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Neoliberismo e teatro

NEOLIBERISMO E TEATRO: LE INSIDIE DELL’AZIENDA CULTURALE

Iniziamo con una domanda: c’è un fattore, un elemento che plasma le strutture e gli ordinamenti e nello stesso tempo ostacola lo sviluppo e le riforme in ambito artistico culturale? Non è facile rispondere. Innumerevoli sono le cause e le circostanze di cui bisognerebbe tener conto. Per rispondere alla domanda occorrerebbe innanzitutto compiere un paziente lavoro di scavo per liberare il campo dalla retorica e dai pregiudizi, ossia da quelle concrezioni che impediscono una visione chiara del problema. Bisognerebbe compiere un’analisi storica approfondita di ciò che è avvenuto negli ultimi trenta o quarantanni per provare a comprendere cosa ci ha spinto verso l’oggi che stiamo vivendo. E tutto questo andrebbe fatto con coraggio, senza timore di scoprire di essere in qualche modo complici, se non persino fautori, della presente situazione. Un antico adagio tibetano recita: ciascuno è autore della propria miseria. Comprendere quindi le vere cause di un problema è il solo modo per scorgere delle vie d’uscita, per quanto doloroso possa essere il processo. Una riforma efficace del mondo dello spettacolo dal vivo è possibile solo se si individuano i fattori generanti la crisi che si sta attraversando.

A mio avviso, il principale motore della crisi strutturale e ideologica del settore è da ricercarsi innanzitutto nella colonizzazione del pensiero da parte del modello economico neoliberista, fenomeno avvenuto in tutti i settori dell’attività umane, e iniziato per i più negli anni ’60, come risposta ai movimenti radicali e progressisti che portarono al ’68, per altri negli anni ’70 in seguito alla crisi petrolifera, ma senza dubbio già trionfante negli anni ’80 quando Margaret Tatcher coniava il famoso aforisma: al capitalismo non c’è alternativa. Nel nostro paese si è assistito al fenomeno con un po’ di ritardo, diciamo a partire dagli anni ’90 e che ha condotto alla trasformazione in azienda della politica, della sanità, delle università, dello sport e ora, da ultimo, delle attività culturali con la metamorfosi delle Associazioni in Aziende di cultura e con il materializzarsi delle riforma del terzo settore più volte rimandata.

È altrettanto evidente come tale conversione aziendalista non abbia portato benefici né sul livello di istruzione, né sull’efficacia dei servizi sanitari né tanto meno nell’attività politica. Vogliamo dunque sperimentarne il fallimento anche in ambito culturale? Eppure questa transizione ci viene venduta da ogni parte come inevitabile ed estremamente vantaggiosa. E Infatti, non solo le fondazioni bancarie o i Think-tank come Fitzcarraldo cantano da anni il peana all’idea della trasformazione in azienda come unico scenario possibile e maggiormente vantaggioso, ma persino la Comunità Europea nel suo Libro Verde per lo sviluppo e il potenziamento delle industrie culturali afferma: «Con il concorso del settore dell’istruzione, le industrie culturali e creative possono anche svolgere un ruolo decisivo nel dotare i cittadini europei delle necessarie competenze creative, imprenditoriali e interculturali. In questo senso, le industrie culturali e creative possono alimentare i centri d’eccellenza europei e aiutarci a diventare una società fondata sulla conoscenza. Allo stesso tempo, queste competenze stimolano la domanda di contenuti e di prodotti più differenziati e più raffinati, e questo può dare ai mercati di domani una forma meglio consona ai valori europei». Cultura e istruzione sono subalterne e funzionali allo stimolo di domanda per creare mercati consoni ai valori europei. Quali valori? Non se ne fa cenno.

Il filosofo cinese Mencio

Prima di incominciare ad analizzare, certo in maniera sommaria alcuni degli effetti più perniciosi del pensiero neoliberista e aziendalista nel campo dello spettacolo dal vivo, vorrei riportarvi un piccolo aneddoto tratto dalla vita del filosofo cinese Meng-tzu, vissuto all’epoca degli Stati Combattenti e che illustra con adamantina evidenza quali siano gli effetti di un pensiero rivolto esclusivamente alla sfera del profitto:

:« Mencio fece visita al re Hui di Liang – O venerato maestro Meng, sei venuto a me senza che ti sembrasse lunga la distanza di mille chilometri. Allora devo ritenere che tu abbia dei suggerimenti per il profitto del mio regno?

– O re perché dici: profitto? Dì piuttosto: hai suggerimenti di carità e giustizia, null’altro. Se il re dice: “Che farò per il profitto del mio regno?” i dignitari diranno: “Che farò per il profitto della mia casata?”, e i funzionari e il popolo diranno: “Che farò per il profitto della mia persona?”. I superiori e gli inferiori si strapperanno l’un l’altro questo profitto e lo stato sarà in pericolo».

Per sostenere che il pensiero economico abbia colonizzato quello culturale bisogna innanzitutto esibire delle prove. I maggiori indizi che evidenziano il processo li troviamo senza ombra di dubbio nel linguaggio: stakeholder, business plan, mission, target, audience engagement, governance, Know-how, tutte parole ora abitualmente utilizzate in ogni progetto, bando o documento, ma provenienti da ambienti economici ed estranei alle finalità tradizionalmente attribuibili al teatro d’arte. Confucio affermava che quando le parole non corrispondono alle cose inizia la decadenza dello stato. E le parole più pericolose sono falsamente e furbescamente neutre, quelle in apparenza inoffensive e lontane dagli ambiti economici. L’esempio più fulgido sono le cosiddette Buone pratiche. Tutti usano questo termine ma quasi nessuno pare sapere l’ambito di provenienza e che tale locuzione va a braccetto con un altro bell’argomento: il benchmarking. Soffermiamoci un momento su questo binomio linguistico da cui derivano non poche disfunzioni in ambito culturale. Innanzitutto cos’è il Benchmarking? In maniera semplice potremmo dire: il paragonare tecniche e modalità di un’impresa ad altre che ottengono risultati migliori al fine di clonarne le pratiche. La tesi è quella per cui un’idea, se funziona, è buona per ogni contesto. Da qui le Best Practises ossia la costruzione di graduatorie, parametri e punteggi alla cui cima si trovano appunto le tecniche e i metodi considerati i migliori e quindi da imitare. L’adozione del concetto di buone pratiche ha comportato come conseguenza l’introduzione degli algoritmi quantitativi e delle graduatorie in ambito culturale. Le parole quindi, non sono solo importanti, come dice Nanni Moretti, ma sono anche pericolose perché esse portano in sé pensieri e concetti che usati male o fuori contesto creano conseguenze nefaste. Pensiamo al concetto su cui si è basata la politica estera americana di esportazione della democrazia laddove non vi sono le condizioni socioculturali per il suo sorgere, e pensiamo ai danni conseguenti alla pace mondiale e al benessere di intere popolazioni che ne sono derivate.

Infatti il Benchmarking e le Best practises partono da un assunto illogico, non scientifico e palesemente fasullo: non è detto che ciò che funziona in un ambito funzioni anche in un altro. Le condizioni cambiano, gli assunti ideologici, etici, morali alla base di un’attività né modificano e modellano l’agire. In ambito culturale e artistico per esempio non è il profitto d’impresa il motore principale. E nemmeno le strategie di comunicazione sono le stesse di una merendina o un detersivo. I presupposti sono talmente distanti e divergenti che proprio non si capisce il motivo per cui le strategie che funzionano per un’azienda di pannolini debbano essere utilizzati da una compagnia di danza. Eppure questo avviene giornalmente senza che nessuno si chieda il perché. Inoltre le graduatorie e i punteggi non tengono in alcun conto dei diversi contesti geografici e socio-ambientali: agire in Calabria, in Lombardia o in Sardegna non è la stessa cosa. Fare teatro a Milano non è uguale a farlo ad Aosta. Ma nemmeno tra Milano e Roma, due grandi città, si può minimamente fare un paragone. Eppure…

Alain Badiou afferma:«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». E infatti se c’è una crisi di governo si chiama un banchiere o un economista. E non a caso se si presenta un problema nell’ambito dello spettacolo dal vivo, non si chiede ai funzionari preposti la competenza artistica e organizzativa propria al teatro, ma si invoca a gran voce la presenza di un manager come se avesse per magia la capacità di risolvere ogni problema, pur non avendo conoscenza alcuna del settore di cui si deve occupare. E questo avviene nonostante sia proprio il pensiero economico neoliberista ciò che ha condotto alle crisi economiche, politiche, ambientali e sanitarie attuali. Sarebbe questo il momento di mettere in discussione questa egemonia del modello capitalista e trovare delle valide alternative che privilegino l’umano al profitto.

David Harvey

Prima di proseguire sulla strada tracciata dal mondo economico neoliberale, proviamo quindi a porci una serie di questioni: Vogliamo veramente diventare azienda di cultura? Ma soprattutto siamo in grado di diventarlo? I presupposti dell’economia di mercato sono applicabili allo spettacolo dal vivo e al teatro e alla danza d’arte e di ricerca? Nel divenire aziende culturali e quindi aderendo di fatto ai principi del neocapitalismo, quali sono gli obbiettivi che de facto incorporiamo nell’agire artistico? Partiamo dagli obiettivi del capitale, che per comodità sintetizzeremo in tre concisi assunti: esso deve accrescersi, deve potersi accumulare, e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito per garantire una nuova e maggiore crescita. A questo processo di accumulo si possono frapporre degli ostacoli che, qualora trascurati, possono provocare delle crisi. Compito dei governi e delle imprese è la rimozione di tali impedimenti affinché la crescita non abbia battute d’arresto. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta come conseguenza l’inadeguatezza dei mezzi artistici, tecnologici e amministrativi; infine, per un’efficiente organizzazione del lavoro, si dovrebbe assumere e coinvolgere figure professionali adeguate agli scopi della creazione le quali per lo più non possono essere reperite proprio per mancanza di fondi. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti volti esclusivamente all’elaborazione di nuovi oggetti culturali, abbiamo un mercato inflazionato da iperproduzione e la conseguente veloce obsolescenza delle creazioni.

Inoltre, e non secondaria, vi è la questione della concorrenza, altro principio base del capitalismo. Da ogni parte si parla di reti, di agire di concerto nel settore, ma se avvenisse la trasformazione in azienda di cultura, non vi saranno più colleghi con cui solidarizzare ma concorrenti da superare a qualsiasi costo per ottenere successo e profitto. E così il clima da guelfi e ghibellini che già attanaglia il settore verrebbe solo estremizzato e inasprito. Da ultimo, e non meno importante degli altri aspetti, i diritti dei lavoratori: come tutti possono osservare, dall’affermazione del neoliberismo, ossia dagli anni ’70, essi sono venuti meno in maniera graduale e costante così come d’altra parte è aumentata la precarizzazione. Sorge spontanea la domanda: perché in ambito culturale dovrebbe accadere qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri settori? Cosa vi lascia pensare che i diritti dei lavoratori verranno difesi, estesi e affermati con maggior forza con l’instaurazione dell’azienda di cultura, l’assunzione dei principi del neocapitale e i conseguenti aumenti dei costi di gestione per il venir meno delle agevolazioni fiscali?

E così pur non essendoci le condizioni per avviare un’impresa culturale da ogni dove vi è la spinta verso un’aziendalizzazione di un settore che nasce senza fine di lucro e che, proprio per questo motivo, si è trovato escluso da numerosi sostegni in epoca Covid per essendo le attività iscritte al registro delle imprese per obbligo di molte legislazioni regionali (ad esempio la Lombardia). Non sarebbe il caso di trovare altre strategie e scenari per il mondo artistico-culturale e che tengano conto della diversità proprie del settore?

Altra ossessione del mondo economico è la quantificazione. Raccogliere dati, stilare classifiche, e puntare a un incremento nell’anno successivo è il mantra di ogni economista ma anche l’ossessione di ogni teatrante, danzatore o operatore che deve fare domanda per il FUS o per i contributi regionali. Questo vale soprattutto per il pubblico, il quale deve crescere, essere sempre più ingaggiato, coinvolto, partecipante. Una battuta d’arresto è impensabile. Ma questa fiducia nel numero e soprattutto nella crescita costante è un pensiero proprio del mondo culturale o, forse, è un’ossessione di quello economico e finanziario neoliberista?

Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911 Frederick Taylor aveva già impresso il marchio ai successivi sviluppi di questo pensiero fiducioso nell’imperio del numero e della quantificazione. Ecco i suoi sei assiomi nella loro adamantina evidenza: unico e principale obiettivo del lavoro è l’efficienza; il calcolo tecnico è sempre superiore al giudizio umano; il giudizio umano non è affidabile; la soggettività è un ostacolo; tutto ciò che non si può misurare non esiste o comunque non ha valore; gli affari dei cittadini devono essere guidati da esperti. Chris Anderson su Wired ha affermato: «con dati sufficienti, i numeri parlano da soli». Davvero è così? Oppure, come dimostrato da quanto successo in quest’epoca Covid, i numeri possono essere letti in modi talmente diversi tanto da creare una confusione senza fine?

Forse ha ragione Mark Fisher quando parla di Stalinismo di mercato ossia di: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno che proprio durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

L’imperio del numero ci conduce a un altro mantra del neoliberismo volto a potenziare lo sviluppo dell’economia e delle tecnologie digitali: la datafication. Ancora una volta quello che possiamo constatare è che il principio che apre la porta del successo e dei finanziamenti sono i numeri determinati da sua maestà l’algoritmo. Come dice Massimo Airoldi: «la cultura risultante rispetta i canoni di significazione statistica stabiliti […], l’algoritmo registrerà e riproporrà le correlazioni più forti, nascondendo quelle statisticamente non significative». Ma se è solo il numero che conta, allora la vista dalla cima dell’Everest è meno bella perché l’anno vista in pochi? E ancora, se oggi Grotowsky facesse la prima de Il principe costante a Woclaw sarebbe ininfluente perché pochi spettatori ne avrebbero l’accesso?

Secondo questo principio, a essere sotto attacco e a rischio di estinzione sarebbero quelli che nel film Divergent vengono definiti Outlier, tutti coloro che non seguono il modello statistico e la cultura così normalizzata dalla production of prediction. E ad affondare nell’oceano scuro e profondo della comunicazione digitale saranno tutti coloro che non riescono a trovare le catene di parole chiavi giuste o a investire sulla visibilità. Il numero infatti vive dell’immediato, sicuro di essere sostituito da uno nuovo il giorno successivo. Nessun pensiero sull’impatto a lungo termine di un’azione civile, artistica o politica, solo risultato immediato prima di essere sommersi da un altro contenuto inneggiato da migliaia di like.

Inception di Christopher Nolan

Pur procedendo sempre per accenni ma in modo rigoroso e conseguente è venuto il momento di porsi un’ulteriore domanda: questo movimento egemonico da parte dell’economia liberista è forse avvenuto senza la complicità degli artisti e degli operatori? O forse in qualche modo, in buona fede, convinti dal sistema in cui abitiamo e lavoriamo, abbiamo agito in modo che tali idee si affermassero nel passato tanto da divenire oggi imprescindibili? Pensiamo per un momento a due scene contenute in due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. A seguire ci siamo convinti, e ne siamo ancora convinti, che bandi, fondazioni bancarie, algoritmi fossero il modo migliore per sostenere un settore in crisi già negli anni ’90, e questa convinzione si è rafforzata negli anni nonostante l’evidenza della diminuzione dei sostegni da parte pubblica. Ci siamo assuefatti a questo pensiero e l’abitudine impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Inoltre siamo avvezzi alla bistecca elargita, benché diventi sempre più esigua, servita fredda e in ritardo. Ci siamo lasciati convincere che sia succosa e succulenta seppur insufficiente.

Forse è giunto il momento per tutti noi di immaginare scenari alternativi, rigettando le semplicistiche e falsamente ottimistiche ricette elargite da mamma economia. Essa non è in grado di risolvere le sue proprie e continue crisi, e quindi come potrebbe risolvere quelle degli altri? Forse dovremmo prendere esempio da Santo Francesco che in queste lande scatenò la più grande rivoluzione culturale del Medioevo semplicemente scegliendo di essere povero. Francesco abbracciò sorella povertà in un’epoca in cui nessuno si sarebbe sognato di farlo, soprattutto uno ricco come lui. Quell’atto di denudamento e spoliazione avvenuto nella piazza di Assisi cambiò volto al Medioevo. Serve trovare un gesto altrettanto forte, un modello d’azione altrettanto rivoluzionario, qualcosa che induca a ripensare al mondo in cui viviamo e in cui vogliamo vivere e che il neoliberismo capitalista ha messo fortemente in crisi. Il capitalismo si combatte con le idee e dunque sforziamoci tutti insieme di immaginare mondi alternativi smettendo di sognare di tornare a “come era prima”, perché è “il come era prima” che ci ha condotto al mondo aberrante di oggi.

Per concludere vorrei riportare un breve ma bellissimo racconto di Kafka da porre in chiusura di questo fugace ragionamento. Si intitola Piccola favola e forse ci induce a riflettere sul momento attuale e sulle conseguenze derivanti dalle scelte affrettate

:«Ahi!» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era così ampio che avevo paura. Continuavo a correre ed ero felice finalmente di vedere a sinistra e a destra in lontananza delle pareti, ma queste lunghe pareti si corrono incontro l’un l’altra così rapidamente che io sono già nell’ultima stanza, e lì, nell’angolo, c’è la trappola nella quale cadrò».

«Dovevi solo cambiare la direzione della corsa» disse il gatto e lo mangiò».

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE IV

:«È questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste». Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?» Mark Fischer realismo capitalista

:«L’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata o modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura». Mark Fischer realismo capitalista

:«Chi si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì» Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

Nel mondo dell’industria culturale qual è il prodotto più ricercato, il top di gamma? A giudicare dalla quantità di bandi, concorsi, residenze, progetti dedicati agli Under 35 si direbbe che i giovani siano la punta di diamante. Ma l’apparenza inganna. Il prodotto “giovani” è l’esempio più esauriente di come i dettami dell’economia di mercato applicate alla cultura falsino le prospettive. Dietro alla possente esposizione del prodotto “giovani” si nascondono pericoli, insidie e purtroppo, a volte, sfruttamento. Malauguratamente non esiste un dato nazionale consultabile per verificare quante opere con autori Under 35 siano sul mercato ogni anno. Sarebbe interessante un tale censimento per comprendere il reale stato di fatto e soprattutto verificare il divario, se esiste, tra produzione ed effettiva circuitazione.

Detto questo non si può non notare come ogni anno sia “obbligatorio” immettere sul mercato un certo numero di opere giovani e questo nonostante il mondo dello spettacolo dal vivo sia, come visto nei precedenti articoli, un settore gravato da iperproduzione, come se non esistesse alternativa professionale alla creazione di spettacoli, soprattutto in giovane età. Il settore giovani quindi sembra affetto dallo stesso morbo iperattivo e ipercinetico dei senior, con l’aggravante di ridurre le loro possibilità professionali e di crescita.

Innanzitutto non si può non notare come le scuole dedicate ai vari settori delle performing arts (Accademie, Scuole legate agli Stabili, Scuola Holden, IED, Etc) abbondino, crescano persino, e immettano sul mercato ogni anno nuova forza lavoro in un panorama economico che stenta, e nel dire stenta siamo ottimisti, a fornire ai propri lavoratori un orizzonte meno che precario. Eppure tutte queste istituzioni, gravate anch’esse da dettami del mercato, quindi di indici di crescita, di numeri e guadagni, sono indotte a vendere per sopravvivere un sogno che tale non è. La retorica imperante è “dare spazio e occasioni alle giovani generazioni” ma, nonostante le buone intenzioni sottese, come fa notare Byung-Chul Han: «il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti».

In effetti i giovani artisti assomigliano molto ai Tributi degli Hunger Games raccontati da Suzanne Collins. Ogni anno i dodici distretti devono fornire a Capitol City ventiquattro giovani, due per distretto, i quali dovranno combattersi a morte nell’arena in un reality concepito per il divertimento dei ricchi e civilizzati cittadini. Per avere più chance di sopravvivenza, i giovani tributi si devono accaparrare i favori degli sponsor, i cui aiuti diventano fondamentali nel combattimento. Alla fine ne rimarrà soltanto uno a ottenere in premio una vita di ricchezza e attenzioni. Il contesto distopico di Suzanne Collins, descrive molto bene il meccanismo del neoliberismo nei confronti delle giovani generazioni: un bacino da sfruttare il più possibile, non importa quante vittime si lascino sulla strada, perché la giovinezza è la novità, la freschezza, lo stato in cui bisogna perdurare per essere cool. Vecchio significa obsoleto, quindi non utilizzabile. L’obsolescenza è il peccato della contemporaneità, la cui punizione inappellabile consiste nel divenire scarto, rifiuto, relitto da smaltire ed eventualmente riciclare. E questo in tutti i settori lavorativi, non solo nelle performing arts. Il cinema, il romanzo e il migliore giornalismo hanno raccontato con dovizia le tragedie di chi, over quaranta, perde il lavoro e come sia difficile rientrarvi e reinventarsi soprattutto nelle posizioni di carriera acquisite.

Viviamo dunque in una società illusa di vivere in un perpetuo presente, in un forsennato update perché, sempre come afferma Byung-Chul Han: «la percezione seriale non indugia mai». Fermarsi significa morire e per questo è diventato lo stimolo principale nella caccia di nuovi talenti che presto diventano obsoleti e, nel caso specifico dello spettacolo dal vivo, non a caso hanno una data di scadenza: trentacinque anni, oltre i quali ecco che svaniscono bandi, sostegni, fondi. L’orizzonte improvvisamente si fa ristretto e grigio. Conseguenza: o ti sei fatto un nome, un certo giro di solidi contatti e ottenuto una certa stabilità amministrativa entro i trentacinque (e non è detto che basti) o sei condannato a un inevitabile destino di obsolescenza.

Marinetti nel Manifesto del Futurismo 1909 scriveva: «I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili». Non immaginava certo che lo avrebbero preso alla lettera. E pensare poi che la data di scadenza si sta anche notevolmente abbassando. Già si intravedono i bandi Under 30 e persino Under 25.

Questa gara sull’età conduce a una serie di nefaste conseguenze. Proviamo a esaminarle, premettendo che gli strumenti volti a dare sostegno agli Under sono nati con le migliori intenzioni e con lo scopo effettivo di tentare di aiutare le nuove generazioni in un paese senescente. Quando apparvero nel panorama italiano furono una vera ventata di speranza e novità. Nella maggior parte dei casi sono stati pensati come strumenti di agevolazione nell’entrata del mondo del lavoro. Quindi onore al merito a chi ha contribuito al tentativo di dare ai giovani delle possibilità concrete per sviluppare la propria arte. Non si vuole quindi in questa sede fare alcun processo ma cercare di individuare le criticità che il sistema neoliberista inevitabilmente crea pervertendo tutto alle proprie logiche.

Il problema principale è che tali strumenti sono stati tarati solo sull’età, e per la massima parte non a sostegno dell’intera filiera. Si potrebbe prendere esempio dal mondo cinematografico dove nel processo di immissione nella filiera produttiva si finanziano le opere prime, seconde e terze, come avviamento al lavoro e inseguito prevedere altri tipi di sostegni più atti allo sviluppo. Nelle arti performative si sostiene invece quasi interamente la sola produzione e, inevitabilmente tutte queste nuove opere vanno solo ad alimentare un mercato stantio e intasato, e una forsennata gara al debutto prima possibile, perfino quando non si è minimamente pronti per affrontare il pubblico o il mondo del professionismo. Inoltre si è creato un mercato a basso cachet tutt’altro che virtuoso.

Prima e più evidente conseguenza è dunque la mercificazione delle giovani generazioni. Esse si trovano nella scomoda posizione di essere commercializzate e sfruttate il più a lungo e il prima possibile, da una parte indotte a produrre a ritmi forsennati, e in seguito a spendere e spendersi per ottenere luce e visibilità. Prolificano le occasioni vendute ai giovani, siano essi concorsi o residenze, in cui questi devono immettere risorse proprie per pagarsi praticamente tutto (viaggio, vitto, alloggio, e produzione, oltre a lavorare praticamente gratis o a cachet ridicoli), nell’illusione e nella speranza di poter vincere un premio, un residenza in un festival importante, ottenere una data in più, essere visti da chi di dovere. Anche quando pagati, i giovani hanno, come detto e come accade anche in altri settori lavorativi, cachet bassi, a volte in maniera misera e risibile, i quali vengono accettati proprio nell’ottica della “gavetta”, di un percorso inevitabile, condizionato, obbligato e persino necessario. Dire di no è difficile, così come contrattare, soprattutto se non si hanno molte carte in mano e dietro di te c’è una fila affamata pronta ad accettare anche di meno. In molti casi dunque i giovani si vampirizzano invece di offrire loro delle vere occasioni di crescita. E questo processo non è in atto da pochi anni ma da almeno tre decenni.

L’eccessivo focalizzare sulla produttività e creatività conduce i giovani inoltre a farsi autori anzitempo, tralasciando il lavoro di bottega necessario per l’acquisizione di tecniche indispensabili per formarsi un linguaggio autonomo. Il lavoro con il maestro e il necessario scontro con la sua autorità è un processo necessario per un’indipendenza linguistica e formale. Una vera formazione “a bottega” richiede però tempo, unica cosa che manca nella società iperveloce e cronofaga che abitiamo. La data di scadenza si avvicina e la spinta a produrre con i relativi finanziamenti comporta che una volta finite le scuole, la formazione si parcellizzi in mini corsi, stage di pochi giorni, con più maestri possibili dove si “assaggiano” le varie tecniche senza approfondirle, degustazione agita soprattutto a fini curricolari. Persino in molte residenze creative, luoghi pensati per la creazione e sperimentazione, la necessità della restituzione a un pubblico ha portato all’emersione di sottoprodotti incompleti e creati nell’ansia di un “mini debutto”, a creare dunque prima quasi di pensare lo spettacolo nella sua interezza e organicità. Anche dove si dovrebbe avere solo il tempo e il luogo per riflettere sul proprio mondo creativo, l’obbligo di produrre e l’imperio del borderò fanno sentire la propria frusta. Ai giovani viene tolto quindi lo spensierato peregrinare, il placet experiri. Tutto deve essere finalizzato e monetizzato prima che sia troppo tardi.

Alfred Kubin Austrian school. Suicide, Selbstmord Etching. (Photo by Photo 12/ Universal Images Group via Getty Images)

Per produrre bisogna vincere i bandi che, come abbiamo visto, nella quasi totalità dei casi hanno obiettivi già previsti. In questo contesto diventa assai difficile una ricerca verso un proprio mondo estetico-formale e politico. Il rischio è accontentare il committente per ottenere i finanziamenti e ancora incrementare il proprio curriculum affinché diventi il più concorrenziale possibile, saltando di argomento in argomento senza una vera logica autoriale. Corollario inevitabile è l’assomigliarsi dei temi e delle opere, e così si finisce per intasare ulteriormente un mercato già asfittico di prodotti in serie. La vita delle opere dei giovani è brevissima spesso, proprio perché il numero è esorbitante per il piccolo mercato teatrale dove, come visto nei precedenti articoli, la distribuzione è alquanto difficoltosa e a compartimenti stagni. In questo contesto ciò che importa è ancora una volta l’età più che il loro nome o il loro lavoro.

Le produzioni ottenute attraverso vittorie di bando prevedono poi vari percorsi di tutoraggio. Tali osservatori e sguardi esterni hanno preso il posto del maestro. Oggi i consigli vengono erogati professionalmente in forma di consulenza, tutto è in forma positiva, di consiglio per il tuo bene, si è cancellato l’agonismo intellettuale tra le diverse generazioni. E così si corre il rischio di generare l’Effetto Parasite, ossia l’emulazione anziché la rivolta. Le generazioni devono vivere in opposizione se si vuole innescare un vero ricambio generazionale di linguaggi. Il passaggio di testimone non è mai indolore sebbene non sia cruento. È un necessario rito doloroso. Nel buddismo Zen è nota la massima :”se incontri il Buddha uccidilo” e non è certo un invito al delitto, ma un segnalare il pericolo che il Buddha stesso possa diventare un legame e un impedimento nel raggiungimento della perfezione. A un certo punto i tutor vanno rigettati perché troppe attenzioni genitoriali finiscono con impedire una vera indipendenza. Da qui si genera la frustrazione degli esami perenni,l’ansia di non essere mai pronto, abbastanza aggiornato, abbastanza maturo.

Ulteriore criticità che sembra in qualche modo smentire la precedente, ma è solo apparenza essendo solo un effetto complementare. La positività univoca in cui siamo tutti immersi crea un brutto rapporto con la critica. Questa, da qualsiasi parte provenga, mette in crisi le fragilità ma, se fatta in buona fede, non è volta a distruggere ma a far crescere, a mettere in luce quelle parti del lavoro su cui è necessario lavorare, ma nel mondo in cui abitiamo, dedicato alla concorrenza più sfrenata e in cui ogni fallimento è visto come inappellabile e da nascondere sotto il tappeto, non si può proprio dire che un lavoro non funziona. Eppure la caduta, e il relativo confronto rispetto ad essa, è un necessario percorso sulla via difficile della creazione artistica. Dalle cadute si impara a camminare, e sono i fallimenti più cocenti quelli che insegnano e fortificano. Avere un giusto rapporto di distacco con le critiche e le bocciature è fattore importante per la crescita personale. Invece la vita nel modello neoliberista ci impone un dover essere sempre in un costante presente di successo da condividere sui social, ottenendo like e attenzione, anche se tutto questo dura meno della caduta di Atlantide, sommersa in una notte e un giorno. Non ci si può permettere di sbagliare e così ogni report negativo è un affronto personale e non un gradino necessario alla formazione di un proprio linguaggio.

Michel Huellebecq dice: «oggi non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte». Il nostro mondo induce a limitare, se non eliminare, il rischio. In genere lo si affronta in maniera molto calcolata e cinica, cercando di capire dove soffia il vento e così ciò che appare nuovo invece è la riproposizione di modelli vincenti riadattati (non a caso in ogni settore dell’industria creativa e culturale vanno alla grande la cover, il remake, il riciclo). Anche come pubblico, come dice Mark Fisher: «abbiamo rinunciato ad aspettarci sorprese dalla cultura: e ciò vale sia per la cultura “sperimentale” che per la cultura pop». Dai giovani soprattutto non ci aspettiamo più che ci sciocchino, o ci sfidino. Li andiamo a vedere con la coscienza di chi aiuta un bisognoso, con un certo paternalismo. È come se fosse subentrato un bisogno di protezione del quale i giovani non hanno punto bisogno. Necessitano di reali possibilità di giocarsi il proprio futuro non di ipocrite gentilezze.

La mancanza di sorpresa è una certa stanchezza inventiva nonché la riposizione dei cliché è un processo storicamente iniziato decenni fa quanto il capitalismo è diventato l’unico modello a cui fare riferimento e si è espanso come un corpo estraneo in attività e settori incompatibili con il modello economico proposto. La cronofagia legata al neoliberismo ha fatto il resto. Non c’è tempo per studiare, valutare, fare esperienza. Produrre è l’imperativo univoco che viene urlato ad ogni cantone e nel fracasso si fanno evanescenti tutte le altre possibilità meno roboanti. Ci sarebbe davvero bisogno di un po’ di silenzio.

Nell’uniformità, quello che Byung-Chul Han chiama “l’inferno dell’eguale”, è sparita qualsiasi forma di opposizione o, meglio, le opposizioni vengono subito riassorbite dal sistema. Come dice Badiou, lo scandalo è solo l’eccezione, la parte evidente di un modello basato sulla corruzione, e in quanto eccezione è nel sistema, non si oppone ad esso. Sono come i glitch in Matrix, il sistema che riaggiorna se stesso e corregge gli errori. Come suggerisce Mark Fisher l’unica via di uscita a un sistema di perenne consenso è che: «il nemico oggi può essere meglio definito come capitalismo creativo, e la sua sconfitta richiederà non l’invenzione di nuovi modelli di positività, ma di nuove forme di negazione».

Se abbiamo iniziato dunque questo articolo con l’immagine gladiatoria degli Hunger Games concludiamo con l’immagine di un’altra visione della fantasia, quella di Tito di Gormenghast il quale, unico giovane erede di un vetusto e polveroso reame colmo di vuote ritualità e di congiure da operetta, decide di rinunciare al regno, di andare per il mondo e scoprire se esista un’alternativa. Essa esiste. Va costruita, pensata, immaginata, e necessita di molti fallimenti e soprattutto di molti dinieghi. Nel modello di progresso posto di fronte davanti a noi come una superstrada infinita verso successi sempre più clamorosi, se facciamo un passo di lato ecco subito l’apparire dietro il grande e ostentato ottimismo, l’aura di morte che spira e conduce tutti anzitempo nel limbo dell’obsolescenza e da questo solo i giovani ci possono salvare. L’importante è dar loro le giuste opportunità soprattutto in un paese ipocrita in cui il ricambio generazionale e la parità di genere sono tutt’altro che agevolati.

neoliberismo

A NON PIÙ COME PRIMA: NEOLIBERISMO E TEATRO

Quella da Coronavirus non è la prima pandemia che ci troviamo a vivere. L’AIDS è molto più silenziosa, più letale, vive tra noi da vari decenni, ma facciamo in modo di ignorarne la presenza. Questo nuovo virus al contrario si è imposto all’attenzione del mondo con prepotenza, obbligandoci a trincerarci nelle nostre case. La principale causa del suo manifestarsi è la medesima del suo ben più letale predecessore e di altri virus dai nomi inquietanti apparsi negli ultimi anni come Ebola, Marburg o Nipah: l’economia neocapitalista sfruttando e invadendo ogni tipo di nicchia ecologica ha portato a una contiguità senza precedenti tra animali e l’uomo favorendo il fenomeno dello spillover e delle conseguenti zoonosi. La globalizzazione ha poi permesso il rapido viaggiare di questi scomodi passeggeri in ogni angolo del pianeta.

Questa pandemia, al contrario dell’altra, era attesa da anni e non solo dalla scienza (Obama ne parlava già nel 2014 cfr. https://www.youtube.com/watch?v=pBVAnaHxHbM ). Al suo apparire ha avuto come principale effetto di bloccare intere nazioni tra cui il nostro paese dove è esplosa con particolare virulenza e dove tutte le attività economiche e sociali hanno rallentato, quando non si sono del tutto fermate. Uno degli ambiti che più si sono trovati spiazzati e colpiti è stato sicuramente il comparto delle arti dal vivo e non solo per la lontananza dal proprio pubblico ma soprattutto per la precarietà degli artisti e dei lavoratori, a cui pochi negli anni hanno cercato di porre rimedio. Lo spettacolo dal vivo si è trovato impreparato, ma è anche senza un piano per affrontare non solo l’emergenza del momento ma soprattutto l’azione di ricostruzione. Tutt’al più spera di ripartire al più presto e questa è solo l’idea con meno conseguenze dannose.

La stasi obbligatoria a cui tutti siamo stati costretti poteva far pensare a un momento di riflessione e di dialogo costruttivo per cercare di risolvere i problemi che erano già presenti, per tentare di emendare gli errori e le aberrazioni esistenti del sistema produttivo-distributivo, invece si è assistito a risposte per lo più frettolose, dettate dall’emozione quando non a dolorosi silenzi. Da una parte dunque il ricorso da parte di molti artisti, così come di molti enti, dello streaming, ora abbracciato anche dal Ministro Franceschini, e che pone molte questioni a un’arte come il teatro che nasce in Occidente con agorà. Di questo non parleremo in questa sede in quanto il discorso che vogliamo fare è di altra natura, anzi semmai è la dimostrazione dell’infiltrazione di un pensiero che tende a considerare la cultura niente più che un prodotto di consumo al pari di un detersivo. Dall’altra un ricalendarizzazione degli appuntamenti e dei festival come se questo tempo che ci è imposto non esistesse e tutti non si aspettasse altro che riprendere da dove eravamo rimasti. Tutto questo dimenticandosi che la crisi del comparto non è nata con il coronavirus ma era persistente da anni, e che il presente lockdown ha semplicemente fatto esplodere.

Da lungo tempo i continui tagli alla cultura, l’incertezza sui pagamenti delle istituzioni, la colonizzazione da parte dell’economia degli obbiettivi propri dell’arte, la precarietà del lavoro (quando è riconosciuto), e l’incapacità degli artisti come degli operatori di sentirsi parte di un unico sistema (per difendersi si necessitava di posizioni unitarie e come dice Fredric Jameson :«una cultura veramente nuova potrebbe venire alla luce soltanto attraverso la lotta collettiva per la creazione di un nuovo sistema sociale»), da tempo tutto questo incide sulla capacità del sistema teatro di rinnovarsi veramente, di costruire e implementare strumenti veramente utili agli artisti, veri protagonisti insieme al pubblico, di tutti i nostri discorsi e senza i quali nessun sistema teatro sarebbe possibile.

Questa crisi quindi da dove deriva? Da mancanza di idee degli artisti, dalla loro incapacità di rispondere alle sfide del Ventunesimo secolo? Oppure sono venute meno alcune condizioni a partire dal sistema educativo, per passare alla produzione, distribuzione e promozione? Non sarà che lo spettacolo dal vivo è malato perché le condizioni economiche imposte dal neocapitalismo sono difficilmente compatibili con un’attività che prevede: incertezza, fallimento, mettersi in dubbio, ricercare l’incerto e l’improbabile e tempi di produzioni lunghi e riflessivi?

Partiamo dagli obiettivi del capitale: per accrescersi deve potersi accumulare e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito, ma vi sono a volte degli ostacoli che possono provocare delle crisi. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta la conseguenza che i mezzi spesso siano inadeguati al progetto, così come le tecnologie applicabili e infine per un’efficiente organizzazione del lavoro si dovrebbe assumere e coinvolgere altre figure professionali le quali per lo più non possono per mancanza di fondi essere chiamate a collaborare. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti abbiamo sul mercato un’iperproduzione che porta più prodotti di quanti se ne possano consumare. All’artista si chiede di produrre almeno un’opera all’anno imponendogli inoltre la necessità di un risultato certo. Conseguenza: troppe opere da smaltire e in più l’artista, per soddisfare in maniera certa il pubblico e gli operatori, è indotto a ricercare la via facile e consueta ripercorrendo stilemi già accolti, sentiero che ha la controindicazione di annoiare e non rispondere veramente alle mutate esigenze.

In conclusione: eravamo malati ben prima del conclamarsi del coronavirus.

David Harvey

Il teatro si configura come una non-economia che chissà per quale motivo il capitale vuole sia gestito e trattato come un’azienda nonostante non abbia minimamente gli stessi scopi; una non-economia le cui maggiori immissioni di capitale sono elargite da benefattori e solo in parte dal pubblico. Tali “mecenati” pubblici e privati, essendo dei donatori volontari, impongono delle regole a chi vuole ottenerli e i loro scopi spesso divergono da quelli dell’arte e forse sono proprio questi obiettivi che oggi ci hanno condotto a una impasse.

Marc Fisher nei suoi scritti sostiene che una delle caratteristiche principali della nostra cultura è quella di essere affetta da hauntologia, dal verbo inglese To Haunt che indica sia l’abitare che l’essere infestati da fantasmi. Con il termine “rubato” a Derrida il filosofo e critico inglese, intende uno stato emotivo sospeso tra il “non più” e il “non ancora”, uno spazio abitato da fantasmi in cui per lo più si è incapaci di immaginare un futuro. Causa principale di questo sentimento o disposizione d’animo è per Fisher appunto il neocapitalismo. In questo passo spiega bene perché: «i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all’impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l’eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo». Questa necessità di immediato riscontro delle proprie azioni a cui segue il conseguente pensiero per cui il fallimento non è proprio contemplato, prevede che la maggior parte dei cosiddetti successi sia in gran parte solo sulla carta e non incida minimamente sulla realtà delle cose (spesso per esperimento chiedo a colleghi e addetti ai lavori chi abbia vinto il Premio Ubu di due o tre anni fa e raramente ottengo una risposta corretta…). Questa tendenza Fisher la chiama Stalinismo di mercato ossia: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno appunto che durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

Marc Fisher

Il problema è che gli obiettivi dell’arte dovrebbero essere lasciati nelle pertinenze di artisti e direttori artistici, in quanto unici e veri competenti nelle questioni che riguardano il proprio ambito, e invece vengono abbandonate nelle mani della politica e, cosa ancor più perniciosa, degli economisti della cultura. Da qualche anno laddove la politica con il suo sistema assistenziale che non premia i migliori progetti ma la sussistenza di un comparto, è venuta meno a causa delle continue crisi economiche (in Italia il 2011 è stato per esempio un anno orribile), il posto è stato preso dalle fondazioni bancarie, salutate dai più come i veri salvatori della patria. Per usare le parole di Alain Badiou :«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». Peccato che, sempre per stare alle parole del filosofo francese, questi signori non sono stati in grado di prevedere i disastri causati, limitandosi a constatarli soltanto in seguito, come chiunque altro.

Alain Badiou

Trattare l’arte come un’azienda, caricarla di obbiettivi quali l’incremento infinito del pubblico come fosse il PIL, vessarla di continui questionari e autovalutazioni assolutamente inutili, è la risposta ai problemi del teatro? Certo nei decenni addietro il teatro non era stato in grado di concepire soluzioni alle male gestioni, al suo proprio sostentamento, a un rapporto solidale e costruttivo con un nuovo pubblico (pensiamo all’ossessione dell’abbonato di cui già parlava Carmelo Bene) ma adottare i metodi del neoliberismo non sembra aver migliorato la situazione. Anzi si osservano sempre più eventi e spettacoli cloni rispondenti più ai parametri e agli algoritmi che ai desideri di chi li realizza e di chi li fruisce. Sempre più spesso si partecipa a festival che si distinguono solo per il luogo in cui si svolgono e per lo spirito con cui vengono gestiti che per i contenuti o per le modalità. E così pure gli spettacoli vengono ad assomigliarsi per argomento o per tipo di interazione a seconda dei parametri scelti dai finanziatori politico-economici senza considerare i reali bisogni di pubblico e artisti. Con bisogni del pubblico non intendo parlare di gusti ma proprio di temi non risolti i quali affliggono una comunità o società. Se fosse solo una questione di gusti basterebbe far scegliere agli spettatori consegnandogli le chiavi della direzione artistica (e in qualche caso qualcuno ci è arrivato vicino).

Per altro il considerare il teatro un azienda dovrebbe almeno comportare che la filiera produttiva distributiva venga implementata secondo metodi capitalisti in modo che l’investitore possa guadagnare e reinvestire. E questo si sa è cosa praticamente impossibile. Nessuno sano di mente pensa di guadagnare un surplus da reinvestire rispetto a quanto speso per la produzione. E questo dai teatri stabili alla piccola compagnia indipendente. Inoltre in qualsiasi azienda il settore ricerca e sviluppo sarebbe uno dei più cruciali invece nel teatro (e con teatro intendo anche la danza o le performing arts) la ricerca è quasi un di più, qualcosa da fare in residenze creative dislocate nel tempo e nello spazio quando ci sarebbe bisogno di continuità e in molti casi autofinanziate dall’artista stesso con la speranza che questo comporti un inserimento nella programmazione.

Tutto questo, in questa sede semplicemente accennato e non approfondito come dovrebbe, evidenzia come l’aver adottato supinamente i metodi del neocapitalismo non abbia in alcun modo migliorato la qualità delle opere e la situazione lavorativa degli artisti per cui sorge spontanea la domanda: perché tutta questa smania di tornare a come era prima? Perché non approfittare della situazione per chiedere alle istituzioni di cambiare marcia e concordare nuove strategie che comprendano i reali bisogni degli artisti? Perché non pensare insieme a soluzioni alternative che siano veramente di condivisione con il pubblico senza cercare risultati facilmente ottenibili nell’istante ma piuttosto attraverso procedure di lungo periodo? E queste famose reti di cui tutti parlano, perché non farle diventare un luogo di co-creazione invece di una forma mascherata di concorrenza gentile (i tanto sbandierati concetti di rete e collaborazione nella ricalendarizzazione sono sfumati totalmente in una totale sovrapposizione per l’autunno facendo i conti senza l’oste, ossia con il legislatore che pare invece orientato a riparlarne per la fine dell’anno)?

A questo punto del discorso mi vengono in mente due scene tratte da due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. Ci siamo abituati a questo pensiero il quale impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Dall’altra ci siamo abituati alla bistecca che ci veniva elargita. Benché diventasse sempre più esigua, servita fredda e in ritardo ci siamo lasciati convincere che fosse succosa e succulenta seppur insufficiente.

Questo è il momento del coraggio. Dobbiamo scuoterci, prendere la pillola rossa e essere magari pronti a una terribile realtà, ma non ritrarre lo sguardo da una verità: quanto c’era prima era solo un lenta agonia di un sistema incapace di reale rinnovamento e colonizzato da pensieri non propri. Come dice Mark Fisher: «Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono: e non perché in loro il desiderio c’è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio».

Milo Rau
Milo Rau

Solo nel prendere coscienza delle nostre reali competenze e delle funzioni proprie del teatro potremo inventare formule nuove e necessarie per noi e per la società o comunità che abitiamo. Smettiamola di parlare di pubblico o di spettatore, cerchiamo il contatto con chi come noi ha vissuto una storia e condividiamo il momento del racconto. Cerchiamo come suggerito dal Gent Manifesto di Milo Rau di far comprendere la necessità di una nuova filiera produttiva che integri creazione, produzione, distribuzione e che renda il teatro un luogo di condivisione vera, un luogo in cui si possa ricostruire l’agorà, dove le persone possano rielaborare le crisi, trovare soluzioni condivise, ed essere veramente una polis. Se non saremo pronti a cambiare non potrà che avvenire quanto ritratto da Laurens Bancroft, il Mat miliardario di Altered Carbon di Richard K. Morgan: «I giovani di spirito, gli avventurosi, sono partiti a stormi sulle astronavi. Sono stati incoraggiati ad andarsene. Sono rimasti i flemmatici, gli obbedienti, i limitati. L’ho visto accadere, e all’epoca ne sono stato felice perché rendeva molto più facile creare un impero. Adesso mi chiedo se sia valsa la pena pagare quel prezzo. La cultura è ricaduta su se stessa, si è aggrappata alle norme per tenersi in vita, ha optato per il vecchio e il familiare».

Letture consigliate:

David Quammen, Spillover, Adelphi, Milano, 2014
Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018
Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019
Mark Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018
Richard K. Morgan, Altered Carbon, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Angeli spezzati, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Il ritorno delle furie, TEA Libri, Milano, 2018
Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2016
David Harvey, L’enigma del capitale: e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011
Fredric Jameson, Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, Fazi Editore, Roma, 2007
Jean Baudrillard, La scomparsa della realtà: antologia di scritti (comunicazione sociale e politica), Fausto Lupetti Editore, Milano, 2009

Cantiere Ibsen

Il CANTIERE IBSEN DE IL MULINO DI AMLETO

Abitiamo un momento in cui sembra apparentemente scomparso il dibattito intorno al senso e alla sostanza della ricerca teatrale. Anzi sembra sia diventato snob oltreché un po’ vintage portare l’accento su una parola che richiama, chissà perché, un certo tecnicismo elitario. Eppure in qualsiasi altro settore delle umane attività la ricerca è il fulcro di ogni avanzamento e miglioramento dello status quo. Data questa contraddizione pare giusto e doveroso raccontare il progetto proposto da Il Mulino di Amleto avviato a partire da un bisogno impellente: ritagliare del tempo da dedicare proprio alla pratica di riflessione sull’arte del teatro, la sue funzioni e i suoi obiettivi.

Cantiere Ibsen #artneedstime è il nome di quella che potremmo chiamare una bottega teatrale richiamando fin da subito alla mente del lettore un’idea di artigianato specializzato in cui non solo si lavora alla ricerca di una pratica sempre più rispondente ai bisogni e alle necessità di chi agisce e di chi osserva, ma si combatte altresì per ritagliare un tempo non volto all’utile produttivo dell’immediato, ma piuttosto un tempo espanso che volge il suo sguardo a un futuro da immaginare e costruire.

Il Cantiere si sostanzia in cinque sessioni (di cui quattro svolte e la quinta in programma dal 30 marzo al 9 aprile) il cui scopo è avviare un percorso di ricerca, di studio, pratica e riflessione, svincolato da necessità di messa in scena. Il pensiero a sostegno del progetto possiede per questo una forte valenza politica laddove il mondo teatrale italiano, per le avverse condizioni economiche in cui versa, negli ultimi tempi a causa dell’emergenza sanitaria ulteriormente peggiorato, dedica sempre meno tempo allo sviluppo di idee rischiose, azzardate, coraggiose, idee che necessiterebbero di un periodo di lavorazione più lungo e accidentato, con la conseguenza di abbracciare percorsi dal sicuro risultato. Riconquistare una zona franca di semplice studio, senza l’angoscia impellente di mettere in opera un nuovo lavoro rispondente più alle attuali circostanze distributive e produttive del sistema che a quelle dell’artista e del suo bisogno di interrogarsi su una realtà sempre più sfuggente, diventa dunque un atto di resistenza, un contrapporsi alla marea insorgente che spinge a confezionare a tutti costi un prodotto volto alla mera sopravvivenza senza troppo domandarsi se quest’ultimo sia una vera necessità per chi lo fa e per chi lo fruisce.

Cantiere Ibsen

Prendersi del tempo, sospendere l’affanno da catena di montaggio è un atto semplice, lieve, quasi ingenuo ma con una forte carica di dolce ribellione alla costringente modalità economica in cui l’arte è null’altro che l’ennesima merce da inserire in un mercato peraltro asfittico. Quella che Mark Fischer chiama ontologia imprenditoriale, per la quale “è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione andrebbe gestito come un’azienda”, uno “stalinismo di mercato” che non prevede in alcun modo il fallimento può portare solo al reiterarsi del già visto, di ciò che sicuro incontra il gradimento e “agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” tanto da far sorgere spontanea la domanda: “senza il nuovo quanto può durare una cultura?”. Il Cantiere prova a porsi in un campo laterale, fuori dal percorso di mercato, mappando un’isola dove sperimentare nuovi sentieri senza preoccuparsi di giungere immediatamente a un risultato positivo.

Certo si potrebbe sospettare che tutto questo sia un richiudersi nella torre eburnea della ricerca per se stessa, un esempio di edonismo elitista. Benché il pericolo sia reale viene evitato dalla partecipazione di osservatori che rendono in qualche modo pubblico il laboratorio. Non parlo solo di critici, benché essi siano la maggior parte, ma anche spettatori affezionati e artisti. Inoltre Il Mulino di Amleto ha anche inaugurato un blog con video ed interventi al fine di dischiudere un dialogo, un confronto su quanto si sta facendo. Quello a cui si partecipa è dunque un campo aperto di discussione, di rimappatura degli spazi e dei modi, di riappropriazione del pensiero in azione.

Alla parola Cantiere si affianca il nome di Henrik Ibsen a indicare una base, un terreno su cui dissodare e coltivare per evitare la dispersione in uno spazio di vuoto siderale. Ci si applica a Ibsen, lo si smonta e rimonta, lo si rivolta come un calzino esercitandosi a sperimentare tecniche e pensieri creativi nei confronti di una materia ricca e potente. Per sottrarsi al rischio sempre presente di riprodurre il già visto, Il Mulino di Amleto propone ai partecipanti di mettere in relazione i testi proposti (Gli spettri nella terza sessione e Un nemico del popolo nell’ultima di febbraio peraltro bruscamente interrotta dalle ordinanze di salute pubblica) con le pratiche proposte da due manifesti: quello di Dogma95 del circolo di registi cinematografici legati a Lars Von Trier, e il Manifesto di Gent di Milo Rau. Il confronto con Ibsen diventa dunque un’interrogazione e un confronto con il canone, con il passato. Come ci si relaziona con il repertorio? Con quali tecniche lo si rapporta con il contemporaneo? Attraverso queste modalità di approccio Ibsen viene analizzato, smontato, ricomposto, riscritto e sempre trasversalmente con tali materiali si prova a creare dei dispositivi di racconto e di rapporto con un pubblico.

A ciascun partecipante (gli attori in questa sessione erano una ventina più, come detto, alcuni osservatori particolari), oltre alla lettura dei manifesti, è stato consegnato un vademecum di compiti da eseguire prima dell’inizio del periodo laboratoriale: visionare alcuni film proposti dal critico Mario Bianchi (Scarpette rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger e Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer) in qualche modo relativi al testo ibseniano, preparare una playlist personale di brani, selezionare una favola che in qualche modo potesse risuonare con la drammaturgia in oggetto. Le favole, così come i manifesti, rappresentano una modalità di approccio al tema ibseniano. Per esempio, tra le varie proposte, spiccano I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, dove il rapporto tra verità e gerarchia è centrale quanto ciò che avviene ne Il nemico del popolo, e Il pifferaio magico dei fratelli Grimm, dove il protagonista opera per il bene della città, ma quando non viene pagato dal borgomastro, si ribella e rapisce i giovani della città, trama che ben si adatta all’atteggiamento del dottor Stockmann rispetto al fratello sindaco. Tutti i materiali proposti sono dunque strumenti con cui sezionare, analizzare e osservare il testo di Ibsen da molteplici e insoliti punti di vista.

Veniamo ora a un’analisi delle pratiche e tecniche di lavoro, compito quanto mai arduo per il rischio di limitarsi a enumerare esercizi e prassi che nella semplice enumerazione diventano aridi come deserti. Manca la vita e lo spirito che li abita, la gioia di dimorarvi, la fatica di attraversarli. Eppure in qualche modo bisogna tradurli in parole affinché diventino un documento di un agire scenico. Proviamoci.

Cantiere Ibsen
Cantiere Ibsen

La giornata inizia solitamente con un training fisico molto serrato volto a ridefinire e rimodellare il rapporto tra movimento, spazio e ritmo da una parte, e ad aumentare le possibilità espressive e di movimento del corpo dell’attore dall’altra. In genere, a partire dalla seconda giornata, questo lavoro fisico preparatorio viene preceduto da un tempo di studio in cui i vari gruppi preparano diverse proposte sceniche da mostrare.

Il pomeriggio prende avvio da una serie di giochi dai molteplici scopi: acquisire un ritmo e un respiro di gruppo, sperimentare dinamiche di cooperazione, di invenzione e risposta alla sollecitazione imprevista, sviluppare un ascolto attivo incentrato sull’altro fuori da sé, stimolare il piacere e il divertimento nel lavoro attorico.

Questo serissimo ma piacevolissimo momento ludico precedeva un lavoro più propriamente scenico costituito da diversi percorsi: improvvisazioni a quattro in cui si sperimentava la manifestazione di gerarchie segrete e prestabilite all’interno di situazioni date; un’analisi di alcune scene proposte sia attraverso una tradizionale lettura e discussione, sia attraverso il metodo degli etudes sperimentati da Vasiliev e Korsunovas seppur con varianti studiate ad hoc. Questi ultimi potremmo definirli dei metodi per far sì che il verbo diventi carne. Una pratica che a partire dall’individuazione di uno snodo centrale e dalla comprensione delle circostanze precedenti, produce, attraverso delle improvvisazioni, delle vere e proprie analisi corporee delle scene. A concludere la giornata si procedeva alla presentazione di piccoli pezzi sia riferiti alle favole preparatorie, sia a singoli dialoghi a due estrapolati dal testo, sia degli studi di possibili realizzazioni del quarto atto in cui avviene il discorso del dottor Stockmann davanti all’assemblea generale.

Un elemento importante da sottolineare è il clima di tensione rilassata con cui avveniva tutto il processo di lavoro. Senza il pungolo assillante del risultato a tutti i costi, tutti i partecipanti si sono permessi di rischiare ibridazioni impreviste tra il materiale ibseniano, gli stimoli provenienti dai manifesti e le favole. Durante le giornate di laboratorio si sono viste nascere generazioni equivoche, forme instabili frutto di amori a prima vista illeciti. Si sono percorsi sentieri impervi a cavallo tra reale e immaginario dove si poteva giocare con il testo innestandolo di sollecitazioni dal contesto socio-politico-economico attuale. E tutto questo fa pensare che se si restituisse al teatro una creazione con una dimensione temporale di lavoro più ampia, si aprirebbero molte più possibilità di ammirare sui nostri palcoscenici delle opere più vive e impreviste, pronte a stimolare in noi la ricerca verso ciò che non abbiamo e ci manca, piuttosto che ritrovare ciò che già ha soddisfatto il nostro palato in passato.

Restituire dinamiche creative di più ampio respiro è una necessità. Senza la possibilità di rischiare si implode necessariamente verso il rimasticamento di forme già viste. Per riprendere il già citato Mark Fisher: “le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato e il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che son pronti ad assumersi un certo rischio”.

Per questo occorre quanto prima creare le condizioni. È necessario uscire dalla logica in cui ci si limita a sbandierare rassegne stampa e dati di affluenza senza riflettere sulla concretezza dei risultati effettivamente raggiunti. Bisogna tornare a respirare il senso del rischio proprio di ogni impresa incerta. Il Mulino di Amleto ha provato e prova nel suo piccolo a dare un segnale in questo senso. Si è assunto l’onere della responsabilità. Ora tocca a tutti noi far sì che questo spazio e questo tempo riconquistati all’immaginazione libera non inaridiscano.

Indirizzo del blog dedicato al Cantiere Ibsen

Quasi niente

QUASI NIENTE: di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

L’ultimo lavoro nato da un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Quasi niente, a due mesi dal debutto ufficiale al FIT di Lugano e dopo la tappa romana, è approdato in Emilia, lasciando i territori dei festival per arrivare dritto nei cartelloni di stagione.

Quasi niente. Un titolo che è pasto pronto per i critici, come sorridendo confessa la stessa Daria Deflorian al termine della permanenza modenese presso il Teatro delle Passioni, ma anche un titolo che è arrivato in corso d’opera, man mano che il lavoro prendeva forma. Inizialmente, l’idea era di mantenere una linea di continuità con la pellicola che è stata il punto di avvio tematico proprio attraverso il titolo: dunque, mantenere Il deserto rosso, dal primo lavoro a colori di Michelangelo Antonioni, del ’64. Ma poi la scelta si è volta altrove, ed è arrivato Quasi niente.

Un titolo a cui la compagnia si dice ora affezionata, e che è una poesia. Mantenere quello originale sarebbe stato comunque quanto meno improprio: avrebbe coinciso con un piccolo tradimento del progetto stesso, colto nel suo delicato processo di crescita ed evoluzione. Delicato, in quanto Quasi niente è uno spettacolo destinato a una crescita continua, così come in verità ogni spettacolo, che replica dopo replica vive delle nuove scoperte che porta alla luce; il che fa sì ogni sera lo si debba avvicinare come una nuova vita, mai identica alla precedente. Ma delicato anche perché già nei suoi primi passi, questo è uno di quei lavori che trasmette, e lascia, una sensazione di sussurro. La stessa atmosfera d’intimità dei segreti bisbigliati all’orecchio, assieme a un senso di calore e vicinanza, dimensione che non è mai estranea dai lavori della compagnia, e che contribuisce ogni volta a rendere i loro spettacoli una esperienza di pura e umana intensità.

Da Antonioni si parte per poi scavare ancora più in profondità, e andare avanti. Non ci poteva essere un incontro migliore: la dimensione del paesaggio come fattore determinante nel racconto del disagio del mondo. Assioma cardine nella poetica del regista ferrarese è il concetto che trasla dalla celluloide alla viva scena, vi si incorpora e trova il suo spazio in un nuovo paesaggio all’interno del teatro, un nuovo ambiente che si mantiene sempre povero ed essenziale. È Gianni Staropoli a mettere ancora una volta la sua firma a questo “ambiente”, ed è a lui che si deve la felice intuizione del tulle nero, posto come linea divisoria fra il fondale e il proscenio, in una evocazione ideale della nebbia della particolarissima Ravenna di Antonioni. Dietro a questo velo sottile comincia l’azione. In fondo anche nel film è proprio da quella nebbia irreale che possono apparire all’improvviso delle grosse navi, che a volte sembrano come galleggiare sopra agli alberi della pianura.

Invece sulla scena tutto è disposto a che quello squarcio sia continuo, una crepa nel tessuto della realtà da cui poi si aprono altre fenditure, l’una innestata sull’altra. Daria Deflorian, Monica Piseddu, Francesca Cuttica, Antonio Tagliarini e Benno Steinegger ne raccontano molte, di queste zone di frattura. Lo fanno nei panni di una Giuliana (la protagonista interpretata nel film da Monica Vitti) scissa in tre differenti età, la giovane quasi trentenne, la matura quarantenne, la quasi sessantenne, che si alternano fluidamente con i “poveri uomini” del film, il marito Ugo e l’amico Corrado, anche se in definitiva sembra che la questione sull’attribuzione di ruoli fissi, specie se associati ai loro modelli cinematografici sia in tutto e per tutto una questione di secondaria importanza, se non nulla. A dirla tutta, a raccontare di quel confine così poroso e così vivo fra un interno che non riesce più a trovare un corrispettivo esterno, se non in un concetto di pura vita, ci sono anche i pochi ed essenziali oggetti. Una poltrona rossa, un cassettone, un armadio senza ante.

In tutti gli spettacoli firmati dalla compagnia romana quello che interessa, che intriga e che rende questo genere di teatro così vivo, sta tutto nella dimensione umana. Questa riguarda tanto la scena quanto il tipo di sguardo che da questa si può gettare sulla realtà, e in questo si trasforma in un discorso eminentemente politico. Quasi niente è il racconto di un confine, della paura, dell’ansia, della tensione alla vita. Si parla di quel dolore dalle dimensioni più vivaci e tridimensionali. Se da un lato si prosegue il cammino di Antonioni, dall’altro viene man mano emergendo un paesaggio davvero vicino e riconoscibile nella sua semplicità quotidiana, affrontato con disarmante sincerità: quello dell’uomo che paga qualcuno che porterà sua figlia a scuola mentre lui sta lavorando, quello degli incontri occasionali in cui anche condividere l’intimità del letto diventa troppo, della visita al dentista dove ci si raccomanda di non digrignare i denti la notte, ma come si può se stringere i denti è l’unico modo per affrontare poi il pensiero del risveglio, alla mattina? Dei pasti che si consumano da soli, e ancora con l’ultimo fusillo in bocca si sta già lavando il piatto. Delle insonnie e delle voci che poi non usciranno fuori al mattino. Del dire “non ce la faccio”, che è già un atto di coraggio. Si parla di affetti. E di quel tanto che è niente, di cui non si parla o si parla troppo poco o che comunque si cerca di allontanare paghi di una continua corsa al benessere che però può finire, proprio come nel deserto rosso, per trasformare le persone che circondano Giuliana in personaggi di plastica, senza risposte all’interrogativo sul che cosa sia il reale. Con Quasi niente è questo tipo di umano fragile che viene messo in campo, in un modo drammaturgicamente quanto visivamente efficace, grazie alla luce cromaticamente cangiante che irradia dal tulle tutta la scena circostante.

La compagnia accetta e fa entrare anche tutta una serie di rimandi, di citazioni, non da ultima l’eredità del filosofo Mark Fisher, un altro “buono a nulla”, che come pochi altri ha negli ultimi anni denunciato il nodo che esiste fra “il male oscuro”, la depressione, ad oggi la malattia maggiormente diagnosticata nel mondo “civilizzato”, e la situazione socioeconomica che ci circonda, e che nella sua distinzione fra realtà e reale ha riaperto una questione fondamentale. E se. come la stessa Daria Deflorian ha sottolineato, questo non è certo un teatro d’attualità, ciò non toglie che le persone coinvolte sulla scena, loro sì, siano “attuali”, presenti.

Non è certo la teoria che dà sostanza a Quasi niente, in nessun caso sulla scena questo sarebbe possibile: piuttosto, le conferisce il grado di onestà nello stare sulla scena, la precisione geometrica e sempre incantevole con cui si attraversa, taglia, abita e ricompone lo spazio, la grazia dei silenzi e delle pause, il respiro dato da uno spazio scenico che si apre per diventare quasi circolare e in cui il pubblico si sente avvolto, coinvolto. Nella scelta di farsi incantare da una musica e una voce improvvisi, che funzionano come una nuova piccola crepa che si incastra sul resto, e che porta a girare i mobili, a farli vorticare nello spazio, fino a ruotare tutta la stanza, per proporre e assumere sempre nuove visioni, sempre ribaltabili e possibili. Nel calore della creazione di un nuovo spazio. E anche in un certo gusto ironico, che alla fine del gioco non viene mai meno: “quanto sarebbe stato meglio, no, uno spettacolo normale, con una trama che puoi seguire?”.

Di Maria D’Ugo