Durante la permanenza al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, è sorta insistente una domanda, un rovello insistente, quasi un personaggio pirandelliano che reclamava attenzione, ossia se l’opera d’arte come oggetto piuttosto che come processo avesse ancora una credibilità. A questa ne seguiva una seconda e più urgente: quali ruoli e funzioni sono ancora possibili per il gioco della rappresentazione? Nel Doktor Faustus di Thomas Mann si può leggere un passo che richiama il quesito posto: «vien fatto di chiedersi se allo stato attuale della nostra coscienza, della nostra conoscenza, del nostro senso della verità, questo gioco sia ancora lecito, ancora spiritualmente possibile, ancora da prendersi sul serio, l’opera come tale, la forma autonoma in sé conchiusa abbia ancora qualche relazione legittima con la mancanza completa di sicurezza e armonia, con la problematicità delle nostre condizioni sociali, e se qualsiasi apparenza, anche la più bella e proprio la più bella, non sia oggi diventata una menzogna». Declinata teatralmente la questione diventa: la rappresentazione di una dinamica narrativa, di un racconto in cui in qualche modo bisogna credere abbandonandovisi è un fenomeno inadatto al contemporaneo? Non è forse più efficace, e quindi anche più necessario, il dispiegarsi, il rendere palese il gioco di finzione, il rendere visibile il meccanismo al fine di ottenere non un processo di immedesimazione ma piuttosto di conoscenza e critica del reale?
Il quesito è diventato vero tormento in seguito alla visione di Cirko Kafka di Roberto Abbiati e Claudio Morganti e della prima traccia di Pelléas e Mélisande della Compagnia Abbondanza Bertoni. In entrambi i casi veri e propri maestri del teatro e della danza hanno presentato dei lavori di grande levatura tecnica e bellezza visiva. Il primo si presenta come un giocoso, ma non per questo meno terribile, meccanismo di tortura. Un processo che Josef K. subisce nella piccola stanzetta di un sottotetto e non riesce mai a farsi tragico ma nemmeno pienamente comico. L’ingranaggio in cui cade Josef K, costituito da una finissima partitura di azioni e suoni, procede come un carillon inceppato, a scatti, per piccole farse ed episodi, sempre in bilico tra una trasognata levità e l’inquietante ineluttabilità dell’insensato procedimento. Pelléas e Mélisande, sulle note dell’omonima opera di Schönberg, presenta invece una danza dal sapore classico seppur contaminata con movimenti sgraziati e quasi parodistici che si sviluppa in ricamo dietro a una serie di proiezioni: tre melograni che spandono pian piano il loro succo inzuppando di rosso il bianco telo su cui son posati, le acque in movimento focoso o cullante a raccontare l’intensa vicenda emotiva e tragica del triangolo Pelléas, Mélisande e Golaud.
Entrambi i lavori, seppur uno finito e l’altro in fase di lavorazione, rimandano a una concezione dell’opera d’arte come risultato estetico di una ricerca sul linguaggio espressivo del corpo sia esso quello di un attore o di un danzatore, frutto di tecnica e ingegno, e destinata a essere ammirata con gli occhi e compresa con l’intelletto. Un’opera d’arte dunque come oggetto opaco, da decifrare, che rimanda a un mondo letterario a sua volta prodotto di cultura e di ricerca linguistica ed estetica, la cui funzione dovrebbe essere principalmente di presentarsi come oggetto dello spirito che allo spirito ritorna e lo modifica essenzialmente. Questo gioco prevede una certa dose di ingenuità che porti a credere in ciò che si vede, a immedesimarsi e compatire, nel senso proprio di sentire insieme. Questo è ancora possibile? Possiamo ancora abbandonarci a un atto di fede? O come diceva Carmelo Bene dovremmo piuttosto chiamare la Croce Verde? La rappresentazione può essere ancora intesa come mezzo per comunicare prodotti dello spirito frutto di ricerche linguistico/estetiche?
Qualcuno potrebbe pensare che il discorso sia ozioso. Altri ancora invece potrebbero dire che il dibattito filosofico ha già analizzato la questione e già da molti decenni (lo stesso passo di Thomas Mann risale al 1947), e che già Duchamp aveva posto le basi per concepire l’opera d’arte come frutto di conoscenza e prassi di una filosofia. Nonostante queste obbiezioni lecite e legittime, credo che il problema si stia ripresentando con una certa urgenza, come se il dibattito avvenuto durante il corso di tutto il Novecento non abbia risolto il problema: quali funzioni sono ancora possibili per l’opera d’arte? L’opera di rappresentazione come oggetto culturale ha ancora una ragion d’essere? È essa stessa necessaria alla nostra società?
Se per esempio prendiamo Atlante dell’attore solitario di Marcello Sambati, dove un grande interprete dotato di maestosa tecnica si presenta come corpo quasi addormentato, trasognato, ma anche in qualche modo torturato e attraversato da dolori e dissidi e che dà voce a tutto questo con sussurri, mormorii, afflati poetici e tragici, ecco di fronte a questo dispiegarsi di mezzi espressivi di alta scuola, si rimane pur tuttavia freddi, distaccati, privi di empatia, come se non ci si credesse a questo gioco, come se mancasse un terreno comune tra pubblico e opera viva. Si ha l’impressione che tutto sia un inganno. Non a caso il Novecento teatrale si aprì proprio con il famoso :”Non ci credo!” di Stanislavskij.
La rappresentazione può ancora giocare sul terreno di questa fiducia dell’occhio che guarda, in questa immersione in un mondo alieno, frutto di tecnica e abilità? Oppure oggi quell’occhio è stato tagliato e violato così tante volte che necessita di altre regole d’ingaggio? Voglio precisare che la questione che sto cercando di porre non mette in discussione la qualità dei lavori, anzi forse a maggior ragione si pone proprio a causa del loro esito di alto livello. Il problema sono le funzioni attribuite e attribuibili alla rappresentazione. La domanda prevede multiple se non infinite risposte che vanno ricercate.
Tra le opere viste a Inequilibrio e che aiutano a gettare uno sguardo sul problema vi sono One mysterious thing, said and cummings, What can be said about Pierre e Olympia, tre pezzi brevi di Vera Mantero, danzatrice e performer portoghese, che si presentano non come oggetti estetici ma come veri e propri atti di pensiero in movimento. Vera Mantero utilizza la rappresentazione come messa in questione della funzione dell’arte stessa. In One mysterious thing, said and cummings affronta la dicotomia tra cultura e natura o, se volessimo utilizzare un vocabolario desueto, tra cultura e civilizzazione, dove la prima può tranquillamente convivere con l’origine animalesca, crudele e ctonia, mentre la seconda tende ad ammantare i prodotti dello spirito di un vapore di positività didascalica ed educatrice. A partire dunque dal volto truccato e splendido nella sua bellezza ecco la luce illuminare gradualmente un corpo i cui piedi sono zoccoli fessi di fauno. In What can be said about Pierre ci si chiede come possa avvenire l’atto conoscitivo attraverso l’accostamento tra una lezione radiofonica su Spinoza di Gilles Deleuze e una danza che tende a esplorare tutte le possibilità espressive. Da ultimo, in Olympia, ispirata dal celebre quadro di Manet, si mette in discussione attraverso una lunga citazione da Asphyxiating Culture di Jean Dubuffet, il ruolo dell’arte come espressione del potere politico e che ricorda, non poco, l’avversione di Carmelo Bene nei confronti dello Stato quando si occupa di cultura e la asserve ai suoi fini snaturandone la carica eversiva.
Vera Mantero utilizza i linguaggi artistici non per esibire un pensiero, né per presentare un prodotto estetico, ma come piano di dissezione del materiale al fine di generare un processo che demolisca gli idoli del pensiero stesso. I lavori messi in scena sono degli anni ’90 ma presentano una modalità valida ancor oggi e delineano una possibile funzione del gioco della rappresentazione.
Medea per strada del Teatro dei Borgia, e di cui abbiamo già trattato durante il Festival delle Colline Torinesi, testimonia un altro possibile esito: la finzione si dimostra per quello che è, non finge di essere realtà. Tutti sanno che chi parla è un’attrice e non una vera prostituta, ma quella maschera che ci accompagna in viaggio sul furgone sgangherato fa parlare attraverso di sé tutta una realtà che tendiamo a rimuovere e che riappare davanti ai nostri occhi proprio grazie al meccanismo di finzione. Si recupera dunque la funzione greco tragica dove la rappresentazione permetteva di trattare un argomento incandescente altrimenti intoccabile e intangibile. Solo attraverso la maschera della finzione appariva aletheia, la verità che velando disvela. Questione questa che attraversa tanto teatro di Milo Rau soprattutto nel suo lavoro dal titolo The Repetition e il reenactment nel suo complesso. Quello che vediamo non è certo l’atto originale, ma nel rimetterlo in scena, nell’attuare i fatti ancora una volta si svela e analizza il processo che lo ha generato.
Questi pochi esempi tratti proprio dalle opere viste a Inequilibrio indica quanto sia vasto il campo di ricerca e attuale il problema e come siano diverse le possibili risposte al quesito. Stando di fronte all’opera d’arte tradizionalmente concepita si avverte ormai un senso di disagio che affligge anche i migliori esiti. Si avverte come la necessità per l’arte di essere qualcos’altro, e dell’esigenza di dotarsi di altri strumenti oltre alla bellezza e alla tecnica nell’affrontare e dissezionare il reale.
Per concludere un’altra citazione da Doktor Faustus di Thomas Mann: «l’apparenza e il gioco hanno già oggi la coscienza dell’arte contro di sé. L’arte non vuole più essere apparenza e gioco, ma intende diventare conoscenza». Forse è su questo campo che si gioca il ruolo della rappresentazione.