:«Abbiamo perso la memoria del Quindicesimo Secolo» cantavano gli Area nel 1976 in una canzone dal titolo profetico: Evaporazione. Infatti se guardiamo alle nostre spalle, ma anche ai film e alla letteratura fantascientifica di questi ultimi anni, la memoria nella civiltà occidentale sembra si sia persa ben più del Quindicesimo secolo. La memoria del nostro passato recente, delle lotte e delle rivoluzioni culturali, paiono evaporate. Sembra che questa nascente civiltà digitale abbia non solo sbiadito i ricordi, persino recentissimi, facendoli affogare nel mare magnum del megastore dell’informazione, ma in più abbia appiattito tutto in un eterno presente, sempre disponibile con un semplice click e pronto a reiterarsi nel nome del sette giorni su sette h24.
Questa temporalità profana che innalza a unica gloria il giorno lavorativo ha quindi, come conseguenza, scalzato il divino riposo, sopprimendo così quella cesura che dava senso al tempo nella discontinuità permettendo il pensiero libero e fluttuante, quello da cui nascono i pensieri fecondi e critici, e così il passato si è perso nelle nebbie ingoiato dai Langolieri di Stephen King. Senza passato si è costretti, come Bill Murray in Ricomincio da capo, a vivere in un loop temporale senza via d’uscita: non riusciamo a immaginare il futuro, costretti come siamo a sopravvivere alla velocità di replicazione del medesimo travestito da novità.
Ciò che più risente di questo eterno ritorno dell’eguale è proprio la memoria tanto da averci fatto perdere non solo quella del Quindicesimo secolo, ma anche quella degli ultimi trent’anni e con essa si è smarrita nelle nebbie la storia recente della ricerca teatrale in Italia. Nomi come Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Jerzy Grotowski o Tadeusz Kantor sembrano affiorare da soffitte dimenticate coperti da nugoli di polvere. Eppure sono il recentissimo passato.
Eterno presente digitale e amnesia (o rimozione?) sembrano attanagliare il mondo culturale italiano non solo in ambito artistico ma anche politico sindacale. Ritroviamo così riproposizioni di ricerche già date e dimenticate così come annosi problemi le cui radici si conficcano nei decenni e sembrano invece apparire dal nulla improvvisi come fulmini in un temporale estivo.
Proviamo giocando un po’ con le immagini a cercare di comprendere cosa comporti questo malfunzionamento mnemonico dispiegato in un tempo piatto sempre uguale a se stesso, processo che nemmeno il Covid ha scalfito, tanto che tutti fremono a ritornare alla normalità, a com’era prima, nascondendo sotto il tappeto i pericolosi cambiamenti comunque avvenuti (soprattutto una preoccupante sperequazione dei poteri).
Cominciamo il nostro gioco. La prima immagine esemplifica quello che potremmo chiamare Effetto Jason Bourne, dal nome del protagonista della famosa saga di spionaggio interpretata da Matt Damon. Bourne si sveglia ferito, non sa chi è, da dove proviene. Non sa nulla del suo passato. Sottopelle trova un chip con delle coordinate bancarie di un istituto di Zurigo. Visitando la banca le cose si complicano: passaporti con identità multiple: chi è dunque? Quale identità corrisponde alla sua persona? E, soprattutto: che vita conduce uno che può disporre di tali mezzi e materiali? Inoltre Bourne scopre di avere delle abilità: sa combattere, individua potenziali pericoli, immagazzina informazioni che potrebbero essere utili, reagisce con prontezza impressionante agli imprevisti, parla diverse lingue. Bourne ha dei doni e delle arti ma non sa come le ha apprese, a cosa gli servono e non sa soprattutto chi gliele ha insegnate e perché. Bourne non ha funzione pur avendo potenzialità da supereroe, e questa mancanza, che prova a sanare per tutta la saga, gli impedisce appunto di costruire un futuro. Ogni volta che ci prova lo vengono a cercare e tutto riprecipita in un vortice di fuga e violenza in cui l’unico a non sapere il motivo scatenante è proprio lui.
Il passato serve da contrasto, perché opponendosi ad esso i giovani fanno sorgere il futuro. Le generazioni si susseguono tra conservatorismo e innovazione. Ciò che è stato è la radice da cui sorge un domani diverso benché non necessariamente migliore. L’idea del progresso come parabola in ascesa tendente a infinito è una mistificazione come ricordava già il Manzoni. In arte ciò che è diventato canone viene messo in discussione e nella variazione nasce un nuovo canone. Sembra che questo perenne movimento di ascesa e caduta, di crescita e declino, si sia arrestato. Nell’eterno presente non si pensa al perdurare della memoria, ma solo a viverlo evitando i rischi di essere risucchiati nell’obsolescenza, unico vero peccato della contemporaneità. Aggiornamento continuo è il comandamento. Il problema è che come Jason Bourne non sappiamo più chi siamo né quale funzione svolgiamo nel contesto in cui ci si muove. Come Jason Bourne non sapremo costruire un futuro senza aver riscoperto il nostro recente passato in cui sono contenuti i motivi dell’attuale crisi. Ristudiare gli ultimi trent’anni di teatro italiano, sotto i vari aspetti politici, antropologici, sociologici e sindacali sarebbe alquanto utile per trovare delle soluzioni e delle vie di fughe all’alquanto problematico oggi.
La seconda suggestione fa sorgere quello che chiameremo Effetto Memento, dal famoso film di Christopher Nolan, e utilizzeremo come sottotitolo proprio la frase che inizia il film: ricordati di non dimenticare. Leonard è affetto da amnesia anterograda. Non trattiene nessun ricordo di quello che gli accade per più di pochi minuti. Nonostante questo limite è alla ricerca di colui che lo ha aggredito e ha ucciso sua moglie. Per ricordare visi e indizi importanti per la sua indagine si tatua il corpo e gira con un mucchio di polaroid, ritratti di persone con appunti che lo aiutino a comprendere di chi può fidarsi. Leonard è aiutato da Teddy, il quale viene ucciso all’inizio del film. La storia si svolge all’indietro e grazie a questo movimento a ritroso, ecco che il presente si illumina. Leonard è colui che ha ucciso sua moglie. Lo ha semplicemente rimosso. Teddy è solo un poliziotto che ha sfruttato la sua malattia per uccidere delle persone a lui scomode. La ricerca di Leonard è fasulla, basata su presupposti sbagliati e non può avere nessun esito perché non conosce il proprio passato. Contrariamente a Edipo che si punisce per aver scoperto di essere la causa dei mali di Tebe, Leonard dopo pochi secondi dimentica tutto e rimane con una serie di diapositive e di tatuaggi incisi sul corpo che non lo porteranno a nessuna verità ingabbiandolo in un circolo vizioso. La sua ricerca sarà sempre deludente perché svincolata da un passato e quindi infruttuosa perché incapace di proiettarsi verso un qualsiasi futuro.
Mai come in questi ultimi mesi si è parlato di teatro di ricerca eppure questo è nello stesso tempo un periodo alquanto arido di discussioni teoriche. La ricerca si muove verso un ignoto sognato e pre-visto ma parte da un’origine ben definita. Sembra invece che la ricerca oggi non sia tanto una tecnica acquisita (in un processo sia di ammirazione/devozione, sia di opposizione), o un discorso artistico/filosofico/politico che metta in discussione in teatro o la danza come lo abbiamo ricevuto dal passato, quanto un fenomeno dovuto alla professione. Certo non è che si voglia generalizzare, ma indicare una linea di tendenza, un pericoloso adattarsi a termini che sembrano svuotati di senso. Come la ricerca di Leonard sembra che quella teatrale, nell’ampia accezione del termine, sia eterodiretta dai bandi che come Teddy nel film orientano Leonard verso un nuovo obiettivo. Dimenticare perché si fa una ricerca, cosa serve veramente, impedisce di comprendere che il regime di frettolosa iperproduzione non ci potrà aiutare a ricercare un bel niente. Dimenticare le motivazioni di una ricerca ci ingabbia in processi produttivi o residenze assolutamente inutili. La ricerca prima di essere intrapresa deve sapere di cosa necessita e soprattutto cosa possa metterla in pericolo, ma la cosa più importante: l’artista che la intraprende deve conoscere se stesso. Leonard non sa chi è, né cosa ha fatto. Il socratico conosci te stesso, scritto anche sulla porta dell’oracolo in Matrix, diventa fondamentale per intraprendere qualsiasi processo creativo e questo deve avvenire prima del bando, prima della residenza, prima del debutto in un festival o in un teatro.
Ulteriore curioso fenomeno è quello che chiameremo effetto Angel’s heart. Nel film di Alan Parker, il detective Harry Angel, viene ingaggiato per un’indagine dal misterioso signor Luis Cyphre. Harry deve trovare qualcuno che non ha pagato un grosso debito al suo committente. Le sue ricerche lo portano a New Orleans, in luoghi sordidi, colmi di riti indecenti e a scoprire, con orrore che il debitore non è che lui stesso e il suo creditore altri non è che il diavolo in persona. Harry aveva venduto la sua anima ma se ne era dimenticato. E non ha nemmeno fatto una vita di successo, colmo di denaro e gloria, ma un’esistenza sordida, di mezzucci, ai margini della società.
La rimozione dei ricordi avviene per molte ragioni non sempre traumatiche e dolorose. A volte si dimentica perché si ritiene concluso un percorso. In quello che viene chiamato effetto Cliffhanger avviene che si memorizza meglio ciò che resta incompiuto in quanto il bisogno riattiva la memoria. Martin Heidegger in Essere e tempo dice: «il pensante impara in maniera più durevole dal mancante». Non solo l’incompiutezza aiuta la memoria ma anche l’insoddisfazione per le soluzioni applicate e trovate. Per ricordare meglio bisogna mancar di qualcosa. Forse dunque il recente passato è stato dimenticato perché risolto. Forse i percorsi giunti a noi dal Novecento erano conclusi e non erano più utili all’oggi e dunque sono semplicemente scomparsi dietro le cortine del tempo. Bisognerebbe indagare il fenomeno per comprendere perché ciò che ci è più prossimo è sfilato nelle nebbie del passato. Un’indagine pericolosa come quella di Harry Angel, perché potremmo venire a scoprire una certa correità del mondo teatrale nella crisi del teatro e questo perché si sono detti molti pericolosi sì, magari anche in buona fede, a delle pratiche e a delle modalità che hanno condotto alla costruzione di una filiera iperproduttiva premiante la quantità e non la qualità. E se così fosse verremmo anche a scoprire che tutto ciò non ha portato benessere e gloria al comparto, ma a una vita misera, ai margini della società, in molti casi al limite della sussistenza. Eppure se compissimo tale indagine come fossimo sulla sedia dell’analista potremmo anche far riaffiorare ciò che invece è assolutamente necessario al teatro e ricordarne le funzioni perdute e mai riaggiornate. Come diceva Freud in Costruzioni nell’analisi: «il terapeuta dà la possibilità al paziente di ritrovare qualcosa che in realtà non aveva mai perduto. Il paziente scopre che ciò che sta disperatamente cercando è già in suo possesso».
Da ultimo l’effetto Embers, dal film di Claire Carré, dove troviamo un’umanità colpita da un’epidemia i cui effetti sono quelli di provocare nei sopravvissuti un’inguaribile amnesia anterograda. Nessuno ricorda niente se non per pochi istanti. Nemmeno gli affetti più stretti e sinceri sopravvivono a un semplice distacco di pochi minuti. Coloro che ricordano sono rintanati in rifugi sotterranei, circondati da oggetti di cultura ormai obsoleti e inutili e da ogni comfort tranne la socialità. Miranda, unico personaggio ad avere un nome, decide di lasciare il suo rifugio, affrontare la perdita di memoria pur di avere la possibilità di sfuggire alla noia di una prigionia autoimposta. Avendo a disposizione solo il passato, non potendo costruire un futuro, sceglie di vivere un eterno presente, seppur senza senso alcuno e senza la speranza di poterlo avere.
L’epidemia, come ben sapeva Artaud, non avviene solo nel regno della biologia, ma anche nel mondo delle idee. Ci siamo avvinti con troppa foga al mondo digitale, sposando le sue tecnologie senza mettere in dubbio nemmeno per un secondo che andassero soppesate prima di essere utilizzate. Il mondo etereo del digitale però è orizzontale privo com’è della verticalità del tempo. Tutto è a disposizione sullo stesso piano, tutto dura un battito di ciglia, il tempo di un post, di una tempesta furiosa di commenti. Siamo tutti connessi ma scollegati, privi del confronto, della discussione, dell’analisi. Si legge disattenti, veloci, saltellando da una frase all’altra e nulla si fissa veramente nella memoria. Stiamo tutti diventando smemorati perché non sappiamo più soffermarci. Ciò che è avvenuto due anni fa sui palchi difficilmente si rammemora, recensioni di spettacoli di soli tre stagioni fa non sono più lette, considerazioni di prima della pandemia sono già obsolete, si corre verso il prossimo appuntamento dimenticando già quello di ieri. Così oggi nell’apertura frettolosa e generalizzata ci troviamo già subissati di nuovi lavori, di conferenze stampa, di programmi, e a correre su e giù per l’Italia. Poco rimarrà nella nostra memoria perché non diamo tempo alle cose di sedimentare, alla mente di riflettere, di considerare, di confrontare, di scoprire, come diceva Benjamin, una realtà nei frammenti di specchio che incontriamo sulla nostra strada.
Alla fine di questo che non è stato altro che un gioco innocente, fatto per celia, un viaggio per immagini e metafore non troppo serio e scientifico, ci possiamo lasciare pensando alle anime dantesche e alla loro unica preoccupazione di essere ricordate da chi ancor viveva. Non c’è pena maggiore in tutto l’inferno che l’essere dimenticati. :«fama di loro il mondo esser non lassa» viene detto degli ignavi negletti sia da Dio che dai suoi nemici, e così degli avari : «la sconoscente vita che i fé sozzi,/ad ogne conoscenza or li fa bruni». Questa la sorte dei peccatori spiacevoli. Nel nostro contemporaneo invece rischiamo di garantire tale bieco destino a figure che invece meriterebbero memoria e i cui insegnamenti e pratiche potrebbero essere alquanto utili al nostro tempo colmo di confusione. Dovremmo aver la forza di rispolverare i ricordi, tornare a guardare al recente passato con coraggio e indagare con serenità e rigore perché oggi il teatro sia attanagliato dalla foga di produrre lavori che nel giro di mezza stagione verranno dimenticati e, soprattutto, perché ci siamo piegati al principio di valutazione quantitativa e, forse, solo così torneremo a incontrare veramente il pubblico sul piano della necessità e non su quello della convenienza e del bisogno.
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