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Il caso W

IL CASO W DI CLAUDIO MORGANTI

Il teatro ha avuto fin dalle origini una passione per il tribunale, tanto da poter quasi dire che le due istituzioni, in Occidente, siano nate gemelle. Questa attrazione reciproca continua tutt’oggi. Pensiamo solo a molti lavori di Milo Rau dove il tribunale è la forma teatrale stessa. Oppure a come molti artisti oggi scelgano di incontrare l’Orestea di Eschilo. Il caso W di Claudio Morganti, con la scrittura di Rita Frongia, è un’ulteriore immagine di tale fascinazione a sua volta innesco per far deflagrare altre seduzioni pericolose.

Prima fra tutte il caso Woyzeck. C’è qualcosa di estremamente contemporaneo nella vicenda lasciata incompiuta da Büchner, un’inquietudine molesta che fa riflettere. Non solo per il femminicidio perpetrato dal soldato Woyzeck, ispirato alla reale vicenda dell’omonimo barbiere di Lipsia consumatasi nel 1821. Si tratta di un grumo ambiguo, un buco nero in cui si agitano follia, libero arbitrio, condizioni ambientali, abbrutimento, alcolismo e che si palesano in una semplice domanda: Woyzeck era in grado di intendere e di volere? E ancora: questo male oscuro da cosa è generato? È contagioso? Si può insinuare in ogni coscienza?

Il professor Johann Christian August Clarus fu il primo a porsi il problema tra il 1821 e il 1824, periodo in cui, tramite due perizie, cercò di far revisionare il processo Woyzeck scongiurando la pena di morte all’omicida. I suoi sforzi furono inutili ma le sue considerazioni, pubblicate su una rivista medica cui era abbonato il padre di Büchner fecero nascere il personaggio teatrale. Agli albori del Novecento ecco riaffiorare la vicenda Woyzeck, non solo per le numerose regie tra cui spiccano quella di Max Reinhardt e l’opera di Alban Berg, ma anche e soprattutto per il suo doppio letterario, il Moosbrugger de L’uomo senza qualità di Musil.

Woyzeck e Moosbrugger portano alla luce forze caotiche non chiaramente definibili causa di inquietudini profonde che la civiltà occidentale vuole convincersi siano sopite, scongiurate, rese innocue, ma formano il sottofondo cupo e ambiguo che si agita sotto la calda e confortante coperta della civilizzazione. :”Se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger” ci dice Musil, e con esso il soldato Woyzeck, aggiungeremmo noi.

Il caso W è l’ultima propaggine di una ricerca minuziosa, di un’indagine accuratissima al limite dell’ossessione che Claudio Morganti affronta da circa vent’anni. In questa sua ultima fatica è affiancato dalla scrittura arguta e surreale di Rita Frongia. L’opera in cui lo spettatore si trova immerso, quasi catapultato in un tribunale dove si dibatte l’appello del caso Woyzeck, possiede elementi di agghiacciante ironia su cui si staglia l’orrenda e tremenda solitudine dell’omicida. Nessuno vuole capire cosa sia realmente successo: non gli avvocati, avversari solo perché di parte, ma amichevoli nelle pause del dibattimento; non il giudice e il cancelliere, ascoltatori e osservatori per dovere; non i testimoni portatori di una propria verità parziale, larva e maschera delle proprie colpe e miserie, soprattutto correi per disattenzione; e nemmeno lo spettatore, muto e nascosto nell’ombra. Ciascuno, in questa cronaca di una morte annunciata, recita una parte tranne Woyzeck, il quale tenta di dire, straparla, balbetta, si affanna a trovar parole che diano una ragione ma incapace di trovarle. Il povero soldato è impedito dalla separazione totale dal resto del consesso umano.

La forma data da Claudio Morganti e Rita Frongia richiama esplicitamente una certa commedia all’italiana colma di contenuti politici e alla ricerca del paradosso, dell’iperbole, del grottesco. Woyzeck nel suo mutismo, nel suo stare seduto a capo chino con le mani abbandonate in grembo, il suo chiedere parola rispettosamente alzando la mano sembra quasi il più normale e soprattutto il più reale. Testimoni, avvocati e giudice sono personaggi, parte di un grande spettacolo di varietà, di una farsa da avanspettacolo volta a intrattenere la morbosa curiosità del pubblico e non attori di un processo volto a comprendere e stabile la verità al fine di affermare la giustizia e comminare una pena, peraltro già assegnata. Siamo di fronte a un circo il cui unico scopo è alzare polvere che offuschi i fatti e i moventi, cortina fumogena di cui tutti siamo testimoni ogniqualvolta un delitto si affaccia gli onori della cronaca. Pensiamo ai casi clamorosi di Cogne, di Rosa e Olindo, il delitto di Garlasco o quello di Perugia. A ogni nuovo trucido fatto di sangue ecco sfilare testimoni, esperti, vallette e dubbi vip a dire la loro, a stabilire colpe e moventi, senza chiedersi: perché? E di fronte a tutta questa macchina spettacolare ecco il teatro, nel suo essere rappresentazione e finzione, manifestare la sua funzione rivelatrice facendosi portatore delle voci inascoltate: quella di Woyzeck e del fantasma di Marie.

Il teatro, lo ripetiamo, nasce a braccetto con il delitto e il tribunale. C’è un’affinità inquietante tra le due realtà. Il delitto sembra essere il terreno su cui interrogarsi a proposito della natura umana e Il caso W ne sembra la quintessenza. Come dice il poliziotto nell’ultima battuta del manoscritto di Büchner: “un bel delitto, un delitto fatto bene, proprio bello! Tanto bello che non si poteva pretendere di più. Da tanto non ne avevamo avuto uno così”.

Orestes in Mosul

Orestes in Mosul: il realismo globale di Milo Rau

A Romaeuropa Festival è andato in scena in prima italiana Orestes in Mosul di Milo Rau. L’incontro tra il regista svizzero e la tragedia classica era da tempo atteso e, in un certo senso, inevitabile. L‘Orestea in particolare è stata più volte evocata, se non direttamente citata, nei suoi lavori. Pensiamo ai vari processi (The Moskow Trails, The Zurich Trials, The Congo Tribunal) dove il tribunale diventa la forma teatro necessaria per ricostruire l’agorà, o alla citazione diretta in Empire. Il legame con il teatro tragico greco in realtà risiede soprattutto nel recupero della sua funzione: riunire la comunità per affrontare una crisi e attraverso la rappresentazione tentare di risolverla o semplicemente prenderne coscienza. In un’intervista concessa nel 2014 Milo Rau affermava: “Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale”. (leggi l’intervista completa su www.psychodreamtheater.org/rivista-passparnous-ndeg-22—teatro—intervista-a-milo-rau—a-cura-di-enrico-pastore.html ).

Questo è decisamente il presupposto a Orestes in Mosul.

Anche il conflitto siriano era da tempo nei suoi interessi fin dal 2016 quando ha compiuto il primo viaggio nell’area durante la creazione di Empire. Non poteva essere altrimenti visto l’impegno di Milo Rau nell’affrontare gli effetti e le conseguenze delle politiche postcolonialiste dell’Occidente di cui la guerra civile in Siria è uno dei più eclatanti esiti. Come riassume all’inizio di questa Orestea l’attrice Susana Abdulmajid, la lotta intorno al controllo di Mosul ha inizio con l’Impero Britannico e giunge fino ai nostri giorni sempre per lo stesso motivo scatenante: il controllo delle risorse petrolifere che abbondano nella regione.

In quest’opera dunque si intrecciano la Storia, le singole biografie degli attori e il mito di Eschilo, e tale viluppo abbraccia passato, presente e futuro non solo di quella martoriata regione del Medio Oriente ma dell’intero Occidente e con esso le sue scelte politiche ed economiche. Il gioco di rimandi tra il vissuto personale, gli eventi di cui si è stati testimoni in prima persona o tramite i mass media, e la sanguinosa vicenda della famiglia di Agamennone è costante, indissolubile, straziante nell’evidenza in cui il ciclo del sangue, della violenza e della vendetta non si sia mai fermato nel corso dei secoli. Gli attori in scena e in video sono dunque triplici specchi nell’essere sia personaggi (Agamennone, Clitennestra, Ifigenia o Cassandra), sia portatori di un vissuto personale e nello stesso tempo pedine sul grande scacchiere della storia. Ciò è soprattutto evidente in Kitham Idris Gamil: è Atena in scena, la dea risolutrice della tragedia nel processo finale, mentre nella realtà della sua vita è una sopravvissuta al conflitto, vedova di un marito ucciso dai miliziani di Al Qaeda, all’inizio sostenitrice del califfato e in seguito profuga in Turchia per proteggere le proprie figlie e ora volontaria della Croce Rossa nei campi profughi nel tentativo di pacificare e aiutare le famiglie dei reduci dell’ISIS. Altro esempio: La Sentinella, colui che attende l’arrivo di Agamennone che segna la fine della guerra, personaggio impersonato da un fotografo che a rischio della propria vita ha continuato, nella speranza di una pace futura, a documentare la vita e le atrocità durante il periodo in cui Mosul era capitale del Daesh o Stato Islamico.

Orestes in Mosul crea anche una tensione dialettica tra il qui e ora sui palcoscenici occidentali, e laggiù tra le rovine dell’antica Ninive. Questo avviene soprattutto a causa del fatto che i governi europei hanno negato il visto di ingresso alla troupe di Mosul. Così in scena abbiamo un legame tra quanto avviene ora davanti ai nostri occhi e ciò che appare in video girato nella città divenuta tristemente famosa come sede del califfato. Occidente e Oriente legati da uno stesso destino tragico, entrambi attori di una vicenda che sembra non avere termine. Il legame però non traspare solo da questa scelta frutto delle contingenze: la storia dell’Atride reggitore di popoli è anche la vicenda di un re greco reduce da un conflitto in Asia dove la città di Troia è stata rasa al suolo. Il suo ritorno riaccende una spirale di sangue iniziata prima della partenza degli eserciti greci con il sacrificio della figlia Ifigenia. Ancora una volta mito e presente storico si intrecciano indissolubilmente: la guerra è oggi come allora l’origine dell’omicidio e della violenza e non sembra esservi rimedio.

In questo contesto si rivela anche la funzione dell’arte teatrale nel pensiero di Milo Rau: l’arte come azione di svelamento attraverso la rappresentazione e il concetto di realismo. Su quest’ultimo aspetto è necessario sgombrare il campo da un fraintendimento comune rispetto ai re-enactment: essi non sono la ricostruzione meiningeriana di ciò che è già avvenuto nella realtà. Non si richiede all’osservatore di credere a un meccanismo di finzione anche perché in un’epoca di deepfakes in cui nulla appare essere autentico e vero, tale pretesa sarebbe quanto meno risibile. Ciò che si ricostruisce in scena e attraverso la scena è invece un’esperienza disvelante. Attraverso una ricostruzione fittizia si comprendono i meccanismi agenti nel fatto storico realmente avvenuto. Come in Hate Radio non ci si trova di fronte a una vera trasmissione di Radio Milles Collines, così alcune scene in questa Orestea non sono identiche a un fatto reale documentato.

Come ha spiegato lo stesso Milo Rau si sperimenta da una parte la meccanica della violenza, ossia si esperisce cosa siano in realtà i sei minuti che necessitano per uno strangolamento, e dall’altra si prova ciò che il regista svizzero chiama “sadismo dell’osservatore” di fronte a un fatto di violenza. Ciò è particolarmente evidente proprio per quanto riguarda le esecuzioni: sia quelle per strangolamento, sia quelle colpo di pistola alla base del collo, sono infatti raccontate da Johan Leysen insieme al fascino e al disgusto provato nel vederne decine in video. Quando avviene la ricostruzione noi già sappiamo quello che sta avvenendo, notiamo i particolari che corrispondono alla descrizione, e immancabilmente cadiamo nella trappola, proviamo anche noi spettatori il medesimo disgusto e fascino, e nello stesso tempo ci chiediamo perché questo avvenga, perché sia necessario. Questa domanda è fondamentale, essa è il pungolo, quell’interpellation di cui parla Milo Rau posta alla base di tutto il suo teatro.

Per concludere rileviamo un altro tratto caratterizzante e distintivo di questo tipo di messa in scena: l’essere “concretamente utopistico”. In Orestes in Mosul, così come in The Congo Tribunal, il tribunale finale, – dove tramite l’intervento di Atena, si stabilisce il ritorno a una pace fittizia tramite l’intervento della legge e dello stato come unico soggetto abilitato a giudicare le colpe -, a Mosul, come a Bukavu, non è ancora una realtà ma qualcosa di nebuloso in un futuro speriamo non lontano ma di certo di là da venire. La guerra è per il momento solo sopita. Sotto le ceneri di una città che cerca di ricostruirsi ardono ancora le braci della violenza, non solo a causa delle centinaia di jihahisti dormienti appartenenti all’ISIS, ma soprattutto nel tragico destino delle loro famiglie imprigionate nei campi profughi di cui nessuno sembra volersi occupare. Nonostante tutto questo il perdono o una pacificazione è non solo evocata ma cercata. Benché gli appartenenti alla giuria siano tutt’ora incapaci sia di perdonare che di condannare senza appello, sorge il desiderio di cambiare la realtà rappresentata. Milo Rau cerca in qualche modo di forzare la realtà, di costringerla a prendere una decisione riguardo a se stessa, e questo proprio tramite un realismo solo superficialmente accostabile a una semplice imitatio naturae. Il regista svizzero sembra dirci con forza che per creare i presupposti di un cambiamento bisogna essere ferocemente crudeli con se stessi, osservare le cause di tanta barbarie e solo allora, dopo questo onesto e disincantato vedere senza veli, operare per ottenerlo.

Visto al festival Romaeuropa il 23 settembre 2019

Ph:@Piero Tauro

Leggi anche: http://www.enricopastore.com/2018/03/09/intervista-milo-rau-la-scena-sguardo-critico-sul-mondo/

Tabea Martin

Canti a Sorella Morte: Tabea Martin, Abbondanza/Bertoni, Anagoor

Diceva Kantor che il teatro ha sempre a che fare con la dimensione della morte. Se questo assunto forse non è così generale da diventar regola, di certo risulta calzante per alcuni lavori visti recentemente: Forever di Tabea Martin, La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni e Orestea di Anagoor.

Cominciamo da quest’ultima, già vista al suo debutto alla Biennale di Venezia a luglio del 2018 e in questi giorni in scena al Teatro Astra di Torino (per la recensione completa rinvio a http://www.enricopastore.com/2018/07/23/biennale-teatro-2018-anagoor-orestea/index-2/ ). Nella trilogia presentata da Anagoor, le cui tre parti sono rinominate Agamennone, Schiavi e Conversio in luogo di Agamennone, Coefore e Eumenidi, i morti sono i dominatori della scena, burattinai che muovono le azioni dei vivi, ombre pesanti che schiacciano e impongono la vendetta. Il sangue vuole altro sangue perché le ombre, come sa bene Odisseo, sono assetate e ritrovano parola e raziocinio sono bevendone.

Una lunga catena di morti attanaglia gli Atridi, la maledizione di Pelope grava sulla famiglia dall’assassinio di Crisippo: la lotta fratricida tra Atreo e Tieste, e poi il sacrificio di Ifigenia, la mattanza di Agamennone ad opera di Clitennestra ed Egisto, fino a Oreste a cui Apollo ordina di vendicare il padre. Come si esce dalla catena dell’omicidio? Come si placano i morti? Il peccato di Caino sarà mai emendato o è parte della natura umana?

La morte violenta, la mano dell’uomo che colpisce un suo simile e lo strappa anzitempo a questo mondo che respira, insieme alla necessità del perdono per svincolarsi dal potere che i morti esercitano sui vivi, sono il tema che permea la trilogia di Anagoor. Eschilo rompe il cerchio sostituendo la violenza della faida con l’imperio della legge, anch’esso gesto brutale e arbitrario, che sostituisce una necessità con un’altra, ma che mitiga con il velo della civiltà la natura feroce. Anagoor volutamente tagliano la costituzione del tribunale, la cui azione è evocata dalla tosatura delle pecore in luogo del macello, e lasciano aperto lo squarcio sull’abisso. La figura umana scolpita con il laser, sgrossata a forza si direbbe, conquista la sua bellezza civile solo a costo di azioni violente contrapposte ad altre azioni violente. Per quanto si voglia il cerchio si allarga ma mai veramente si infrange. Come nel sogno di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann, la bellezza solare nasconde un universo dominato da forze oscure votate alla morte e alla notte. L’istinto del sangue è sempre vigile e minaccioso dietro il velo sottile della civiltà.

In La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni, visto nuovamente il 30 marzo alla Lavanderia a Vapore di Collegno, Thanatos abbraccia Eros a partire dall’omonimo Lied di Franz Schubert con il testo di Mathias Claudius che dice: “Bella creatura delicata! Sono un amico, non vengo per punirti. Non sono cattivo. Dolcemente dormirai tra le mie braccia!”. Non è superfluo ricordare che in tedesco Morte è maschile e il rapporto che intesse con la fanciulla ha una maggiore carica erotica rispetto a quanto traspare dalla traduzione italiana.

In scena tre danzatrici di nero vestite, il volto coperto dai lunghi capelli, creano l’immagine di questo abbraccio sensuale e violento in cui l’orrore si mescola a un piacere perverso. All’uscita di scena appare la proiezione in video di quanto avviene in quinta. Le immagini contrappongono alla dimensione vitale di ciò che accade dal vivo alle sequenze registrate e irrigidite da un’eternità riproducibile. Il dialogo tra ciò che è fissato e quanto avviene nel qui ed ora è il tema che si intreccia costantemente nell’intero spettacolo.

Quando le danzatrici rientrano in scena il corpo è nudo velato solo dalle nebbie create dalle macchine del fumo, nebbie dell’Ade che cercano di stringere i corpi danzanti e vivi. La danza si contrappunta alle note dei quattro movimenti del quartetto di Schubert Der Tod und das Mädchen del 1824, composto a seguito di una malattia che aveva ridotto il compositore in fin di vita e che lo aveva reso conscio della fragilità dell’esistenza. La musica di Schubert è però aliena dagli antagonismi dialettici, è più specchio di un’espansione dell’area tematica, un viluppo di cerchi concentrici che si dilatano, una serie di episodi che si affiancano e inanellano reminiscenze e affinità come nel gioco delle perle di vetro. La coreografia richiama questo movimento spiraliforme che si espande da un cerchio come la danza che richiama visivamente il quadro omonimo di Matisse all’Ermitage di San Pietroburgo e che ritorna ancora e ancora. Le tensioni dunque non si risolvono, come il moto attrattivo/repulsivo tra la fanciulla e Morte, ma eternamente si dilatano, si rinnovano, mutano e si ripropongono.

Abbondanza/Bertoni fanno emergere in questo acclamato lavoro (lo recensimmo già nel 2017 http://www.enricopastore.com/2017/07/04/abbondanza-bertoni/ ) sia la voluttà che l’orrore che la vicinanza della morte provoca in tutti noi, e questo affiorare di attrazione e repulsione avviene attraverso la bellezza quasi classica dei corpi nudi e danzanti nell’atmosfera nebbiosa e cupa, fatta di chiaroscuri, ombre e tenui illuminazioni che piovono di taglio dall’alto. La bellezza ambigua della fragilità si sposa con la struggente sonorità romantica di Schubert e tratteggia una morte amica/nemica, ombra sempre presente e incombente che invano tentiamo, come la fanciulla, di ricacciare nell’ombra e allontanare da nooi.

Forever di Tabea Martin, vista in prima assoluta il 24 marzo al Kaserne Theatre di Basilea, è uno spettacolo per ragazzi e famiglie che si confronta giocosamente con il tema dell’immortalità. Che succederebbe se potessimo vivere all’infinito, se potessimo non morire mai? Sarebbe come diceva Carmelo Bene che “tutto è bene ciò che non finisce mai”? La morte viene dunque affrontata per assurdo come nelle dimostrazioni matematiche.

Cinque danzatori di bianco vestiti attendono il pubblico in proscenio. Lo spazio scenico, latteo e immacolato anch’esso, è occupato da numerosi palloncini bianchi di svariate dimensioni. Dall’alto delle catene alla cui estremità è legato un pallone come pallide lampade, tranne le prime due ai lati estremi della scena a cui sono appese due taniche una contente lacrime e l’altra sangue.

I danzatori si interrogano sul morire. Ognuno propone una o più versioni del fatidico momento ma come negli spettacoli dei clown, non si muore. O meglio: il ciclo di vita, morte, rinascita torna ancora e ancora per non finire mai. Un carosello infinito si dipana sulla scena in cui la violenza è giocosa e sembra non far mai male. Il sangue imbratta la scena, viene sputato, versato, lanciato, schizzato e le lacrime si versano dalla tanica, si eseguono funerali in cui il morto si alza per la delusione dei convenuti e tragedie e cataclismi si susseguono con un ritmo forsennato.

Forever di Tabea Martin è un vortice che cattura senza lasciare mai lo spettatore, coinvolge in questa moderna e clownesca totentanz, ci fa sorridere e ci commuove mentre ci confronta con la terribile realtà della finitezza negandola in questo infinito morire e risorgere. Tabea Martin è una coreografa i cui spettacoli, meccanismi ibridi a cavallo di molti linguaggi, sono sempre un sorpresa e un inno alle infinite possibilità dell’arte scenica. Vitali e coinvolgenti, rapiscono per il loro ritmo forsennato in cui gli episodi si susseguono con la violenza di una grandine estiva ma con la giocosa esuberanza di ciò che colmo di vita e di meraviglia.

Forever, La morte e la fanciulla e Orestea sono dunque tre spettacoli che hanno linguaggi registici e di messa in scena radicalmente diversi e distanti ma che affrontano da opposte balze un medesimo e urgente tema: la finitezza dell’esistenza, la scomparsa di ciò che è vivo, il vuoto che non si colma. L’orrore, la violenza, persino a voluttà e la gioia sono i registri attraverso i quali si affronta il mistero che circonda sorella morte “da la quale nullu homo vivente pò skappare” come cantava frate Francesco. Tre esempi di grande maestria che raccontano, qualora ce ne fosse bisogno, dell’efficacia del teatro nell’affrontare con il suo pubblico le grandi questioni e le domande senza risposta.

Simone Derai

BIENNALE TEATRO 2018: ANAGOOR – INTERVISTA A SIMONE DERAI

Questa intervista con Simone Derai, regista di Anagoor, è avvenuta a Venezia il giorno 21 luglio dopo il debutto in prima mondiale de l’Orestea (Agamennone, Schiavi, Conversio) alla Biennale Teatro 2018. Si ringrazia Michele Mele e Emanuela Caldirola per averla resa possibile.

Enrico Pastore: Milo Rau conclude Empire con le parole di Agamennone che ringrazia gli dei per il ritorno a casa. Milo Rau recupera la forma tribunale nel suo teatro ristabilendo l’unione dell’areopago con il teatro, recuperando la funzione della scena come luogo per sanare o comprendere le crisi che attraversano la società. Nella vostra versione de l’Orestea sembra invece assente il tribunale.

Simone Derai: Io non credo che manchi, almeno non nelle nostre intenzioni, l’idea del tribunale e del processo. È come se si dispiegassero le prove di un’esistenza o delle esistenze. Per me l’Agamennone è immerso in una laguna di rammarico per quanto è già avvenuto. Lo trovo così greve, pesantissimo. Se devo pensare a un processo penso a una grande ostensione delle prove e di quanto è stato commesso. È una lunghissima analisi delle conseguenze. Forse questo non appare evidente perché censurando la rappresentazione finale del processo può non emergere, risulta quasi mancante ma noi l’abbiamo assunto come un doveroso percorso. Il fatto è che non abbiamo voluto fare il processo a Oreste in sé, quanto alla nostra incapacità di sanare la violenza e comprendere quanto ogni nostro più piccolo atto abbia delle conseguenze e provochi delle ritorsioni.

Enrico Pastore: è un po’ come in Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy dove tutto coloro che muoiono sono coloro che hanno compiuto una scelta, quella di impadronirsi dei soldi proibiti. Sono quindi colpevoli e ne pagano il fio perché la scelta provoca delle conseguenze e queste ultime provocano l’azione.

Simone Derai: Esattamente. Non c’è nessuno che sia esente da questa legge. Noi non lo siamo. È quasi una legge fisica. Pensa che nella traduzione in inglese quando ne Le Coefore il coro dice ad Elettra: è una legge antichissima ogni azione provoca una reazione, usano le parole esatte della terza legge della termodinamica di Newton.

Enrico Pastore: Vedendo i vostri lavori, e in particolare in questa Orestea, si può notare una strana convivenza di modalità sceniche che normalmente si escluderebbero: performativo e rappresentativo, mimetico e straniante. Come siete giunti a questa modalità inconsueta?

Simone Derai: C’è innanzitutto una volontà di abitare lo spazio. Non pensiamo a utilizzare il performativo o il rappresentativo. Quest’ultimo forse è più tenuto sott’occhio, non per sfiducia ma perché crediamo che debba essere reingaggiato. La rappresentazione non è data, non basta entrare in scena. Necessita di tempo, di un suo tempo. Bisogna evocare un altro tempo.

Enrico Pastore: in un certo senso le due modalità rispettano le prassi differenti tra coro che commenta e azione dei personaggi che dal coro emergono.

Simone Derai: È così perché la nostra è anche un’assunzione di responsabilità. E se vogliamo pensarla come un’evocazione estatica c’è bisogno di un tempo perché questo avvenga, perché io possa dire: non sono io, sono un’altra cosa.

Enrico Pastore: Mi è parso che vi sia l’intenzione di mettere l’accento sull’invadenza del mondo dei morti in quello dei vivi. I morti che reclamano dai vivi delle azioni di vendetta. Non solo. Anche l’accento sul baratro che si spalanca con la morte, Mi è sembrato in quest’ultimo aspetto che abbiate usato l’interpretazione parmenidea di Severino.

Simone Derai: In Coefore, nel nostro Schiavi, è come una discesa nella zona più oscura del nostro rapporto con la morte, a tal punto da diventare visione notturna e incubo. Il canto commatico sulle tombe dei re diventa un vero e proprio sabba. Oreste ed Elettra evocano le potenze dell’inferno perché sia fatta giustizia, una giustizia parziale. Non si parla della di una giustizia alta che governa il mondo, non è la giustizia che invoca Clitennestra di un diritto contro l’altro. In questo Severino è presentissimo. Chiamano le potenze infere per piegare la realtà al proprio volere di riscatto fallendo nel riconoscere una giustizia più alta. Nell’avvicinarsi alle zone più oscure, ctonie, più sepolcrali si invade un territorio che è abbandona la realtà, quasi un’invasione di campo paranormale, addirittura gotica. In tutta quella parte di Sebald sulle schiere dei trapassati che brandiscono i vessilli a me quasi ricorda Edgar Allan Poe. Anche nella visione ottocentesca del classico c’è sempre questo slittamento dalla luce alla rovina notturna, il mostruoso. È una cosa che noi dimentichiamo della grecità perché noi la vogliamo azzurra, solare, limpida e invece conservava tracce e zone di mistero.

Enrico Pastore: Mi interessa conoscere il processo con cui avete trasformato il testo in azione scenica. Come avete lavorato con gli attori?

Simone Derai: La grande novità di questo lavoro è stata l’ingresso di una figura che ci ha aiutato, e sto parlando di Giorgia Ohanesian Nardin. La scala del lavoro cambiava e inoltre volevamo che il canto commatico diventasse frenetico. L’agitazione aveva una necessità atletica, serviva dunque la collaborazione con qualcuno che ci aiutasse a mantenere vivo per tutto il periodo di allestimento, di prove e di ricerca la salute dei performer e la qualità. Una qualità che è cercata all’interno di questa corsa menadica, rotta, vana, perché è un anello che gira su se stesso. Una corsa disperata che può far apparire il guizzo primaverile di Dioniso.

È stato un lungo percorso che parte proprio da questa corsa. Un grande maelstrom che ha trattenuto anche gli attori che non vi partecipano. Con gli attori siamo andati a lavorare come se la tragedia fosse un radiodramma perché in contrappunto con questa grande energia fisica che per tutta la tragedia rimane intrappolata, c’è in Eschilo questo presentarsi paratattico a esporre la parola, a ostenderla. Ci si è allenati a tenerla più limpida possibile con questo semplice gusto di classicità cinematografica.

Enrico Pastore: Vorrei approfondire la contrapposizione nei video delle immagini del macello e quelle della tosatura della lana.

Simone Derai: Da una parte c’è la volontà di far trasparire un rapporto diverso con l’animale, non quello del cacciatore, ma di colui che si assume la responsabilità dell’animale. Mettere in luce quindi il rapporto molto intimo del pastore che custodisce il suo gregge. Rapporto che non è scevro di contraddizioni perché non è che la pastorizia sia un’attività scevra di violenza, ma che ha toni diversi rispetto al macello. La pastorizia è sempre una lotta perché le pecore non vogliono essere tosate, ma c’è anche un affidamento perché alla fine si lasciano tosare abbandonandosi nelle mani del pastore. È una contrapposizione di violenze diverse.

Ph: @Giulio Favotto

Simone Derai

BIENNALE TEATRO 2018: ANAGOOR Orestea

La Biennale Teatro 2018 si apre con la prima assoluta de l’Orestea secondo Anagoor, Leoni D’Argento. Un viaggio oscuro nei pantani di una faida di sangue che si perpetua di generazione in generazione.

Il sapore metallico del sangue si spande sin dai primi versi di Eschilo. Nubi nere si accalcano furiose nell’attesa delle notizie da Troia. Si attende il ritorno di Agamennone nel decimo anno dal sacrificio di Ifigenia. Nella casa dell’Atride le intenzioni di vendetta di Clitennestra covano e strisciano come velenosa serpe tra l’erba alta.

E l’omicidio, o mattanza, dell’eroe avviene su purpurei tappetti a nascondere il sangue. L’assassinio a colpi di scure avviene lontano dai nostri occhi. Ora tocca a Oreste. Tra mille titubanze, Amleto ante litteram, e con l’incombenza dell’ordine di Apollo, Oreste uccide la madre per vendicare il padre. Le Erinni vogliono a loro volta giustizia. Sembra che la catena di sangue generata dal conflitto fratricida tra Atreo e Tieste non debba avere mai fine.

Nasce qui, all’alba della scena, il tribunale. Dei e uomini uniti nel teatro, ora areopago, devono guarire la ferita che squassa la comunità. Si deve placare le Erinni, mutarle in Eumenidi. Oreste è colpevole? Il verdetto in parità non risolve. Solo la parola decisiva di Atena allontana le Furie. La giustizia è arbitraria, un sforzo comune di dei e uomini, briglia alla violenza che agita l’animo umano e divino.

Il teatro come tribunale che affronta e prova a comporre le crisi in seno alla comunità/pubblico è archetipo che giunge fino al nostro contemporaneo. Pensiamo a Milo Rau, non solo in The Moscow Trials o in The Congo Tribunal, ma soprattutto in Empire dove proprio le parole di Agamennone, che ringrazia gli dei per il ritorno, concludono l’opera. L’alba del teatro riverbera i suoi raggi sulla scena di oggi.

Anagoor propone dunque un viaggio in forma scenica attraverso l’Orestea. Quattro ore durante le quali si solcano i mari in tempesta evocati da Eschilo oltre Eschilo.

Orestea in tre parti: Agamennone, Schiavi, Conversio. Tre stazioni di un calvario che si sovrappone alla trilogia originale lasciandone trasparire il calco: Agamennone, Coefore, Eumenidi.

Agamennone, l’origine che non è l’origine di una tragedia si presenta integrale nel testo laddove la scena, ieratica nell’incedere, sovrappone modalità di rappresentazioni distanti e incompatibili seppur conviventi: rappresentativo e performativo, mimetico e straniante.

Le vesti, le maschere funerarie, le anfore colme di cenere, la lana tosata a richiamare un mondo attico non solo solare, ma come nel sogno di Hans Castorp nella neve de La Montagna Incantata, oscuro e torbido, ctonio e feroce.

Sono i morti a dominare l’azione dei vivi. Ifigenia morta sull’altare per placare Artemis spinge Clitennestra a cercare vendetta, il banchetto osceno offerto da Atreo a Tieste costringe Egidio a bramare il sangue. E poi Agamennone a sua volta conduce Oreste ed Elettra. Chi fermerà quel maelstrom che conduce ogni nave a naufragar in questo mare di sangue?

Schiavi dei morti. Nel lutto e nella vendetta sono i morti a dominare la vita, i morti in fitta schiera brandiscono stendardi di eserciti in battaglia, non mai pacati nel reclamare la vita a loro strappata con violenza.

Schiavi sostituisce, o forse integra, le Coefore eschilee. Nel cimitero davanti alla tomba dei re non si incontrano solo Oreste ed Elettra con i loro dubbi, ma si riverberano anche le faide del popolo corso, sangue chiama sangue, il coltello anticipa l’azione non solo di Macbeth, ma il gesto violento di ogni uomo che abbia bramato vendetta in questo vasto mondo che respira.

Conversio, terza parte, si affranca da Eschilo, il tribunale che trasforma le Erinni in Eumenidi si dissolve, ed è la morte dalla fame vorace a inghiottire le vite travagliate degli uomini, eroi e non. La morte che accoglie e sana ogni dolore, l’essere che sparisce nel non essere, Parmenide nell’occhio sagace di Severino.

Non solo. Immagini di pecore tosate, sostituiscono le vacche al macello. La violenza del mattatoio viene sostituita da una versione più mite. La mano del pastore toglie dal corpo dell’animale la lana, se ne appropria. Non toglie la vita, prende rapace. La giustizia della faida viene emendata dalla Dike di quella umana, violenta anch’essa ma sancita dalla legge.

Anagoor, diretti da Simone Derai, portano sul palco delle Tese dell’Arsenale un attraversamento dell’Orestea in cui gli stilemi stilistici della compagnia si presentano in tutta la loro particolarità: tradizione e innovazione, ritmi ipnotici e ieratici, immagini video in contrappunto con l’azione e la linea vocale e sonora, convivenza di rappresentativo e performativo (ricordiamo che il tema di questa Biennale è proprio attore-performer).

Un’Orestea, quella di Anagoor, quasi radiodramma, mentre l’azione si svolge secondo una linea sua propria. Voce portata da microfoni e altoparlanti, suoni elettronici tellurici e I Canti dei Bambini Morti di Mahler. Un dispositivo sonoro imponente, magmatico quasi signore della scena.

Un’Orestea che presenta anche qualche fragilità, soprattutto di organicità nella convivenza delle tre parti. Agamennone che copre quasi più della metà dell’opera, quasi debordante, e più fedele all’originale Eschileo; Schiavi e Conversio più snelle e personali, alla ricerca di una risposta odierna a un trauma antico seppur tutt’ora presente. Quasi un dittico, e non solo per la presenza di un intervallo a separare le due parti. Due modalità, aderenza e allontanamento, fedeltà e riscrittura.

Fragile anche la danza commatica che evoca il gorgo spirale. Seppur centrale e significante ancora acerba, quasi training in scena, alla ricerca di una forma sua propria seppur chiara nella sua intenzione. Ci sarà tempo per evolvere, lontani dall’incombenza del debutto in Biennale.

Anagoor e la sua personalissima ricerca nei classici portati alla luce del contemporaneo viene insignita dai un Leone d’argento che sancisce la profondità e serietà di un lavoro ormai decennale. Anagoor è una compagnia solida con chiare linee di ricerca e un’idea precisa sulle funzioni del teatro nel contemporaneo: esplorare l’oggi, non in quanto cronaca ma in quanto universale che torna attraverso variazioni e permutazioni dell’uguale, mediante lo scavo furioso nei classici.

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