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LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

:«Abbiamo perso la memoria del Quindicesimo Secolo» cantavano gli Area nel 1976 in una canzone dal titolo profetico: Evaporazione. Infatti se guardiamo alle nostre spalle, ma anche ai film e alla letteratura fantascientifica di questi ultimi anni, la memoria nella civiltà occidentale sembra si sia persa ben più del Quindicesimo secolo. La memoria del nostro passato recente, delle lotte e delle rivoluzioni culturali, paiono evaporate. Sembra che questa nascente civiltà digitale abbia non solo sbiadito i ricordi, persino recentissimi, facendoli affogare nel mare magnum del megastore dell’informazione, ma in più abbia appiattito tutto in un eterno presente, sempre disponibile con un semplice click e pronto a reiterarsi nel nome del sette giorni su sette h24.

Questa temporalità profana che innalza a unica gloria il giorno lavorativo ha quindi, come conseguenza, scalzato il divino riposo, sopprimendo così quella cesura che dava senso al tempo nella discontinuità permettendo il pensiero libero e fluttuante, quello da cui nascono i pensieri fecondi e critici, e così il passato si è perso nelle nebbie ingoiato dai Langolieri di Stephen King. Senza passato si è costretti, come Bill Murray in Ricomincio da capo, a vivere in un loop temporale senza via d’uscita: non riusciamo a immaginare il futuro, costretti come siamo a sopravvivere alla velocità di replicazione del medesimo travestito da novità.

Bill Murray in Ricomincio da capo

Ciò che più risente di questo eterno ritorno dell’eguale è proprio la memoria tanto da averci fatto perdere non solo quella del Quindicesimo secolo, ma anche quella degli ultimi trent’anni e con essa si è smarrita nelle nebbie la storia recente della ricerca teatrale in Italia. Nomi come Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Jerzy Grotowski o Tadeusz Kantor sembrano affiorare da soffitte dimenticate coperti da nugoli di polvere. Eppure sono il recentissimo passato.

Eterno presente digitale e amnesia (o rimozione?) sembrano attanagliare il mondo culturale italiano non solo in ambito artistico ma anche politico sindacale. Ritroviamo così riproposizioni di ricerche già date e dimenticate così come annosi problemi le cui radici si conficcano nei decenni e sembrano invece apparire dal nulla improvvisi come fulmini in un temporale estivo.

Proviamo giocando un po’ con le immagini a cercare di comprendere cosa comporti questo malfunzionamento mnemonico dispiegato in un tempo piatto sempre uguale a se stesso, processo che nemmeno il Covid ha scalfito, tanto che tutti fremono a ritornare alla normalità, a com’era prima, nascondendo sotto il tappeto i pericolosi cambiamenti comunque avvenuti (soprattutto una preoccupante sperequazione dei poteri).

Cominciamo il nostro gioco. La prima immagine esemplifica quello che potremmo chiamare Effetto Jason Bourne, dal nome del protagonista della famosa saga di spionaggio interpretata da Matt Damon. Bourne si sveglia ferito, non sa chi è, da dove proviene. Non sa nulla del suo passato. Sottopelle trova un chip con delle coordinate bancarie di un istituto di Zurigo. Visitando la banca le cose si complicano: passaporti con identità multiple: chi è dunque? Quale identità corrisponde alla sua persona? E, soprattutto: che vita conduce uno che può disporre di tali mezzi e materiali? Inoltre Bourne scopre di avere delle abilità: sa combattere, individua potenziali pericoli, immagazzina informazioni che potrebbero essere utili, reagisce con prontezza impressionante agli imprevisti, parla diverse lingue. Bourne ha dei doni e delle arti ma non sa come le ha apprese, a cosa gli servono e non sa soprattutto chi gliele ha insegnate e perché. Bourne non ha funzione pur avendo potenzialità da supereroe, e questa mancanza, che prova a sanare per tutta la saga, gli impedisce appunto di costruire un futuro. Ogni volta che ci prova lo vengono a cercare e tutto riprecipita in un vortice di fuga e violenza in cui l’unico a non sapere il motivo scatenante è proprio lui.

Il passato serve da contrasto, perché opponendosi ad esso i giovani fanno sorgere il futuro. Le generazioni si susseguono tra conservatorismo e innovazione. Ciò che è stato è la radice da cui sorge un domani diverso benché non necessariamente migliore. L’idea del progresso come parabola in ascesa tendente a infinito è una mistificazione come ricordava già il Manzoni. In arte ciò che è diventato canone viene messo in discussione e nella variazione nasce un nuovo canone. Sembra che questo perenne movimento di ascesa e caduta, di crescita e declino, si sia arrestato. Nell’eterno presente non si pensa al perdurare della memoria, ma solo a viverlo evitando i rischi di essere risucchiati nell’obsolescenza, unico vero peccato della contemporaneità. Aggiornamento continuo è il comandamento. Il problema è che come Jason Bourne non sappiamo più chi siamo né quale funzione svolgiamo nel contesto in cui ci si muove. Come Jason Bourne non sapremo costruire un futuro senza aver riscoperto il nostro recente passato in cui sono contenuti i motivi dell’attuale crisi. Ristudiare gli ultimi trent’anni di teatro italiano, sotto i vari aspetti politici, antropologici, sociologici e sindacali sarebbe alquanto utile per trovare delle soluzioni e delle vie di fughe all’alquanto problematico oggi.

Memento di Christopher Nolan

La seconda suggestione fa sorgere quello che chiameremo Effetto Memento, dal famoso film di Christopher Nolan, e utilizzeremo come sottotitolo proprio la frase che inizia il film: ricordati di non dimenticare. Leonard è affetto da amnesia anterograda. Non trattiene nessun ricordo di quello che gli accade per più di pochi minuti. Nonostante questo limite è alla ricerca di colui che lo ha aggredito e ha ucciso sua moglie. Per ricordare visi e indizi importanti per la sua indagine si tatua il corpo e gira con un mucchio di polaroid, ritratti di persone con appunti che lo aiutino a comprendere di chi può fidarsi. Leonard è aiutato da Teddy, il quale viene ucciso all’inizio del film. La storia si svolge all’indietro e grazie a questo movimento a ritroso, ecco che il presente si illumina. Leonard è colui che ha ucciso sua moglie. Lo ha semplicemente rimosso. Teddy è solo un poliziotto che ha sfruttato la sua malattia per uccidere delle persone a lui scomode. La ricerca di Leonard è fasulla, basata su presupposti sbagliati e non può avere nessun esito perché non conosce il proprio passato. Contrariamente a Edipo che si punisce per aver scoperto di essere la causa dei mali di Tebe, Leonard dopo pochi secondi dimentica tutto e rimane con una serie di diapositive e di tatuaggi incisi sul corpo che non lo porteranno a nessuna verità ingabbiandolo in un circolo vizioso. La sua ricerca sarà sempre deludente perché svincolata da un passato e quindi infruttuosa perché incapace di proiettarsi verso un qualsiasi futuro.

Mai come in questi ultimi mesi si è parlato di teatro di ricerca eppure questo è nello stesso tempo un periodo alquanto arido di discussioni teoriche. La ricerca si muove verso un ignoto sognato e pre-visto ma parte da un’origine ben definita. Sembra invece che la ricerca oggi non sia tanto una tecnica acquisita (in un processo sia di ammirazione/devozione, sia di opposizione), o un discorso artistico/filosofico/politico che metta in discussione in teatro o la danza come lo abbiamo ricevuto dal passato, quanto un fenomeno dovuto alla professione. Certo non è che si voglia generalizzare, ma indicare una linea di tendenza, un pericoloso adattarsi a termini che sembrano svuotati di senso. Come la ricerca di Leonard sembra che quella teatrale, nell’ampia accezione del termine, sia eterodiretta dai bandi che come Teddy nel film orientano Leonard verso un nuovo obiettivo. Dimenticare perché si fa una ricerca, cosa serve veramente, impedisce di comprendere che il regime di frettolosa iperproduzione non ci potrà aiutare a ricercare un bel niente. Dimenticare le motivazioni di una ricerca ci ingabbia in processi produttivi o residenze assolutamente inutili. La ricerca prima di essere intrapresa deve sapere di cosa necessita e soprattutto cosa possa metterla in pericolo, ma la cosa più importante: l’artista che la intraprende deve conoscere se stesso. Leonard non sa chi è, né cosa ha fatto. Il socratico conosci te stesso, scritto anche sulla porta dell’oracolo in Matrix, diventa fondamentale per intraprendere qualsiasi processo creativo e questo deve avvenire prima del bando, prima della residenza, prima del debutto in un festival o in un teatro.

Mickey Rourke in Angel’s Heart

Ulteriore curioso fenomeno è quello che chiameremo effetto Angel’s heart. Nel film di Alan Parker, il detective Harry Angel, viene ingaggiato per un’indagine dal misterioso signor Luis Cyphre. Harry deve trovare qualcuno che non ha pagato un grosso debito al suo committente. Le sue ricerche lo portano a New Orleans, in luoghi sordidi, colmi di riti indecenti e a scoprire, con orrore che il debitore non è che lui stesso e il suo creditore altri non è che il diavolo in persona. Harry aveva venduto la sua anima ma se ne era dimenticato. E non ha nemmeno fatto una vita di successo, colmo di denaro e gloria, ma un’esistenza sordida, di mezzucci, ai margini della società.

La rimozione dei ricordi avviene per molte ragioni non sempre traumatiche e dolorose. A volte si dimentica perché si ritiene concluso un percorso. In quello che viene chiamato effetto Cliffhanger avviene che si memorizza meglio ciò che resta incompiuto in quanto il bisogno riattiva la memoria. Martin Heidegger in Essere e tempo dice: «il pensante impara in maniera più durevole dal mancante». Non solo l’incompiutezza aiuta la memoria ma anche l’insoddisfazione per le soluzioni applicate e trovate. Per ricordare meglio bisogna mancar di qualcosa. Forse dunque il recente passato è stato dimenticato perché risolto. Forse i percorsi giunti a noi dal Novecento erano conclusi e non erano più utili all’oggi e dunque sono semplicemente scomparsi dietro le cortine del tempo. Bisognerebbe indagare il fenomeno per comprendere perché ciò che ci è più prossimo è sfilato nelle nebbie del passato. Un’indagine pericolosa come quella di Harry Angel, perché potremmo venire a scoprire una certa correità del mondo teatrale nella crisi del teatro e questo perché si sono detti molti pericolosi sì, magari anche in buona fede, a delle pratiche e a delle modalità che hanno condotto alla costruzione di una filiera iperproduttiva premiante la quantità e non la qualità. E se così fosse verremmo anche a scoprire che tutto ciò non ha portato benessere e gloria al comparto, ma a una vita misera, ai margini della società, in molti casi al limite della sussistenza. Eppure se compissimo tale indagine come fossimo sulla sedia dell’analista potremmo anche far riaffiorare ciò che invece è assolutamente necessario al teatro e ricordarne le funzioni perdute e mai riaggiornate. Come diceva Freud in Costruzioni nell’analisi: «il terapeuta dà la possibilità al paziente di ritrovare qualcosa che in realtà non aveva mai perduto. Il paziente scopre che ciò che sta disperatamente cercando è già in suo possesso».

Da ultimo l’effetto Embers, dal film di Claire Carré, dove troviamo un’umanità colpita da un’epidemia i cui effetti sono quelli di provocare nei sopravvissuti un’inguaribile amnesia anterograda. Nessuno ricorda niente se non per pochi istanti. Nemmeno gli affetti più stretti e sinceri sopravvivono a un semplice distacco di pochi minuti. Coloro che ricordano sono rintanati in rifugi sotterranei, circondati da oggetti di cultura ormai obsoleti e inutili e da ogni comfort tranne la socialità. Miranda, unico personaggio ad avere un nome, decide di lasciare il suo rifugio, affrontare la perdita di memoria pur di avere la possibilità di sfuggire alla noia di una prigionia autoimposta. Avendo a disposizione solo il passato, non potendo costruire un futuro, sceglie di vivere un eterno presente, seppur senza senso alcuno e senza la speranza di poterlo avere.

Embers di Claire Carré

L’epidemia, come ben sapeva Artaud, non avviene solo nel regno della biologia, ma anche nel mondo delle idee. Ci siamo avvinti con troppa foga al mondo digitale, sposando le sue tecnologie senza mettere in dubbio nemmeno per un secondo che andassero soppesate prima di essere utilizzate. Il mondo etereo del digitale però è orizzontale privo com’è della verticalità del tempo. Tutto è a disposizione sullo stesso piano, tutto dura un battito di ciglia, il tempo di un post, di una tempesta furiosa di commenti. Siamo tutti connessi ma scollegati, privi del confronto, della discussione, dell’analisi. Si legge disattenti, veloci, saltellando da una frase all’altra e nulla si fissa veramente nella memoria. Stiamo tutti diventando smemorati perché non sappiamo più soffermarci. Ciò che è avvenuto due anni fa sui palchi difficilmente si rammemora, recensioni di spettacoli di soli tre stagioni fa non sono più lette, considerazioni di prima della pandemia sono già obsolete, si corre verso il prossimo appuntamento dimenticando già quello di ieri. Così oggi nell’apertura frettolosa e generalizzata ci troviamo già subissati di nuovi lavori, di conferenze stampa, di programmi, e a correre su e giù per l’Italia. Poco rimarrà nella nostra memoria perché non diamo tempo alle cose di sedimentare, alla mente di riflettere, di considerare, di confrontare, di scoprire, come diceva Benjamin, una realtà nei frammenti di specchio che incontriamo sulla nostra strada.

Alla fine di questo che non è stato altro che un gioco innocente, fatto per celia, un viaggio per immagini e metafore non troppo serio e scientifico, ci possiamo lasciare pensando alle anime dantesche e alla loro unica preoccupazione di essere ricordate da chi ancor viveva. Non c’è pena maggiore in tutto l’inferno che l’essere dimenticati. :«fama di loro il mondo esser non lassa» viene detto degli ignavi negletti sia da Dio che dai suoi nemici, e così degli avari : «la sconoscente vita che i fé sozzi,/ad ogne conoscenza or li fa bruni». Questa la sorte dei peccatori spiacevoli. Nel nostro contemporaneo invece rischiamo di garantire tale bieco destino a figure che invece meriterebbero memoria e i cui insegnamenti e pratiche potrebbero essere alquanto utili al nostro tempo colmo di confusione. Dovremmo aver la forza di rispolverare i ricordi, tornare a guardare al recente passato con coraggio e indagare con serenità e rigore perché oggi il teatro sia attanagliato dalla foga di produrre lavori che nel giro di mezza stagione verranno dimenticati e, soprattutto, perché ci siamo piegati al principio di valutazione quantitativa e, forse, solo così torneremo a incontrare veramente il pubblico sul piano della necessità e non su quello della convenienza e del bisogno.

Stefano Vercelli

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A STEFANO VERCELLI E MAGDA SITI

Per la quarantaquattresima intervista de Lo Stato delle cose andiamo a Modena per fare un’eccezione al fine di confermare la regola. Incontriamo infatti Magda Siti e Stefano Vercelli, due amici che al teatro hanno dato e stanno dando molto.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Stefano Vercelli e Magda Siti non hanno bisogno di alcuna presentazione. Ricordiamo solo che dirigono a Modena Drama Teatro le cui ultime produzioni vedono protagonisti Claudio Morganti e Rita Frongia. Inoltre dirigono il festival Città e Città.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Stefano Vercelli: Risponderò in forma di elenco, (il cui ordine può variare), mi aiuta a trovare sintesi e un po’ di chiarezza a una domanda così complessa, dunque:

Peculiarità della creazione scenica?

1) Una delle condizioni necessarie per intraprendere un’ avventura creativa è sicuramente avere un progetto che ti piace, che ti anima per qualche misterioso motivo e che realizzerai con persone che stimi, che ti sono simpatiche, con le quali ridi, discuti con piacere e interesse per quello che dicono e durante il lavoro e poi in scena, non prevaricano.

2) Avere uno spazio adeguato (riscaldato d’inverno e a disposizione per un tempo abbastanza lungo, dove si ha la libertà di stare in silenzio ma anche di sparare musica a tutto volume.

3) Firmare un contratto di assunzione regolare con paga dignitosa, anche il minimo sindacale può andar bene.

4) La modestia, il “mettersi al servizio” e abbassare i livelli dell’ego.

Cosa necessita per essere efficace?

1) L’efficacia di un lavoro, nel mio caso, almeno per il momento, il teatro, è molto soggettiva. Come attore sento che quello che sto facendo è efficace, quando sto a mio agio durante la creazione anche nei momenti in cui non si sa cosa fare e non importa saperlo (almeno non subito) e, in scena, quando ci sono quei momenti in cui non stai “ripetendo” ma sei lì, per la prima volta, in quel momento, con una percezione amplificata di tutto ciò che c’è intorno a te; quando, guardando in faccia il mio compagno o campagna di lavoro durante uno spettacolo, mi accorgo che lo sto guardando veramente e non facendo finta di ascoltarlo aspettando il mio turno per rispondere. Quando in uno spettacolo il testo, i dialoghi e i silenzi non sono “battute”.

2) Per essere efficace (ma non è una regola) necessita della maturità e professionalità dei componenti che si predispongono a realizzarla, che mettano in gioco le loro certezze estetiche e attoriali e le convinzioni di sapere cosa sia necessario ad una creazione per essere efficace. Necessita anche, nel caso si lavori con qualcuno di molto giovane, con poca o anche nessuna esperienza, l’ascolto ed evitare giudizi sulle qualità, il valore e il merito della persona.

3) C’è da considerare anche la differenza tra il concetto di efficacia che hanno i critici, i giornalisti, gli scrittori, i fotografi, il pubblico “normale, quello degli addetti ai lavori, il pubblico formato dai genitori e parenti degli attori, il pubblico straniero, quello giovane, di mezza età e quello anziano, e il pittore, il danzatore, la casalinga l’insegnate ecc…si capisce alla fine che non esiste un concetto di efficacia universale. Per esempio al pizzaiolo napoletano sotto casa mia piacciono tantissimo le parate sui trampoli, quello per lui è “teatro efficace”. Se penso che andavo sui trampoli a fare “parate” con tamburi, fisarmoniche, maschere, grida e canzoni trentacinque anni fa mi metterei a piagne!

Concludo dicendo che nel rispondere a questa domanda, ho dovuto necessariamente tener conto della mia storia personale e del mio rapporto con l’Arte in generale. La mia vita professionale è piuttosto poliedrica: parto da un grande amore per il disegno e la pittura desiderando di essere Leonardo, Caravaggio, Paul Klee…mi iscrivo all’Accademia di Belle Arti, scelgo scenografia ma un giorno vedo uno spettacolo teatrale dove la scenografia consisteva in otto panchine messe a rettangolo sulle quali sedevano sessanta spettatori e, tutt’intorno, una fila di semplici lampadine come quelle delle fiere di paese. Toccato nel profondo dal modo di essere “totale” di quegli attori, abbandono l’accademia e parto per la Danimarca per raggiungere quel gruppo. Poi parto per la Polonia dal maestro Grotowski, e il lavoro nelle foreste, per l’India con la sua danza Katakali, per Haiti e i suoi rituali religiosi chiamati voodo, tornato da queste esperienze estreme e così diverse tra loro, il teatro, soprattutto nei rituali ai quali avevo assistito, aveva perso per me quella che si chiama “la magia del teatro” e personalmente non mi interessava più essere attore o diciamo di esprimermi attraverso questo mezzo. Poi, di nuovo un cambiamento; continuare a sperimentare sulle basi di quelle esperienze, a Volterra, a Pontedera. Poi il lavoro sulla “percezione”, sui fenomeni di “sincronicità” (nel senso Junghiano) Nelle strade come guida in spettacoli per cinque spettatori dove, attraverso azioni particolari, orientare il partecipante a “vedere” piuttosto che “essere visti”, poi ancora, per una serie di circostanze , il cerchio è tornato a chiudersi e ad aprirsi di nuovo con il ritorno in una sala teatrale come attore. Voglio concludere con un ricordo: nel 1974 Zbigniew Cynkutis, uno degli attori di Grotowski, durante uno stage mi disse, più o meno queste parole: “Per essere un attore completo e essere credibile in scena, bisogna aver vissuto amori e abbandoni , aver visto nascere e morire qualcuno.”

Stefano Vercelli

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Magda Siti: Della complessità del sistema teatrale si è parlato molto soprattutto in questo periodo. Esiste una moltitudine di realtà, intese sia come spazi gestiti, sia come compagnie; certamente una ricchezza se pensiamo alla diversità del lavoro e della ricerca, ma si rischia l’iperproduttività a volte foriera di scarsa qualità. Oggi proliferano bandi che spingono gli artisti e anche le realtà che li ospitano a declinare o piegare il lavoro artistico a regole rigide che spesso prediligono i temi o le fasce di età. Non prendo nemmeno in considerazione quei piccoli bandi che sfruttano il desiderio di lavoro o la necessità di spazi prove da parte di giovani compagnie, senza rispettare il livello minimo di dignità lavorativa dell’artista. (Si potrebe aprire qui una lunga parentesi sui livelli di connivenza che tutti noi forse non indaghiamo abbastanza, ma il discorso sarebbe lungo e meriterebbe attenzione e precisione).

Nella mia breve esperienza di direzione artistica, precisando che gestiamo un teatro di piccole dimensioni, ho capito che è importante innanzitutto comprendere a fondo (e spesso bisogna darsi tempo) qual è il luogo che stai gestendo e quale identità desideri per quel luogo. E’ fondamentale mettere al centro il lavoro degli artisti proteggendolo innanzitutto a livello formale e legale, e difendere sempre i lavori che si scelgono per le rassegne o che si producono. Non una difesa cieca, paternalistica o basata sulla convenienza economica, ma condividendo stima reciproca. Concludendo, è indubbio che per produzione e distribuzione ci sarebbe bisogno di rivedere molte regole ministeriali e in alcuni casi anche regionali, che lasciano poco margine a ricerca, tempi di lavoro e possibilità di maggiori repliche, ma ritengo che si possano tracciare percorsi interessanti proprio in spazi medio/piccoli, che ancora, anche se a fatica, riescono a perseguire una loro idea di teatro.

Magda Siti

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera

creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di

agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale

distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato

internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i

metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti

canali di distribuzione?

Magda Siti: A volte mi sembra di essere immersa nell’immobilità di un sistema teso a reiterare in eterno i medesimi meccanismi e per molti versi è così, poi mi rendo conto che ci sono piccole realtà che pur nella ristrettezza economica, stanno attuando una pratica di lavoro seria, rispettosa del lavoro degli artisti e con un atteggiamento di curiosità che non pone steccati a priori nella scelta degli spettacoli, altri che invece continuano a ricalcare modelli sterili di scambio o basarsi sulle scelte dei soliti nomi più quotati del momento.

Forse troppo poco si parla di etica nel nostro lavoro, vedo spazi o compagnie che spesso sventolano il vessillo dell’indipendenza e di azioni “rivoluzionarie” che poi non si rispecchiano nei fatti. Di contro esiste anche chi, pur essendo finanziato da enti pubblici o privati, mantiene un atteggiamento corretto e anche di apertura verso gli artisti. Io non mi ritengo indipendente, anche se non riceviamo fondi ministeriali, altri finanziamenti pubblici e privati ci permettono di lavorare. Però è una fortuna poter scegliere le compagnie e gli artisti con cui si ha più corrispondenza artistica e che si stimano a livello personale.

Il tema della distribuzione intreccia diversi piani, economici, politici e legislativi, forse è anche inutile ribadire quanti “carozzoni” inutili tolgono soldi pubblici a chi davvero fa un lavoro quotidiano e serio, o forse è proprio giunto il momento, visto che questo periodo di difficoltà ha evidenziato differenze e fragilità già esistenti, di non richiudere il vaso di Pandora. Contemporaneamente ritengo importante non svicolare dalle proprie responsabilità, fare sempre di più scelte che corrispondono alla propria visione teatrale, forse dovremmo essere più coraggiosi, non rimanere negli steccati dei “generi”, non chiederci così spesso se piacerà al pubblico. Questo atteggiamento forse favorirebbe lo sviluppo della circuitazione se non numericamente sicuramente qualitativamente.

Rita Frongia
Rita Frongia La vecchia

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Magda Siti: Digitale o dal vivo. Ora sembra sia diventato questo il problema e se ne discute come fosse l’unico nodo da sciogliere, si creano schieramenti a volte sterili. La videoarte esiste da tanto, l’uso di tecnologie o le cosiddette nuove tecnologie, è da parecchio che frequentano la scena. Forse rischio di banalizzare, ma credo dipenda sempre dall’oggetto di ricerca dell’artista. Poi, in questo particolare momento è pericoloso farsi attrarre in un ambito solo per l’ansia di essere presenti, per timori economici o previsioni strategiche, senza competenze ed esperienza.

Se ritorno poi all’inizio del mio discorso, e al mio punto di vista, non mi resta che sottolineare che “dal vivo” è il teatro; dal vivo si possono creare le vere relazioni, quelle capaci di far accadere, capaci di frequentare quella zona fragile e misteriosa dell’improvvisazione.

Non è teatro se non è dal vivo, è altro, non ne faccio una graduatoria: cos’è meglio o peggio, sono diversi.

Quindi si farà come si potrà, per fare teatro, bisogna avere anche la capacità di aspettare.

Drama Teatro Modena

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Magda Siti: Non mi addentro in distinzioni filosofiche o letterarie tra reale e virtuale, non ne ho le competenze. Se però penso al teatro e al rapporto con il reale, mi viene da dire che non se ne può prescindere, è il tempo che viviamo, in cui siamo immersi e non c’è sempre la necessità di restituirlo aggrappandoci agli argomenti.

La scena è una bellissima invenzione (cito a memoria la frase di un caro amico) e lì, in quel “gioco” di relazioni, dalla vita di ognuno non si può prescindere.