di averlo scritto, ma rileggendo quella frase mi sono ricordato che già allora pensavo che il teatro dovesse parlare del mondo in cui viviamo, al mondo in cui viviamo, ma senza imitarlo. Il teatro è di per sé la più ingenua delle arti: facciamo tutti finta di credere a un artificio, collaborando alla sua possibilità di esistere, e questo è meraviglioso, colmo di ricchezza.
A mio avviso il contemporaneo, oggi, necessita della capacità di mettere in discussione tutti gli aspetti della creazione. A me interessa molto il rapporto tra artista e spettatore, la zona di indagine più stimolante per me. Più andiamo avanti con la nostra ricerca, meno performiamo noi: creiamo condizioni, luoghi, spazi, situazioni in cui il pubblico possa diventare attivo nella costruzione di un’opera. Riuscire a farlo sfuggendo a ingenuità, banalità e superficialità richiede tempo, di solito ogni progetto richiede due anni di sviluppo.
Anche il processo produttivo va messo in discussione, penso ad esempio al manifesto di NTGent scritto da Milo Rau, che in dieci punti riesce a includere ogni aspetto della creazione. È questo il contemporaneo, questa capacità di estendere lo sguardo, di comprendere una sfera più ampia nel proprio lavoro, che va dall’artista al mondo in cui è immerso. Da questa relazione nasce la possibilità di fare lavori che parlino a quel mondo, di cui si senta il bisogno, un bisogno che va recuperato: il teatro ha trovato e portato vita in zone di guerra, in campi di prigionia, in carceri, come mai adesso è così poco apprezzato? Cosa portiamo con noi in scena, cosa porta noi in scena? Solo ascoltando la realtà si può parlare della realtà, e quindi alle persone.
Spesso mi chiedono se per lavorare a livello internazionale sia necessario fare progetti partecipativi o site-specific, e rispondo sempre di no: non ci si può snaturare, se c’è qualcosa a cui restare fedeli è la propria poetica, il proprio modo di fare arte. Il punto è creare le condizioni per riuscire a fare il proprio lavoro, instaurare le relazioni che permettono di nutrirlo. Durante il lockdown mi sono ritrovato spesso a riflettere sul pensiero di Krishnamurti: la società è un’astrazione, mentre non lo sono le persone che creano quell’astrazione attraverso le loro relazioni. Parliamo sempre di cambiare la società o il sistema, mai di cambiare le persone che creano la società in cui viviamo. Credo sia ora di iniziare a farlo.
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