Abitiamo un momento in cui sembra apparentemente scomparso il dibattito intorno al senso e alla sostanza della ricerca teatrale. Anzi sembra sia diventato snob oltreché un po’ vintage portare l’accento su una parola che richiama, chissà perché, un certo tecnicismo elitario. Eppure in qualsiasi altro settore delle umane attività la ricerca è il fulcro di ogni avanzamento e miglioramento dello status quo. Data questa contraddizione pare giusto e doveroso raccontare il progetto proposto da Il Mulino di Amleto avviato a partire da un bisogno impellente: ritagliare del tempo da dedicare proprio alla pratica di riflessione sull’arte del teatro, la sue funzioni e i suoi obiettivi.
Cantiere Ibsen #artneedstime è il nome di quella che potremmo chiamare una bottega teatrale richiamando fin da subito alla mente del lettore un’idea di artigianato specializzato in cui non solo si lavora alla ricerca di una pratica sempre più rispondente ai bisogni e alle necessità di chi agisce e di chi osserva, ma si combatte altresì per ritagliare un tempo non volto all’utile produttivo dell’immediato, ma piuttosto un tempo espanso che volge il suo sguardo a un futuro da immaginare e costruire.
Il Cantiere si sostanzia in cinque sessioni (di cui quattro svolte e la quinta in programma dal 30 marzo al 9 aprile) il cui scopo è avviare un percorso di ricerca, di studio, pratica e riflessione, svincolato da necessità di messa in scena. Il pensiero a sostegno del progetto possiede per questo una forte valenza politica laddove il mondo teatrale italiano, per le avverse condizioni economiche in cui versa, negli ultimi tempi a causa dell’emergenza sanitaria ulteriormente peggiorato, dedica sempre meno tempo allo sviluppo di idee rischiose, azzardate, coraggiose, idee che necessiterebbero di un periodo di lavorazione più lungo e accidentato, con la conseguenza di abbracciare percorsi dal sicuro risultato. Riconquistare una zona franca di semplice studio, senza l’angoscia impellente di mettere in opera un nuovo lavoro rispondente più alle attuali circostanze distributive e produttive del sistema che a quelle dell’artista e del suo bisogno di interrogarsi su una realtà sempre più sfuggente, diventa dunque un atto di resistenza, un contrapporsi alla marea insorgente che spinge a confezionare a tutti costi un prodotto volto alla mera sopravvivenza senza troppo domandarsi se quest’ultimo sia una vera necessità per chi lo fa e per chi lo fruisce.
Prendersi del tempo, sospendere l’affanno da catena di montaggio è un atto semplice, lieve, quasi ingenuo ma con una forte carica di dolce ribellione alla costringente modalità economica in cui l’arte è null’altro che l’ennesima merce da inserire in un mercato peraltro asfittico. Quella che Mark Fischer chiama ontologia imprenditoriale, per la quale “è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione andrebbe gestito come un’azienda”, uno “stalinismo di mercato” che non prevede in alcun modo il fallimento può portare solo al reiterarsi del già visto, di ciò che sicuro incontra il gradimento e “agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” tanto da far sorgere spontanea la domanda: “senza il nuovo quanto può durare una cultura?”. Il Cantiere prova a porsi in un campo laterale, fuori dal percorso di mercato, mappando un’isola dove sperimentare nuovi sentieri senza preoccuparsi di giungere immediatamente a un risultato positivo.
Certo si potrebbe sospettare che tutto questo sia un richiudersi nella torre eburnea della ricerca per se stessa, un esempio di edonismo elitista. Benché il pericolo sia reale viene evitato dalla partecipazione di osservatori che rendono in qualche modo pubblico il laboratorio. Non parlo solo di critici, benché essi siano la maggior parte, ma anche spettatori affezionati e artisti. Inoltre Il Mulino di Amleto ha anche inaugurato un blog con video ed interventi al fine di dischiudere un dialogo, un confronto su quanto si sta facendo. Quello a cui si partecipa è dunque un campo aperto di discussione, di rimappatura degli spazi e dei modi, di riappropriazione del pensiero in azione.
Alla parola Cantiere si affianca il nome di Henrik Ibsen a indicare una base, un terreno su cui dissodare e coltivare per evitare la dispersione in uno spazio di vuoto siderale. Ci si applica a Ibsen, lo si smonta e rimonta, lo si rivolta come un calzino esercitandosi a sperimentare tecniche e pensieri creativi nei confronti di una materia ricca e potente. Per sottrarsi al rischio sempre presente di riprodurre il già visto, Il Mulino di Amleto propone ai partecipanti di mettere in relazione i testi proposti (Gli spettri nella terza sessione e Un nemico del popolo nell’ultima di febbraio peraltro bruscamente interrotta dalle ordinanze di salute pubblica) con le pratiche proposte da due manifesti: quello di Dogma95 del circolo di registi cinematografici legati a Lars Von Trier, e il Manifesto di Gent di Milo Rau. Il confronto con Ibsen diventa dunque un’interrogazione e un confronto con il canone, con il passato. Come ci si relaziona con il repertorio? Con quali tecniche lo si rapporta con il contemporaneo? Attraverso queste modalità di approccio Ibsen viene analizzato, smontato, ricomposto, riscritto e sempre trasversalmente con tali materiali si prova a creare dei dispositivi di racconto e di rapporto con un pubblico.
A ciascun partecipante (gli attori in questa sessione erano una ventina più, come detto, alcuni osservatori particolari), oltre alla lettura dei manifesti, è stato consegnato un vademecum di compiti da eseguire prima dell’inizio del periodo laboratoriale: visionare alcuni film proposti dal critico Mario Bianchi (Scarpette rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger e Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer) in qualche modo relativi al testo ibseniano, preparare una playlist personale di brani, selezionare una favola che in qualche modo potesse risuonare con la drammaturgia in oggetto. Le favole, così come i manifesti, rappresentano una modalità di approccio al tema ibseniano. Per esempio, tra le varie proposte, spiccano I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, dove il rapporto tra verità e gerarchia è centrale quanto ciò che avviene ne Il nemico del popolo, e Il pifferaio magico dei fratelli Grimm, dove il protagonista opera per il bene della città, ma quando non viene pagato dal borgomastro, si ribella e rapisce i giovani della città, trama che ben si adatta all’atteggiamento del dottor Stockmann rispetto al fratello sindaco. Tutti i materiali proposti sono dunque strumenti con cui sezionare, analizzare e osservare il testo di Ibsen da molteplici e insoliti punti di vista.
Veniamo ora a un’analisi delle pratiche e tecniche di lavoro, compito quanto mai arduo per il rischio di limitarsi a enumerare esercizi e prassi che nella semplice enumerazione diventano aridi come deserti. Manca la vita e lo spirito che li abita, la gioia di dimorarvi, la fatica di attraversarli. Eppure in qualche modo bisogna tradurli in parole affinché diventino un documento di un agire scenico. Proviamoci.
La giornata inizia solitamente con un training fisico molto serrato volto a ridefinire e rimodellare il rapporto tra movimento, spazio e ritmo da una parte, e ad aumentare le possibilità espressive e di movimento del corpo dell’attore dall’altra. In genere, a partire dalla seconda giornata, questo lavoro fisico preparatorio viene preceduto da un tempo di studio in cui i vari gruppi preparano diverse proposte sceniche da mostrare.
Il pomeriggio prende avvio da una serie di giochi dai molteplici scopi: acquisire un ritmo e un respiro di gruppo, sperimentare dinamiche di cooperazione, di invenzione e risposta alla sollecitazione imprevista, sviluppare un ascolto attivo incentrato sull’altro fuori da sé, stimolare il piacere e il divertimento nel lavoro attorico.
Questo serissimo ma piacevolissimo momento ludico precedeva un lavoro più propriamente scenico costituito da diversi percorsi: improvvisazioni a quattro in cui si sperimentava la manifestazione di gerarchie segrete e prestabilite all’interno di situazioni date; un’analisi di alcune scene proposte sia attraverso una tradizionale lettura e discussione, sia attraverso il metodo degli etudes sperimentati da Vasiliev e Korsunovas seppur con varianti studiate ad hoc. Questi ultimi potremmo definirli dei metodi per far sì che il verbo diventi carne. Una pratica che a partire dall’individuazione di uno snodo centrale e dalla comprensione delle circostanze precedenti, produce, attraverso delle improvvisazioni, delle vere e proprie analisi corporee delle scene. A concludere la giornata si procedeva alla presentazione di piccoli pezzi sia riferiti alle favole preparatorie, sia a singoli dialoghi a due estrapolati dal testo, sia degli studi di possibili realizzazioni del quarto atto in cui avviene il discorso del dottor Stockmann davanti all’assemblea generale.
Un elemento importante da sottolineare è il clima di tensione rilassata con cui avveniva tutto il processo di lavoro. Senza il pungolo assillante del risultato a tutti i costi, tutti i partecipanti si sono permessi di rischiare ibridazioni impreviste tra il materiale ibseniano, gli stimoli provenienti dai manifesti e le favole. Durante le giornate di laboratorio si sono viste nascere generazioni equivoche, forme instabili frutto di amori a prima vista illeciti. Si sono percorsi sentieri impervi a cavallo tra reale e immaginario dove si poteva giocare con il testo innestandolo di sollecitazioni dal contesto socio-politico-economico attuale. E tutto questo fa pensare che se si restituisse al teatro una creazione con una dimensione temporale di lavoro più ampia, si aprirebbero molte più possibilità di ammirare sui nostri palcoscenici delle opere più vive e impreviste, pronte a stimolare in noi la ricerca verso ciò che non abbiamo e ci manca, piuttosto che ritrovare ciò che già ha soddisfatto il nostro palato in passato.
Restituire dinamiche creative di più ampio respiro è una necessità. Senza la possibilità di rischiare si implode necessariamente verso il rimasticamento di forme già viste. Per riprendere il già citato Mark Fisher: “le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato e il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che son pronti ad assumersi un certo rischio”.
Per questo occorre quanto prima creare le condizioni. È necessario uscire dalla logica in cui ci si limita a sbandierare rassegne stampa e dati di affluenza senza riflettere sulla concretezza dei risultati effettivamente raggiunti. Bisogna tornare a respirare il senso del rischio proprio di ogni impresa incerta. Il Mulino di Amleto ha provato e prova nel suo piccolo a dare un segnale in questo senso. Si è assunto l’onere della responsabilità. Ora tocca a tutti noi far sì che questo spazio e questo tempo riconquistati all’immaginazione libera non inaridiscano.
Indirizzo del blog dedicato al Cantiere Ibsen