Siamo alla quattordicesima intervista di Resistenze Artistiche e torniamo sulla via Emilia, a Modena per incontrare Magda Siti, direttrice e anima forte di Drama Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro
Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.
Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?
Dal 2014 gestiamo uno spazio comunale sempre con l’idea che il nostro sia un vero e proprio servizio pubblico. Servizio che in questi due anni è rimasto chiuso per centinaia di giorni. Dopo il momento iniziale di shock abbiamo subito attivato quel sistema di difesa che si chiama creatività: abbiamo cioè continuato a progettare e ipotizzare azioni nel mondo reale per un futuro che non sapevamo quando sarebbe arrivato. Lo spazio fisico quindi è rimasto chiuso, lo spazio virtuale si è limitato a un contatto diretto con gli spettatori attraverso la call per il festival internazionale Cinedanza e le dirette settimanali su YouTube “Inside Cinedanza”. Nell’estate del 2020 il teatro era sempre chiuso e le performance che abbiamo organizzato per la rassegna “Frequenze” si sono svolte in un cortile privato e in un parcheggio di un circolo Arci. Sul filo del rasoio (ottobre 2020) siamo riusciti a portare a termine il festival Cinedanza in presenza e in diretta streaming su YouTube. Il secondo lockdown è stato più pesante del primo, ma siamo comunque riusciti ad elaborare il progetto “La vostra voce” che ha coinvolto cittadini e spettatori. Il focus erano loro, la loro voce, i loro racconti, le loro esperienze, che abbiamo raccolto sia davanti all’ingresso del teatro (registratore alla mano) sia attraverso una call di raccolta di racconti brevi. Poi c’è stata anche una piccola azione politico/artistica: un countdown al contrario: dirette video in cui, ogni giorno di chiusura, dalla bacheca del teatro strappavamo un foglio così che il numero stampato crescesse. A 100 giorni di chiusura abbiamo fatto un flashmob sul tetto del teatro.
Da gennaio 2021 abbiamo esplorato il mezzo radiofonico e proposto l’ascolto in prima serata di alcune opere costruite apposta da Radio Tempi Tecnici. In più ci siamo lanciati nelle prove di Era meglio Cassius Clay che ha debuttato in estate al festival Inequilibrio.
Infine l’imbuto infernale delle riaperture. Da maggio ad oggi non ci siamo mai fermati, tra attività all’aperto e al chiuso abbiamo proposto 17 titoli per un totale di 26 serate in 3 spazi della città.
Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?
Abbiamo continuato il percorso con gli artisti con cui condividiamo da alcuni anni una riflessione sul lavoro dell’attore in scena e la scrittura scenica. Abbiamo sfruttato ogni momento possibile, tra una chiusura e l’altra e siamo arrivati al termine di una nuova produzione con testo e regia di Rita Frongia: ” Era meglio Cassius Clay”. Contemporaneamente abbiamo stretto i rapporti con un gruppo di attori giovani, a cui era giusto dare spazi sia fisici sia di creazione. È stato fondamentale per noi pensare a cosa diventava inutile. Pensare alle priorità,cercando di salvaguardare il più possibile le nostre linee culturali, compatibilmente con la sopravvivenza.
Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.
Abbiamo avuto una vicinanza con l’amministrazione comunale che ha sostenuto il settore anche con dichiarazioni pubbliche oltre a dare sostegno economico nei limiti delle loro possibilità.
Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?
Pensandoci bene, forse non abbiamo modificato radicalmente le strategie,se non nel adeguare il mezzo comunicativo alle esigenze sanitarie( radio,interviste,) perché comunque noi abbiamo sempre privilegiato un rapporto continuativo, spesso personale o coinvolgendo piccoli gruppi di spettatori. La riflessione maggiore che abbiamo fatto, riguarda la nostra attività : su cosa investire? È il momento di farlo?
n pugilato quando si dice “colpire di incontro” significa affondare un colpo d’attacco mentre si ha un atteggiamento difensivo. Rita Frongia con Era meglio Cassius Clay, in prima assoluta ad Armunia al Teatro Nardini di Rosignano Marittimo, colpisce il pubblico proprio simulando un’atmosfera, pur con qualche imbarazzo, leggera e divertente, per poi affondare il colpo da KO all’ultima ripresa.
Dico imbarazzo perché Rita Frongia gioca con quello che gli inglesi chiamano cringe, ossia quel disagio che assale chi osserva un evento ritenuto imbarazzante e di cui è assolutamente privo chi compie l’atto. Un imbarazzo vicario. Lo spettacolo intesse su questo sentimento un raffinato intrico di sensazioni in cui lo spettatore si trova imprigionato. Quello che vedo fa davvero ridere? Devo credere al brivido che, sospetto, inquina la mia risata? Qual è la vera natura dell’oggetto scenico che prende vita sotto i miei occhi?
Era meglio Cassius Clay è un percorso nel bosco, in cui, se si sa osservare, si possono cogliere sul sentiero le mollichine di pane sparse da chi ci ha preceduto per avvertirci del pericolo. L’istinto è sempre in allarme, ci avverte che qualcosa è fuor di sesto.
Il disagio assale fin dalle prime scene. Due uomini, uno su una sedia a rotelle, l’altro in funzione di badante, quasi una coppia Hamm e Clov ma dove i ruoli sembrano ribaltati, ossia il servente sembra essere in apparente funzione dominante. I due abitano uno spazio non ben definito in cui vi è solo una vecchia poltrona rossa e sullo sfondo un’apertura come di macelleria, i cui battenti sono solo due fogli spessi di polietilene.
Costoro stanno aspettando qualcosa. O qualcuno. Suona il campanello e fa il suo ingresso una sgangherata attrice di feste per bambini. Esegue un piccolo prologo al suo spettacolino in cui la luce dopo essere apparsa viene mangiata dal buio, quasi come nel Vangelo di Giovanni dove le tenebre non hanno capito l’apparire della luce. Se fosse veramente uno spettacolo farebbe paura. Ma non ci sono bambini, solo i due figuri all’apparenza innocui. Dove sono i bambini? Chiede l’attrice :”ma è Jimmy? Dice uno dei due indicando quello seduto sulla sedia a rotelle che pare incapace di proferir parola. I due sembrano disabili mentali.
L’attricetta si trova così di fronte a un bivio cruciale nella sua vita. Andarsene perché di bambini non v’è traccia oppure far buon viso a cattivo gioco e continuare a stare in questa strana e imbarazzante situazione. In Era meglio Cassius Clay, così come in Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, i personaggi costretti dalle circostanza si trovano a scegliere e tutti coloro che fanno la scelta sbagliata ne pagheranno le conseguenze.
Ed ecco dunque prendere vita uno strano gioco spettacolare il cui pubblico è bipartito: da una parte Jimmy e il suo losco compare, dall’altra il pubblico avvinto da questa sensazione di imbarazzo divertito per le situazioni assurde che si vengono a creare, Tutto avviene in questo spazio abbandonato, non vuoto né neutro, in qualche modo pericoloso che giustamente collima con un palcoscenico.
Tutto procede. si susseguono i giochi intervallati dai racconti delle gesta di Jimmy sul ring, storie di violenza e di intimidazioni. Le mollichine di pane si accumulano. Così si scivola nel tragico, come su un piano inclinato solo in apparenza privo di appigli per fermare la caduta. Basterebbe uscire dalla porta e non voltarsi indietro. Basterebbe davvero poco eppure inevitabilmente si cade, si sprofonda, la luce inghiottita dal buio, fino all’atto finale dove tutto conferma quello che l’istinto ci avvertiva fosse in realtà. Una mattanza preparata e premeditata, solo dilazionata per divertimento insano e perverso. L’assassinio arriva come più volte annunciato, solo che nessuno ascoltava. Eppure si rideva. Si faceva finta di niente. Ah le risate! E tosto tornò in pianto.
Era meglio Cassius Clay di Rita Frongia ha molti livelli di lettura come le migliori opere, ma ha il merito di essere soprattutto un gesto poetico politico di forza straordinaria. Parla di noi, del mondo che abitiamo, della società che insieme costruiamo, parla del teatro, parla soprattutto dei “piccoli sì” detti con leggerezza pensando non ci saranno serie conseguenze, i “piccoli sì” che ogni giorno di più fanno sprofondare nell’abisso con noncuranza fino a quando ormai è troppo tardi.
Rita Frongia costruisce la sua creatura poetica come un grande sarto, su misura degli attori chiamati a collaborare alla scrittura scenica e drammaturgica, e gli attori (gli splendidi Angela Antonini, Stefano Vercelli e Gianluca Balducci), la ripagano riuscendo a creare quella desiderata e cercata sensazione di imbarazzo vicario, di pericolo latente, e questo nonostante le difficoltà di questi tempi (le prove sono state spesso sospese). Il lavoro ora merita un lungo rodaggio, per acquisire i giusti tempi, le pause necessarie, i chiaroscuri e quei piccoli colpi di pennello doverosi per raggiungere il giusto grado di tensione drammatica sul quel sottilissimo crinale tra violenza bruta e delicata ironia. Speriamo che il mondo teatrale bulimico e così simile alla lupa dantesca che dopo il pasto ha più fame che pria, conceda il tempo a questa piccola creatura di crescere sulla scena prima di fagocitarla e richiedere una nuova vittima sull’altare della novità a tutti i costi.
Ultima nota: dopo la prova generale a Drama Teatro a Modena ho chiesto a Rita Frongia ragione del titolo. Lei mi ha risposto, con la grande ironia che la contraddistingue, che Mohammed Ali le sembrava più ordinario di Cassius Clay. Come nome era meglio Cassius Clay.
Per la quarantaquattresima intervista de Lo Stato delle cose andiamo a Modena per fare un’eccezione al fine di confermare la regola. Incontriamo infatti Magda Siti e Stefano Vercelli, due amici che al teatro hanno dato e stanno dando molto.
Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Stefano Vercelli e Magda Siti non hanno bisogno di alcuna presentazione. Ricordiamo solo che dirigono a Modena Drama Teatro le cui ultime produzioni vedono protagonisti Claudio Morganti e Rita Frongia. Inoltre dirigono il festival Città e Città.
Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Stefano Vercelli: Risponderò in forma di elenco, (il cui ordine può variare), mi aiuta a trovare sintesi e un po’ di chiarezza a una domanda così complessa, dunque:
Peculiarità della creazione scenica?
1) Una delle condizioni necessarie per intraprendere un’ avventura creativa è sicuramente avere un progetto che ti piace, che ti anima per qualche misterioso motivo e che realizzerai con persone che stimi, che ti sono simpatiche, con le quali ridi, discuti con piacere e interesse per quello che dicono e durante il lavoro e poi in scena, non prevaricano.
2) Avere uno spazio adeguato (riscaldato d’inverno e a disposizione per un tempo abbastanza lungo, dove si ha la libertà di stare in silenzio ma anche di sparare musica a tutto volume.
3) Firmare un contratto di assunzione regolare con paga dignitosa, anche il minimo sindacale può andar bene.
4) La modestia, il “mettersi al servizio” e abbassare i livelli dell’ego.
Cosa necessita per essere efficace?
1) L’efficacia di un lavoro, nel mio caso, almeno per il momento, il teatro, è molto soggettiva. Come attore sento che quello che sto facendo è efficace, quando sto a mio agio durante la creazione anche nei momenti in cui non si sa cosa fare e non importa saperlo (almeno non subito) e, in scena, quando ci sono quei momenti in cui non stai “ripetendo” ma sei lì, per la prima volta, in quel momento, con una percezione amplificata di tutto ciò che c’è intorno a te; quando, guardando in faccia il mio compagno o campagna di lavoro durante uno spettacolo, mi accorgo che lo sto guardando veramente e non facendo finta di ascoltarlo aspettando il mio turno per rispondere. Quando in uno spettacolo il testo, i dialoghi e i silenzi non sono “battute”.
2) Per essere efficace (ma non è una regola) necessita della maturità e professionalità dei componenti che si predispongono a realizzarla, che mettano in gioco le loro certezze estetiche e attoriali e le convinzioni di sapere cosa sia necessario ad una creazione per essere efficace. Necessita anche, nel caso si lavori con qualcuno di molto giovane, con poca o anche nessuna esperienza, l’ascolto ed evitare giudizi sulle qualità, il valore e il merito della persona.
3) C’è da considerare anche la differenza tra il concetto di efficacia che hanno i critici, i giornalisti, gli scrittori, i fotografi, il pubblico “normale, quello degli addetti ai lavori, il pubblico formato dai genitori e parenti degli attori, il pubblico straniero, quello giovane, di mezza età e quello anziano, e il pittore, il danzatore, la casalinga l’insegnate ecc…si capisce alla fine che non esiste un concetto di efficacia universale. Per esempio al pizzaiolo napoletano sotto casa mia piacciono tantissimo le parate sui trampoli, quello per lui è “teatro efficace”. Se penso che andavo sui trampoli a fare “parate” con tamburi, fisarmoniche, maschere, grida e canzoni trentacinque anni fa mi metterei a piagne!
Concludo dicendo che nel rispondere a questa domanda, ho dovuto necessariamente tener conto della mia storia personale e del mio rapporto con l’Arte in generale. La mia vita professionale è piuttosto poliedrica: parto da un grande amore per il disegno e la pittura desiderando di essere Leonardo, Caravaggio, Paul Klee…mi iscrivo all’Accademia di Belle Arti, scelgo scenografia ma un giorno vedo uno spettacolo teatrale dove la scenografia consisteva in otto panchine messe a rettangolo sulle quali sedevano sessanta spettatori e, tutt’intorno, una fila di semplici lampadine come quelle delle fiere di paese. Toccato nel profondo dal modo di essere “totale” di quegli attori, abbandono l’accademia e parto per la Danimarca per raggiungere quel gruppo. Poi parto per la Polonia dal maestro Grotowski, e il lavoro nelle foreste, per l’India con la sua danza Katakali, per Haiti e i suoi rituali religiosi chiamati voodo, tornato da queste esperienze estreme e così diverse tra loro, il teatro, soprattutto nei rituali ai quali avevo assistito, aveva perso per me quella che si chiama “la magia del teatro” e personalmente non mi interessava più essere attore o diciamo di esprimermi attraverso questo mezzo. Poi, di nuovo un cambiamento; continuare a sperimentare sulle basi di quelle esperienze, a Volterra, a Pontedera. Poi il lavoro sulla “percezione”, sui fenomeni di “sincronicità” (nel senso Junghiano) Nelle strade come guida in spettacoli per cinque spettatori dove, attraverso azioni particolari, orientare il partecipante a “vedere” piuttosto che “essere visti”, poi ancora, per una serie di circostanze , il cerchio è tornato a chiudersi e ad aprirsi di nuovo con il ritorno in una sala teatrale come attore. Voglio concludere con un ricordo: nel 1974 Zbigniew Cynkutis, uno degli attori di Grotowski, durante uno stage mi disse, più o meno queste parole: “Per essere un attore completo e essere credibile in scena, bisogna aver vissuto amori e abbandoni , aver visto nascere e morire qualcuno.”
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Magda Siti: Della complessità del sistema teatrale si è parlato molto soprattutto in questo periodo. Esiste una moltitudine di realtà, intese sia come spazi gestiti, sia come compagnie; certamente una ricchezza se pensiamo alla diversità del lavoro e della ricerca, ma si rischia l’iperproduttività a volte foriera di scarsa qualità. Oggi proliferano bandi che spingono gli artisti e anche le realtà che li ospitano a declinare o piegare il lavoro artistico a regole rigide che spesso prediligono i temi o le fasce di età. Non prendo nemmeno in considerazione quei piccoli bandi che sfruttano il desiderio di lavoro o la necessità di spazi prove da parte di giovani compagnie, senza rispettare il livello minimo di dignità lavorativa dell’artista. (Si potrebe aprire qui una lunga parentesi sui livelli di connivenza che tutti noi forse non indaghiamo abbastanza, ma il discorso sarebbe lungo e meriterebbe attenzione e precisione).
Nella mia breve esperienza di direzione artistica, precisando che gestiamo un teatro di piccole dimensioni, ho capito che è importante innanzitutto comprendere a fondo (e spesso bisogna darsi tempo) qual è il luogo che stai gestendo e quale identità desideri per quel luogo. E’ fondamentale mettere al centro il lavoro degli artisti proteggendolo innanzitutto a livello formale e legale, e difendere sempre i lavori che si scelgono per le rassegne o che si producono. Non una difesa cieca, paternalistica o basata sulla convenienza economica, ma condividendo stima reciproca. Concludendo, è indubbio che per produzione e distribuzione ci sarebbe bisogno di rivedere molte regole ministeriali e in alcuni casi anche regionali, che lasciano poco margine a ricerca, tempi di lavoro e possibilità di maggiori repliche, ma ritengo che si possano tracciare percorsi interessanti proprio in spazi medio/piccoli, che ancora, anche se a fatica, riescono a perseguire una loro idea di teatro.
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera
creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di
agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale
distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato
internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i
metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti
canali di distribuzione?
Magda Siti: A volte mi sembra di essere immersa nell’immobilità di un sistema teso a reiterare in eterno i medesimi meccanismi e per molti versi è così, poi mi rendo conto che ci sono piccole realtà che pur nella ristrettezza economica, stanno attuando una pratica di lavoro seria, rispettosa del lavoro degli artisti e con un atteggiamento di curiosità che non pone steccati a priori nella scelta degli spettacoli, altri che invece continuano a ricalcare modelli sterili di scambio o basarsi sulle scelte dei soliti nomi più quotati del momento.
Forse troppo poco si parla di etica nel nostro lavoro, vedo spazi o compagnie che spesso sventolano il vessillo dell’indipendenza e di azioni “rivoluzionarie” che poi non si rispecchiano nei fatti. Di contro esiste anche chi, pur essendo finanziato da enti pubblici o privati, mantiene un atteggiamento corretto e anche di apertura verso gli artisti. Io non mi ritengo indipendente, anche se non riceviamo fondi ministeriali, altri finanziamenti pubblici e privati ci permettono di lavorare. Però è una fortuna poter scegliere le compagnie e gli artisti con cui si ha più corrispondenza artistica e che si stimano a livello personale.
Il tema della distribuzione intreccia diversi piani, economici, politici e legislativi, forse è anche inutile ribadire quanti “carozzoni” inutili tolgono soldi pubblici a chi davvero fa un lavoro quotidiano e serio, o forse è proprio giunto il momento, visto che questo periodo di difficoltà ha evidenziato differenze e fragilità già esistenti, di non richiudere il vaso di Pandora. Contemporaneamente ritengo importante non svicolare dalle proprie responsabilità, fare sempre di più scelte che corrispondono alla propria visione teatrale, forse dovremmo essere più coraggiosi, non rimanere negli steccati dei “generi”, non chiederci così spesso se piacerà al pubblico. Questo atteggiamento forse favorirebbe lo sviluppo della circuitazione se non numericamente sicuramente qualitativamente.
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Magda Siti: Digitale o dal vivo. Ora sembra sia diventato questo il problema e se ne discute come fosse l’unico nodo da sciogliere, si creano schieramenti a volte sterili. La videoarte esiste da tanto, l’uso di tecnologie o le cosiddette nuove tecnologie, è da parecchio che frequentano la scena. Forse rischio di banalizzare, ma credo dipenda sempre dall’oggetto di ricerca dell’artista. Poi, in questo particolare momento è pericoloso farsi attrarre in un ambito solo per l’ansia di essere presenti, per timori economici o previsioni strategiche, senza competenze ed esperienza.
Se ritorno poi all’inizio del mio discorso, e al mio punto di vista, non mi resta che sottolineare che “dal vivo” è il teatro; dal vivo si possono creare le vere relazioni, quelle capaci di far accadere, capaci di frequentare quella zona fragile e misteriosa dell’improvvisazione.
Non è teatro se non è dal vivo, è altro, non ne faccio una graduatoria: cos’è meglio o peggio, sono diversi.
Quindi si farà come si potrà, per fare teatro, bisogna avere anche la capacità di aspettare.
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Magda Siti: Non mi addentro in distinzioni filosofiche o letterarie tra reale e virtuale, non ne ho le competenze. Se però penso al teatro e al rapporto con il reale, mi viene da dire che non se ne può prescindere, è il tempo che viviamo, in cui siamo immersi e non c’è sempre la necessità di restituirlo aggrappandoci agli argomenti.
La scena è una bellissima invenzione (cito a memoria la frase di un caro amico) e lì, in quel “gioco” di relazioni, dalla vita di ognuno non si può prescindere.
Il teatro ha
avuto fin dalle origini una passione per il tribunale, tanto da poter
quasi dire che le due istituzioni, in Occidente, siano nate gemelle.
Questa attrazione reciproca continua tutt’oggi. Pensiamo solo a molti
lavori di Milo Rau dove il tribunale è la forma teatrale stessa.
Oppure a come molti artisti oggi scelgano di incontrare l’Orestea di
Eschilo. Il caso W
di Claudio Morganti,
con la scrittura di Rita Frongia,
è un’ulteriore immagine di tale fascinazione a sua volta innesco per
far deflagrare altre seduzioni pericolose.
Prima fra
tutte il caso Woyzeck.
C’è qualcosa di estremamente contemporaneo nella vicenda lasciata
incompiuta da Büchner,
un’inquietudine molesta che fa riflettere. Non solo per il
femminicidio perpetrato dal soldato Woyzeck, ispirato alla reale
vicenda dell’omonimo barbiere di Lipsia consumatasi nel 1821. Si
tratta di un grumo ambiguo, un buco nero in cui si agitano follia,
libero arbitrio, condizioni ambientali, abbrutimento, alcolismo e che
si palesano in una semplice domanda: Woyzeck era in grado di
intendere e di volere? E ancora: questo male oscuro da cosa è
generato? È contagioso? Si può insinuare in ogni coscienza?
Il professor
Johann Christian August Clarus fu il primo a porsi il problema tra il
1821 e il 1824, periodo in cui, tramite due perizie, cercò di far
revisionare il processo Woyzeck scongiurando la pena di morte
all’omicida. I suoi sforzi furono inutili ma le sue considerazioni,
pubblicate su una rivista medica cui era abbonato il padre di Büchner
fecero nascere il personaggio teatrale. Agli albori del Novecento
ecco riaffiorare la vicenda Woyzeck, non solo per le numerose regie
tra cui spiccano quella di Max Reinhardt e l’opera di Alban Berg, ma
anche e soprattutto per il suo doppio letterario, il Moosbrugger de
L’uomo senza qualità
di Musil.
Woyzeck e
Moosbrugger portano alla luce forze caotiche non chiaramente
definibili causa di inquietudini profonde che la civiltà
occidentale vuole convincersi siano sopite, scongiurate, rese
innocue, ma formano il sottofondo cupo e ambiguo che si agita sotto
la calda e confortante coperta della civilizzazione. :”Se l’umanità
fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger”
ci dice Musil, e con esso il soldato Woyzeck, aggiungeremmo noi.
Il
caso W è l’ultima propaggine di una
ricerca minuziosa, di un’indagine accuratissima al limite
dell’ossessione che Claudio Morganti
affronta da circa vent’anni. In questa sua ultima fatica è
affiancato dalla scrittura arguta e surreale di Rita
Frongia. L’opera in cui lo spettatore si
trova immerso, quasi catapultato in un tribunale dove si dibatte
l’appello del caso Woyzeck, possiede elementi di agghiacciante ironia
su cui si staglia l’orrenda e tremenda solitudine dell’omicida.
Nessuno vuole capire cosa sia realmente successo: non gli avvocati,
avversari solo perché di parte, ma amichevoli nelle pause del
dibattimento; non il giudice e il cancelliere, ascoltatori e
osservatori per dovere; non i testimoni portatori di una propria
verità parziale, larva e maschera delle proprie colpe e miserie,
soprattutto correi per disattenzione; e nemmeno lo spettatore, muto e
nascosto nell’ombra. Ciascuno, in questa cronaca di una morte
annunciata, recita una parte tranne Woyzeck, il quale tenta di dire,
straparla, balbetta, si affanna a trovar parole che diano una ragione
ma incapace di trovarle. Il povero soldato è impedito dalla
separazione totale dal resto del consesso umano.
La forma
data da Claudio Morganti e
Rita Frongia richiama
esplicitamente una certa commedia all’italiana colma di contenuti
politici e alla ricerca del paradosso, dell’iperbole, del grottesco.
Woyzeck nel suo mutismo, nel suo stare seduto a capo chino con le
mani abbandonate in grembo, il suo chiedere parola rispettosamente
alzando la mano sembra quasi il più normale e soprattutto il più
reale. Testimoni, avvocati e giudice sono personaggi, parte di un
grande spettacolo di varietà, di una farsa da avanspettacolo volta a
intrattenere la morbosa curiosità del pubblico e non attori di un
processo volto a comprendere e stabile la verità al fine di
affermare la giustizia e comminare una pena, peraltro già assegnata.
Siamo di fronte a un circo il cui unico scopo è alzare polvere che
offuschi i fatti e i moventi, cortina fumogena di cui tutti siamo
testimoni ogniqualvolta un delitto si affaccia gli onori della
cronaca. Pensiamo ai casi clamorosi di Cogne, di Rosa e Olindo, il
delitto di Garlasco o quello di Perugia. A ogni nuovo trucido fatto
di sangue ecco sfilare testimoni, esperti, vallette e dubbi vip a
dire la loro, a stabilire colpe e moventi, senza chiedersi: perché?
E di fronte a tutta questa macchina spettacolare ecco il teatro, nel
suo essere rappresentazione e finzione, manifestare la sua funzione
rivelatrice facendosi portatore delle voci inascoltate: quella di
Woyzeck e del fantasma di Marie.
Il teatro,
lo ripetiamo, nasce a braccetto con il delitto e il tribunale. C’è
un’affinità inquietante tra le due realtà. Il delitto sembra essere
il terreno su cui interrogarsi a proposito della natura umana e Il
caso W ne sembra la quintessenza. Come
dice il poliziotto nell’ultima battuta del manoscritto di Büchner:
“un bel delitto, un delitto fatto bene, proprio bello! Tanto bello
che non si poteva pretendere di più. Da tanto non ne avevamo avuto
uno così”.
Domenica16 dicembre al Dialma Ruggiero di La Spezia è andata in scena nella rassegna Fuori Luogo la Trilogia del tavolino di Rita Frongia. Una piccola maratona di tre spettacoli: La vita ha un dente d’oro, La vecchia e Gin Gin, il primo per la regia di Claudio Morganti ,gli altri per la regia della stessa Rita Frongia.
Il vero protagonista è un tavolino intorno al quale si siedono dei buffi personaggi: una coppia di amici, o forse solo due viandanti che si son seduti al medesimo tavolo all’osteria; un improvvisato e truffaldino maestro di vita e un poeta alla ricerca di risposte; due sorelle. In scena pochi altri elementi, oggetti che prendono vita al tocco degli attori e che, animati, a loro volta danno energia inattesa alle parole.
Le luci sono essenziali, solo quanto serve a illuminare il poco spazio nei pressi del tavolino. Tutt’intorno l’abisso nero, minaccioso, poco rassicurante. Non siamo da nessuna parte. Le coppie di personaggi si siedono e iniziano un gioco, come una strana partita a scacchi il cui esito potrebbe essere nefasto. Se ne ha la netta sensazione.
La drammaturgia dei tre spettacoli sembra apparentemente innocua. Si ride parecchio, si rimane avvinti dagli strampalati ragionamenti ,dalle battute caustiche, le assurdità, i nonsense. In questa selva di parole il pericolo striscia come serpe nell’erba alta. Vi è un che di velenoso in ciò che accade e si sente. La morte è in agguato. Ogni testo ha il suo cadavere, una porta oscura, un abisso entro cui sprofondare. I buffi personaggi che ci continuano a strappare delle risate sono pericolosi, posseggono una carica virulenta, ci potrebbero infettare con le loro miserie (o forse siamo noi a contagiare loro?). Si percepisce che tra scena e platea potrebbe verificarsi un illecito contagio.
La lingua soprattutto è veicolo di trasmissione: i gramelot, i dialetti ci rendono familiare e divertente qualcosa da cui ci si dovrebbe guardare. Come una trappola per topi: qualcosa di piacevole ci attira e ci cattura. La telefonata del poeta in La vecchia in dialetto napoletano, quella dove spiega la ricetta per cucinare l’uovo sodo. Ci fa ridere, ma quella meraviglia dell’ovvio, quel magnificare la banalità non è nella nostra vita ogni giorno? E in Gin Gin quel romanesco in cui si descrive la codardia con cui si abbandona il barbone investito non è la nostra quando facciamo di tutto per ignorare la sua presenza nelle strade?
Sembra anche che non vi sia un senso definito, che ognuno debba cercare per sé la sua conoscenza. I tre spettacoli sono come una sorta di oracolo: sta a noi l’interpretazione del vaticinio. Sarebbe inutile raccontarli, si fornirebbe solo la risposta che ne ha tratto chi scrive. È personale, privata. Qualcuno potrebbe obbiettare che èsempre così. Ognuno vede cose diverse, ma in questo caso vi è una volontà drammaturgica nel rendere misterioso ciò che accade, un arcano intrigante in cui le risposte sono volutamente multiple.
Le tre coppie di attori (Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur in La vita ha un dente d’oro, Marco Manchisi e Stefano Vercelli in La vecchia, Angela Antonini e Meri Brancalente in Gin Gin) danno vita a tre universi molto diversi ma che hanno in qualche modo un DNA comune. È come se intorno al tavolino le partite che si possono giocare siano sì infinite ma sottoposte alle stesse regole.
La recitazione è molto fisica, il corpo gioca un ruolo fondamentale benché non ci si trovi certo di fronte a un teatro di movimento. Si sta seduti al tavolino, ma i movimenti, anche quelli minimi del volto o delle mani, forniscono consistenza e fisicità alle parole. In La vita ha un dente d’oro per esempio la semplice richiesta di farsi un bicchierino si trasforma in un concerto di suoni e di ritmi che ricorda gli esperimenti di RogerWaters. Così come all’inizio quel mischiare il mazzo di carte infinite volte in mille varianti per una partita che non inizierà mai è significante quanto un fiume di parole. Non si è dunque di fronte a una semplice messa in scena di un testo quanto un farlo vivere con il linguaggio proprio del teatro, quello del movimento di oggetti e persone nel tempo e nello spazio della scena. Un dire senza proferir parola e dove quest’ultima è elemento a sé stante, indipendente ma che con il linguaggio fisico si accoppia in nozze felicissime.
La recitazione possiede una certa liquidità, come se alcune parti siano mobili, passibili di variazioni improvvisative, come per esempio la lettura delle carte in La vecchia. Pare che il futuro venga letto proprio di fronte a noi, che la profezia valga in quell’istante e in quel momento.
La trilogia del tavolino costruisce tre mondi in cui si viene catturati come da piante carnivore. Veniamo allettati dal riso per precipitare in un mondo sottosopra che assomiglia alla nostra vita quotidiana. I piccoli peccattucci, omissioni, vanità, codardie che ci accompagnano a ogni passo. Nessun delitto eclatante a tutta prima eppure questo si consuma sempre. Piccole macchioline che alla fine sporcano il quadro d’insieme e ci fanno come Amleto: passabilmente onesti ma colpevoli di tali cose che sarebbe stato meglio non essere stati partoriti.
La trilogia di Rita Frongia è dunque uno specchio molesto e disvelante. Sorride ma è un delinquente perché ci deruba della certezza di essere brave persone. Svela la nostra segreta immagine, ridicola e allo stesso tempo pericolosa.
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