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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE IV

:«È questo il gesto fondamentale di conquista del reale: dichiarare che l’impossibile esiste». Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«Senza il nuovo, quanto può durare una cultura? Cosa succede se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?» Mark Fischer realismo capitalista

:«L’esaurimento del futuro ci lascia anche senza passato: quando la tradizione smette di essere contestata o modificata, smette di avere senso. Una cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura». Mark Fischer realismo capitalista

:«Chi si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì» Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

Nel mondo dell’industria culturale qual è il prodotto più ricercato, il top di gamma? A giudicare dalla quantità di bandi, concorsi, residenze, progetti dedicati agli Under 35 si direbbe che i giovani siano la punta di diamante. Ma l’apparenza inganna. Il prodotto “giovani” è l’esempio più esauriente di come i dettami dell’economia di mercato applicate alla cultura falsino le prospettive. Dietro alla possente esposizione del prodotto “giovani” si nascondono pericoli, insidie e purtroppo, a volte, sfruttamento. Malauguratamente non esiste un dato nazionale consultabile per verificare quante opere con autori Under 35 siano sul mercato ogni anno. Sarebbe interessante un tale censimento per comprendere il reale stato di fatto e soprattutto verificare il divario, se esiste, tra produzione ed effettiva circuitazione.

Detto questo non si può non notare come ogni anno sia “obbligatorio” immettere sul mercato un certo numero di opere giovani e questo nonostante il mondo dello spettacolo dal vivo sia, come visto nei precedenti articoli, un settore gravato da iperproduzione, come se non esistesse alternativa professionale alla creazione di spettacoli, soprattutto in giovane età. Il settore giovani quindi sembra affetto dallo stesso morbo iperattivo e ipercinetico dei senior, con l’aggravante di ridurre le loro possibilità professionali e di crescita.

Innanzitutto non si può non notare come le scuole dedicate ai vari settori delle performing arts (Accademie, Scuole legate agli Stabili, Scuola Holden, IED, Etc) abbondino, crescano persino, e immettano sul mercato ogni anno nuova forza lavoro in un panorama economico che stenta, e nel dire stenta siamo ottimisti, a fornire ai propri lavoratori un orizzonte meno che precario. Eppure tutte queste istituzioni, gravate anch’esse da dettami del mercato, quindi di indici di crescita, di numeri e guadagni, sono indotte a vendere per sopravvivere un sogno che tale non è. La retorica imperante è “dare spazio e occasioni alle giovani generazioni” ma, nonostante le buone intenzioni sottese, come fa notare Byung-Chul Han: «il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti».

In effetti i giovani artisti assomigliano molto ai Tributi degli Hunger Games raccontati da Suzanne Collins. Ogni anno i dodici distretti devono fornire a Capitol City ventiquattro giovani, due per distretto, i quali dovranno combattersi a morte nell’arena in un reality concepito per il divertimento dei ricchi e civilizzati cittadini. Per avere più chance di sopravvivenza, i giovani tributi si devono accaparrare i favori degli sponsor, i cui aiuti diventano fondamentali nel combattimento. Alla fine ne rimarrà soltanto uno a ottenere in premio una vita di ricchezza e attenzioni. Il contesto distopico di Suzanne Collins, descrive molto bene il meccanismo del neoliberismo nei confronti delle giovani generazioni: un bacino da sfruttare il più possibile, non importa quante vittime si lascino sulla strada, perché la giovinezza è la novità, la freschezza, lo stato in cui bisogna perdurare per essere cool. Vecchio significa obsoleto, quindi non utilizzabile. L’obsolescenza è il peccato della contemporaneità, la cui punizione inappellabile consiste nel divenire scarto, rifiuto, relitto da smaltire ed eventualmente riciclare. E questo in tutti i settori lavorativi, non solo nelle performing arts. Il cinema, il romanzo e il migliore giornalismo hanno raccontato con dovizia le tragedie di chi, over quaranta, perde il lavoro e come sia difficile rientrarvi e reinventarsi soprattutto nelle posizioni di carriera acquisite.

Viviamo dunque in una società illusa di vivere in un perpetuo presente, in un forsennato update perché, sempre come afferma Byung-Chul Han: «la percezione seriale non indugia mai». Fermarsi significa morire e per questo è diventato lo stimolo principale nella caccia di nuovi talenti che presto diventano obsoleti e, nel caso specifico dello spettacolo dal vivo, non a caso hanno una data di scadenza: trentacinque anni, oltre i quali ecco che svaniscono bandi, sostegni, fondi. L’orizzonte improvvisamente si fa ristretto e grigio. Conseguenza: o ti sei fatto un nome, un certo giro di solidi contatti e ottenuto una certa stabilità amministrativa entro i trentacinque (e non è detto che basti) o sei condannato a un inevitabile destino di obsolescenza.

Marinetti nel Manifesto del Futurismo 1909 scriveva: «I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili». Non immaginava certo che lo avrebbero preso alla lettera. E pensare poi che la data di scadenza si sta anche notevolmente abbassando. Già si intravedono i bandi Under 30 e persino Under 25.

Questa gara sull’età conduce a una serie di nefaste conseguenze. Proviamo a esaminarle, premettendo che gli strumenti volti a dare sostegno agli Under sono nati con le migliori intenzioni e con lo scopo effettivo di tentare di aiutare le nuove generazioni in un paese senescente. Quando apparvero nel panorama italiano furono una vera ventata di speranza e novità. Nella maggior parte dei casi sono stati pensati come strumenti di agevolazione nell’entrata del mondo del lavoro. Quindi onore al merito a chi ha contribuito al tentativo di dare ai giovani delle possibilità concrete per sviluppare la propria arte. Non si vuole quindi in questa sede fare alcun processo ma cercare di individuare le criticità che il sistema neoliberista inevitabilmente crea pervertendo tutto alle proprie logiche.

Il problema principale è che tali strumenti sono stati tarati solo sull’età, e per la massima parte non a sostegno dell’intera filiera. Si potrebbe prendere esempio dal mondo cinematografico dove nel processo di immissione nella filiera produttiva si finanziano le opere prime, seconde e terze, come avviamento al lavoro e inseguito prevedere altri tipi di sostegni più atti allo sviluppo. Nelle arti performative si sostiene invece quasi interamente la sola produzione e, inevitabilmente tutte queste nuove opere vanno solo ad alimentare un mercato stantio e intasato, e una forsennata gara al debutto prima possibile, perfino quando non si è minimamente pronti per affrontare il pubblico o il mondo del professionismo. Inoltre si è creato un mercato a basso cachet tutt’altro che virtuoso.

Prima e più evidente conseguenza è dunque la mercificazione delle giovani generazioni. Esse si trovano nella scomoda posizione di essere commercializzate e sfruttate il più a lungo e il prima possibile, da una parte indotte a produrre a ritmi forsennati, e in seguito a spendere e spendersi per ottenere luce e visibilità. Prolificano le occasioni vendute ai giovani, siano essi concorsi o residenze, in cui questi devono immettere risorse proprie per pagarsi praticamente tutto (viaggio, vitto, alloggio, e produzione, oltre a lavorare praticamente gratis o a cachet ridicoli), nell’illusione e nella speranza di poter vincere un premio, un residenza in un festival importante, ottenere una data in più, essere visti da chi di dovere. Anche quando pagati, i giovani hanno, come detto e come accade anche in altri settori lavorativi, cachet bassi, a volte in maniera misera e risibile, i quali vengono accettati proprio nell’ottica della “gavetta”, di un percorso inevitabile, condizionato, obbligato e persino necessario. Dire di no è difficile, così come contrattare, soprattutto se non si hanno molte carte in mano e dietro di te c’è una fila affamata pronta ad accettare anche di meno. In molti casi dunque i giovani si vampirizzano invece di offrire loro delle vere occasioni di crescita. E questo processo non è in atto da pochi anni ma da almeno tre decenni.

L’eccessivo focalizzare sulla produttività e creatività conduce i giovani inoltre a farsi autori anzitempo, tralasciando il lavoro di bottega necessario per l’acquisizione di tecniche indispensabili per formarsi un linguaggio autonomo. Il lavoro con il maestro e il necessario scontro con la sua autorità è un processo necessario per un’indipendenza linguistica e formale. Una vera formazione “a bottega” richiede però tempo, unica cosa che manca nella società iperveloce e cronofaga che abitiamo. La data di scadenza si avvicina e la spinta a produrre con i relativi finanziamenti comporta che una volta finite le scuole, la formazione si parcellizzi in mini corsi, stage di pochi giorni, con più maestri possibili dove si “assaggiano” le varie tecniche senza approfondirle, degustazione agita soprattutto a fini curricolari. Persino in molte residenze creative, luoghi pensati per la creazione e sperimentazione, la necessità della restituzione a un pubblico ha portato all’emersione di sottoprodotti incompleti e creati nell’ansia di un “mini debutto”, a creare dunque prima quasi di pensare lo spettacolo nella sua interezza e organicità. Anche dove si dovrebbe avere solo il tempo e il luogo per riflettere sul proprio mondo creativo, l’obbligo di produrre e l’imperio del borderò fanno sentire la propria frusta. Ai giovani viene tolto quindi lo spensierato peregrinare, il placet experiri. Tutto deve essere finalizzato e monetizzato prima che sia troppo tardi.

Alfred Kubin Austrian school. Suicide, Selbstmord Etching. (Photo by Photo 12/ Universal Images Group via Getty Images)

Per produrre bisogna vincere i bandi che, come abbiamo visto, nella quasi totalità dei casi hanno obiettivi già previsti. In questo contesto diventa assai difficile una ricerca verso un proprio mondo estetico-formale e politico. Il rischio è accontentare il committente per ottenere i finanziamenti e ancora incrementare il proprio curriculum affinché diventi il più concorrenziale possibile, saltando di argomento in argomento senza una vera logica autoriale. Corollario inevitabile è l’assomigliarsi dei temi e delle opere, e così si finisce per intasare ulteriormente un mercato già asfittico di prodotti in serie. La vita delle opere dei giovani è brevissima spesso, proprio perché il numero è esorbitante per il piccolo mercato teatrale dove, come visto nei precedenti articoli, la distribuzione è alquanto difficoltosa e a compartimenti stagni. In questo contesto ciò che importa è ancora una volta l’età più che il loro nome o il loro lavoro.

Le produzioni ottenute attraverso vittorie di bando prevedono poi vari percorsi di tutoraggio. Tali osservatori e sguardi esterni hanno preso il posto del maestro. Oggi i consigli vengono erogati professionalmente in forma di consulenza, tutto è in forma positiva, di consiglio per il tuo bene, si è cancellato l’agonismo intellettuale tra le diverse generazioni. E così si corre il rischio di generare l’Effetto Parasite, ossia l’emulazione anziché la rivolta. Le generazioni devono vivere in opposizione se si vuole innescare un vero ricambio generazionale di linguaggi. Il passaggio di testimone non è mai indolore sebbene non sia cruento. È un necessario rito doloroso. Nel buddismo Zen è nota la massima :”se incontri il Buddha uccidilo” e non è certo un invito al delitto, ma un segnalare il pericolo che il Buddha stesso possa diventare un legame e un impedimento nel raggiungimento della perfezione. A un certo punto i tutor vanno rigettati perché troppe attenzioni genitoriali finiscono con impedire una vera indipendenza. Da qui si genera la frustrazione degli esami perenni,l’ansia di non essere mai pronto, abbastanza aggiornato, abbastanza maturo.

Ulteriore criticità che sembra in qualche modo smentire la precedente, ma è solo apparenza essendo solo un effetto complementare. La positività univoca in cui siamo tutti immersi crea un brutto rapporto con la critica. Questa, da qualsiasi parte provenga, mette in crisi le fragilità ma, se fatta in buona fede, non è volta a distruggere ma a far crescere, a mettere in luce quelle parti del lavoro su cui è necessario lavorare, ma nel mondo in cui abitiamo, dedicato alla concorrenza più sfrenata e in cui ogni fallimento è visto come inappellabile e da nascondere sotto il tappeto, non si può proprio dire che un lavoro non funziona. Eppure la caduta, e il relativo confronto rispetto ad essa, è un necessario percorso sulla via difficile della creazione artistica. Dalle cadute si impara a camminare, e sono i fallimenti più cocenti quelli che insegnano e fortificano. Avere un giusto rapporto di distacco con le critiche e le bocciature è fattore importante per la crescita personale. Invece la vita nel modello neoliberista ci impone un dover essere sempre in un costante presente di successo da condividere sui social, ottenendo like e attenzione, anche se tutto questo dura meno della caduta di Atlantide, sommersa in una notte e un giorno. Non ci si può permettere di sbagliare e così ogni report negativo è un affronto personale e non un gradino necessario alla formazione di un proprio linguaggio.

Michel Huellebecq dice: «oggi non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte». Il nostro mondo induce a limitare, se non eliminare, il rischio. In genere lo si affronta in maniera molto calcolata e cinica, cercando di capire dove soffia il vento e così ciò che appare nuovo invece è la riproposizione di modelli vincenti riadattati (non a caso in ogni settore dell’industria creativa e culturale vanno alla grande la cover, il remake, il riciclo). Anche come pubblico, come dice Mark Fisher: «abbiamo rinunciato ad aspettarci sorprese dalla cultura: e ciò vale sia per la cultura “sperimentale” che per la cultura pop». Dai giovani soprattutto non ci aspettiamo più che ci sciocchino, o ci sfidino. Li andiamo a vedere con la coscienza di chi aiuta un bisognoso, con un certo paternalismo. È come se fosse subentrato un bisogno di protezione del quale i giovani non hanno punto bisogno. Necessitano di reali possibilità di giocarsi il proprio futuro non di ipocrite gentilezze.

La mancanza di sorpresa è una certa stanchezza inventiva nonché la riposizione dei cliché è un processo storicamente iniziato decenni fa quanto il capitalismo è diventato l’unico modello a cui fare riferimento e si è espanso come un corpo estraneo in attività e settori incompatibili con il modello economico proposto. La cronofagia legata al neoliberismo ha fatto il resto. Non c’è tempo per studiare, valutare, fare esperienza. Produrre è l’imperativo univoco che viene urlato ad ogni cantone e nel fracasso si fanno evanescenti tutte le altre possibilità meno roboanti. Ci sarebbe davvero bisogno di un po’ di silenzio.

Nell’uniformità, quello che Byung-Chul Han chiama “l’inferno dell’eguale”, è sparita qualsiasi forma di opposizione o, meglio, le opposizioni vengono subito riassorbite dal sistema. Come dice Badiou, lo scandalo è solo l’eccezione, la parte evidente di un modello basato sulla corruzione, e in quanto eccezione è nel sistema, non si oppone ad esso. Sono come i glitch in Matrix, il sistema che riaggiorna se stesso e corregge gli errori. Come suggerisce Mark Fisher l’unica via di uscita a un sistema di perenne consenso è che: «il nemico oggi può essere meglio definito come capitalismo creativo, e la sua sconfitta richiederà non l’invenzione di nuovi modelli di positività, ma di nuove forme di negazione».

Se abbiamo iniziato dunque questo articolo con l’immagine gladiatoria degli Hunger Games concludiamo con l’immagine di un’altra visione della fantasia, quella di Tito di Gormenghast il quale, unico giovane erede di un vetusto e polveroso reame colmo di vuote ritualità e di congiure da operetta, decide di rinunciare al regno, di andare per il mondo e scoprire se esista un’alternativa. Essa esiste. Va costruita, pensata, immaginata, e necessita di molti fallimenti e soprattutto di molti dinieghi. Nel modello di progresso posto di fronte davanti a noi come una superstrada infinita verso successi sempre più clamorosi, se facciamo un passo di lato ecco subito l’apparire dietro il grande e ostentato ottimismo, l’aura di morte che spira e conduce tutti anzitempo nel limbo dell’obsolescenza e da questo solo i giovani ci possono salvare. L’importante è dar loro le giuste opportunità soprattutto in un paese ipocrita in cui il ricambio generazionale e la parità di genere sono tutt’altro che agevolati.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – III PARTE

:«Per l’essenziale, i Beni culturali plasmeranno in serie gli individui che formano il bacino di clienti e di sostenitori necessari al capitale» Alain Desnaul La mediocrazia

«Bisogna accettare, come fosse una legge della ragione, che il reale esiga in ogni circostanza una sottomissione piuttosto che un’invenzione?» Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«La pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma ripropone e accelera ciò che è già disponibile» Byung-Chul Han La società della stanchezza

Nel nuovo e incalzante mondo dell’impresa in cui le arti performative si apprestano a fare il proprio ingresso è lecito farsi una domanda preventiva: di quale capitale dispone la neonascente industria di cultura? Prima di tutto di quello derivato dal sostegno dello Stato attraverso tutte le sue istituzioni (Ministero della Cultura, Regioni, Comuni, Circoscrizioni, Municipalità); in secondo luogo le Fondazioni Bancarie, le quali in alcuni territori, sono veri pilastri nel sostegno alle attività di cultura; in misura più marginale da progetti europei nei suoi vari canali dedicati (Interreg e Alcotra per esempio); infine una minima parte derivata da incasso da attività propria (Bar, biglietteria, merchandising, corsi, affitti sale, etc). La sponsorizzazione privata generalmente, a parte rari casi e in maniera molto diseguale, si concentra nei riguardi di Enti Lirici, Teatri Nazionali, Tric e Grandi Festival che possono garantire ai marchi di prestigio un ritorno di immagine. Per strutture medie e piccole il finanziamento privato, pur con lo strumento dell’art bonus, ossia un credito di imposta pari al 65% per le donazioni liberali nei confronti del patrimonio culturale, stenta e risulta molto saltuario e legato a rapporti personali o territoriali.

Da questa ricognizione si può trarre una prima considerazione di base: senza il sostegno dello Stato, della Comunità Europea e delle Fondazioni Bancarie non esisterebbe alcuna impresa di cultura. Gli incassi derivati dalla vendita del prodotto cultura non sono minimamente sufficienti a sostenere alcunché, nemmeno gli artisti che li creano, figuriamoci chi deve vendere e distribuire i loro prodotti. L’impresa culturale si configura quindi come un’impresa senza capitali propri o, nella migliore delle ipotesi, con capitali insufficienti a mantenere la propria attività. Perché dunque insistere così tanto nell’aziendalizzazione del settore culturale quando appare lampante che le arti performative per mantenere uno standard di qualità elevato necessitano di investimenti fuori mercato? La risposta più ovvia parrebbe quella paternalistica: per evitare gli sprechi (cosa tutta da dimostrare), per imporre agli artisti, sempre pronti all’utopia, una concretezza di scopi, e delle finalità raggiungibili attraverso un percorso organizzato di costi e ricavi. Buone e cattive gestioni patrimoniali però si sono viste fin dalla nascita ormai secolare dei teatri a capitale privato o delle compagnie di giro. Fare buona economia delle risorse non necessita un regime di impresa. Forse come si sta facendo notare da più parti non siamo più in grado di mettere in discussione l’imperio di un modello economico che non manca di dimostrarsi fallimentare. Eppure noi ci affidiamo sempre all’economia convinti che essa sappia come uscire dalle crisi.

La cultura però, e l’abbiamo rimarcato più volte, non si costruisce in serie, non si vende ogni mattina al mercato e necessita di tempi variabili e molto elastici per il suo confezionamento. La proposta di legge Orfini sul contratto di lavoro e la tutela previdenziale e sociale dei lavoratori del settore dello spettacolo e delle arti performative. proposta che prevede l’inserimento nel nostro ordinamento dell’intermittenza alla francese, la quale finalmente riconosce che il lavoro dello spettacolo è di necessità saltuario, costituito di momenti di pausa formativa e di ricerca oltre che di intervallo tra un contratto e un altro, definisce la diversità del lavoro artistico. E quindi come si concilia questo con l’idea di impresa dove il lavoro è continuativo, ripetitivo e volto alla perpetua crescita dei ricavi, ma soprattutto con l’iperproduzione imperante? Ancora una volta tutti noi, dal legislatore, all’operatore, all’artista stiamo affidando un intero settore in mano agli economisti senza mettere in discussione la fallacia del modello. Bisognerebbe costruirne uno apposito, non basato sul neoliberismo, per non far la fine di sanità e istruzione, in cui l’ingresso del modello aziendalista ha abbassato gli standard e la qualità.

George Grosz I pilastri della società

Seconda conseguenza del fatto che il capitale necessario allo sviluppo dell’impresa di cultura derivi in massima parte da erogazioni di Stato e Regioni più le Fondazioni Bancarie, è che gli obiettivi e le finalità dell’attività dell’impresa siano eterodirette. I bandi di finanziamento definiscono di anno in anno, o di triennio in triennio, gli ambiti di intervento a cui bisogna adeguarsi per ottenere i fondi necessari. L’attività culturale e artistica, e questo lo si dice senza nessun giudizio o pregiudizio in merito, diventa spesso sussidiaria di altre attività, soprattutto sociali e didattiche verso soggetti deboli e aree disagiate. Se in molti casi questo avverrebbe e avviene con naturalezza e per istintiva attrazione, e il legislatore ha dunque percepito semplicemente una potenziale alleanza che andava sviluppata e sostenuta, bisogna però anche dire che l’attività culturale non si indirizza solamente in quest’unica direzione e le diverse progettualità possono anche anticipare necessità non ancora evidenti, perché l’arte, per dirla con Agamben, è sempre inattuale, ossia sempre leggermente sfasata dal presente. Siamo dunque ben lontani dalla cronaca. Si parla del mondo ma anticipandolo o riconsiderandolo, non certo correndogli dietro come un cronista dietro alla notizia. Inoltre come ovvio corollario se i bandi si orientano verso una determinata area di intervento giocoforza avremo l’immissione sul mercato di prodotti simili e orientati nella stessa direzione. In economia non sarebbe questa una contraddizione? Considerare una certa libertà d’azione in un campo così aleatorio dovrebbe essere non solo auspicabile ma necessario, e in passato effettivamente sono state considerate domande libere a progetto con cifre però inadeguate. Ora questa possibilità è un ramo pressoché estinto nell’albero dell’evoluzione dello spettacolo dal vivo.

Sempre per restare nell’ambito dei finanziamenti dobbiamo considerare anche una ingente sperequazione degli stessi su base territoriale. Se infatti in regioni come Piemonte o Lombardia operatori e compagnie possono accedere a svariate linee di finanziamento, pubbliche e private, a cui si assommano bandi transfrontalieri come Interrag e Alcotra, nelle Regioni del Sud nella prevalenza dei casi è lo Stato con le sue istituzioni a sostenere l’intero settore. Inoltre anche tre le Regioni vi sono effettive diseguaglianze nei sostegni e per questo basterebbe controllare i bilanci regionali e confrontare l’ammontare dei contributi regionali per lo spettacolo dal vivo. Per fare qualche esempio nel 2020 Regione Campania 15.000.000; Regione Emilia Romagna ha stanziato 3.172.000 € a cui si sommano 459.500 € per la danza e 1.535.000 per le attività multidisciplinari in cui rientrano le residenze artistiche; Regione Piemonte 1.176.000 €; Regione Lazio 1.400.000 €; Regione Toscana 450.000 € più 2.000.000 € per il RAT, sistema di residenze; Regione Sicilia 1.025.485 € ma non prevede sostegno ai festival; Regione Sardegna 6.825.086,21 di cui solo 90.000 alla danza. Ulteriore analisi sarebbe necessaria per la ripartizione di tali fondi ma non è questa la sede. Qui ci interessa semplicemente riportare una radicale differenza nei territori.

George Grosz Eclissi di sole

Veniamo ora a esaminare il mercato di un’impresa che come abbiamo visto iperproduce ben al di sopra dell’effettiva domanda, non possiede capitali propri ed è in massima parte eterodiretta nei suoi obiettivi.

Partiamo dal mercato interno. Esso si costituisce in gran parte di circuiti chiusi e impermeabili. Teatri Nazionali e Tric hanno un loro mercato costituito nella quasi totalità di reciproci scambi, nella logica del raggiungimento della quota annua di borderò e di giornate lavorative minime, per il riottenimento dei fondi legati al FUS. Gli scambi detto per inciso sono un male diffuso e in qualche modo necessario in ogni ramo del mercato teatrale italiano. Se infatti l’obiettivo è soddisfare i minimi richiesti dal ministero in qualche modo ci si aiuta reciprocamente nello scopo. Nefasta conseguenza della pratica è un mercato chiuso che non genera economia di ricaduta, in quanto ci si scambia i cachet e i borderò.

Torniamo ai Teatri Nazionali e Tric la cui programmazione a slot prevede l’inserimento di giovani, donne, repertorio, nuova drammaturgia etc. Nel riempire le caselle dedicate agli under 35 più che al mercato ci si rivolge alle proprie “cantere” ossia alle scuole, che diventano dei veri e propri vivai su modello calcistico. Questo se da un lato permette la crescita dei giovani, dall’altro impedisce l’ibridazioni con linguaggi meno scolastici ed eterodossi. Si rischia un linguaggio “da stabile”. Difficilmente infatti i gruppi indipendenti, per quanto apprezzati da pubblico e critica, entreranno nei palinsesti di questi teatri per molte ragioni prima fra tutte la non reciprocità del borderò, e a seguire l’indisponibilità delle varie direzioni artistiche a puntar sui nuovi linguaggi destabilizzanti per gli abbonati. Da ultimo ovviamente il fatto che nuovi gruppi hanno poco richiamo e un calo di pubblico farebbe abbassare gli indici per l’algoritmo ministeriale e conseguentemente i finanziamenti nell’anno a venire. Si punta sul sicuro, possibilmente con nomi di richiamo televisivo, scommettendo sulle nuove generazioni il tanto che basta.

I festival sono il vero circuito off. Essi sono diventati anche produttori oltre che un vero e proprio circuito alternativo per le nuove tendenze. Purtroppo lo possono fare in maniera insufficiente per mancanza di veri fondi dedicati alla produzione spesso avviata tramite lo strumento della residenza. In questi ultimi anni hanno creato reti alternative ai circuiti regionali e soprattutto costruito collegamenti con l’estero, interfacciandosi con i colleghi stranieri e aprendo dei canali per l’immissione dei nostri artisti sul mercato europeo. Due esempi virtuosi di rete e circuiti: Open, creazione urbana contemporanea avviato da Pergine Festival, insieme a In\Visible Cities, Zona K, Giardino delle Esperidi, Indisciplinarte e Periferico Festival, che oltre a favorire la creazione di nuovi lavori ogni anno sostenendoli in produzione e residenze creative, si costituisce come un microcircuito. Altro esempio la rete Med’Arte con capofila Tersiscorea di Cagliari che riunisce più di trenta soggetti di produzione e creazione nella danza contemporanea da quattro paesi europei e sette regioni italiane. Lo scopo è fornire ai giovani danzatori diversi strumenti dalla formazione, alla residenza creativa, alla distribuzione al fine di far crescere le loro creazioni.

Da poco è nato un coordinamento dei festival il cui scopo è di cercare di avviare politiche comuni oltreché interfacciarsi unitariamente con il legislatore. Molto resta ancora da fare in questo senso, soprattutto nella professionalizzazione delle curatele non sempre preparate al compito, e nella creazione di vere piattaforme di mercato stabili e continuative, ma i festival restano l’unica vera alternativa di mercato per giovani artisti indipendenti e soprattutto per la danza contemporanea che nei Teatri Nazionali e nei Tric risulta molto meno che marginale, relegata in piccole rassegne fuori abbonamento. I festival però sono stati i veri dimenticati nell’emergenza Covid non avendo ricevuto alcun ristoro. Altra anomalia che sa di beffa: il direttore artistico in Italia non è un mestiere riconosciuto.

I circuiti regionali sono la vera anomalia distributiva italiana. Molto si potrebbe dire sul loro funzionamento o malfunzionamento, ma in questa sede ci limiteremo a indicare le anomalie perché quanto ci preme è evidenziare la fragilità dell’intero sistema così come concepito più che puntare il dito su questo o quell’altro settore. I circuiti regionali dovrebbero essere sulla carta il collegamento tra centro e periferia, il diramarsi delle produzioni dalle piazze centrali a quelle più periferiche. La logica numerica voluta dalla centralità ministeriale (minimi di 220 rappresentazioni all’anno con titolarità di borderò) porta a equiparare territori che in nessun modo possono assomigliarsi e necessiterebbero di politiche distributive proprie. Per farla breve il Molise o la Sardegna non sono la Lombardia o il Piemonte. Il caso Basilicata con successivi fallimenti e male gestioni dovrebbe forse essere analizzato anche secondo questa logica, perché il rischio è che anche se ben gestito, con le attuali normative non potrebbe rispettare comunque i parametri numerici imposti.

Altro caso anomalo è Regione Lombardia che ha lasciato il settore in mano a imprenditori privati in libera concorrenza. Risultato: i circuiti sono ben dodici, di cui solo uno Claps è riconosciuto dal Ministero. In Umbria, regione in cui un circuito non si sarebbe potuto sostenere, il Centro di Residenza C.U.R.A. (Indisciplinarte di Terni, La Mama Umbria International di Spoleto, Centro teatrale Umbro i Gubbio, Micro Teatro Terra Marique di Perugia e GE.CI.TE SOC. COOP. Di Foligno) ha formato un piccolo circuito autonomo. Le difficoltà e le divergenze territoriali come si vede abbondano in un paese disomogeneo come il nostro, dove l’unità pare ottenuta solo di nome e non di fatto. Viste le difficoltà in alcuni territori nell’instaurare un circuito, il legislatore sembra voler dare facoltà a quelli esistenti di estendere le proprie attività a regioni confinanti se non dotate di circuiti, Così Arteven opera nell’intero Triveneto e probabilmente il Piemonte annetterà a livello spettacolare la Liguria.

Oltre a questi vettori principali molto disomogenei nelle politiche, nell’efficacia e nella distribuzione territoriale resta la distribuzione fai da te. Per raggiungere i minimi per i contributi ministeriali infatti molti si “accontentano” di piazze molto periferiche, non professionali e con fondi non adeguati alla professionalità degli artisti. Tali piazze si accettano per ottenere il borderò e cumulare le giornate lavorative ma a cachet molto ridotti. Per integrare si scorporano parte di fondi di produzione. In questo modo se ci si garantisce il raggiungimento dei minimi per concorrere al finanziamento ministeriale, allo stesso tempo si impoverisce il tesoretto per la produzione. Infine i giovani e giovanissimi all’esordio non trovando spazio nei principali circuiti, occupano ogni spazio possibile, spesso in maniera gratuita, senza tecnica, al limite del dilettantesco rischiando così di rimanere invischiati in un anonimato senza speranza. A livello di distribuzione interna quindi il paese sembra un un organismo male assemblato, con i diversi organi che non solo non comunicano tra loro ma paiono far parte di corpi alieni e sconosciuti.

Se la situazione del mercato interno non è rosea per impermeabilità dei sistemi, disomogeneità regionali e anomalie gestionali e normative, sul côte internazionale scarseggiano strumenti sistemici, organismi nazionali dedicati, competenze e soprattutto, una visione e investimenti a lungo raggio.

Innanzitutto mancano istituzioni che investano sull’immissione e la promozione degli artisti italiani sul mercato estero sul modello per esempio di Pro Helvetia in Svizzera, organismo volto a favorire e promuovere le arti in ambito internazionale, o di Alliance Française (organismo che si autosostenta al 95% con i corsi di francese e percepisce dallo Stato solo il 5% del budget). Qualcosa in questo senso fanno i nostri Istituti di Cultura Italiana all’estero ma in maniera disomogenea, saltuaria e con pochi fondi a disposizione per lo più per la copertura di viaggi e le spese di vitto e alloggio. Notiamo che gli Istituti Italiani all’estero sono in numero di 85 contro le circa 1072 di Alliance Française di cui 51 solo in Italia.

Da qualche anno è stato attivato da parte del Ministero il bando Boarding Pass Plus i cui scopi sono: internazionalizzare le carriere e i processi creativi e valorizzare le reciprocità. I progetti ammessi sono ventuno divisi tra danza, musica, teatro, circo e progetti multidisciplinari finanziati per 1.050.000 quindi tra i 40.000€ e i 60.000 €. Una commissione sceglie i progetti tra le domande pervenute e il progetto di sviluppa su un biennio. Oltre a Boarding Pass Plus, ulteriore strumento a disposizione ma limitato a chi è finanziato dal FUS è il Fondo Cultura Estero a sostegno delle tournée italiane, dove la domanda viene sempre valutata da una commissione e le tempistiche di risposta non sono per nulla celeri in quanto solitamente comunicate a fine luglio. Chi venisse invitato dal Festival di Mosca o di Johannesburg ma non accede a questi due unici motori di internazionalizzazione, e nemmeno riesce a instaurare un rapporto con un Istituto Italiano all’estero e quindi magari ottenere dei fondi dal Ministero Affari Esteri, si paga il viaggio oppure resta a casa. E poi ci si domanda perché i nostri artisti siano poco presenti in Europa e nel Mondo?

Sia Bording Pass sia il Fondo Cultura Estero sono dunque interventi estemporanei, limitati, non sistemici e soprattutto sottofinanziati. Per sostenere i nostri artisti all’estero bisognerebbe lavorare su ben altro livello, finanziando in primis ogni soggetto che riceve un invito da un festival o teatro estero indipendentemente che percepisca sostegno dal FUS e aldilà delle valutazioni delle commissioni. Inoltre si dovrebbe sostenere non solo le spese di viaggio ma tutta una serie di attività atte a potenziare e facilitare l’esportazione delle opere dei nostri artisti, dalla sottotitolatura degli spettacoli, al sostegno ai viaggi degli operatori esteri nel nostro paese al fine di visionare opere italiane e soprattutto istituire una o più piattaforme di mercato permanenti in cui favorire gli scambi con l’estero.

La NID platform nella danza si muove in quest’ottica ma con dei difetti congeniti. Innanzitutto è biennale, i lavori ammessi sono in numero troppo ridotto, a produzione chiusa (ossia dopo un debutto) e poco spazio viene concesso ai cosiddetti progetti open, ossia a quelle creazioni in fase iniziale di lavorazione alla ricerca di partner di coproduzione, ambito in cui veramente si potrebbe e dovrebbe potenziare la collaborazione internazionale soprattutto per implementare le scarse fonti di finanziamento alla creazione.

Una modalità per strutturare interventi sul lungo periodo potrebbe essere prendere esempio dal settore cinematografico (vera industria culturale) in cui i grandi festival si sono costituiti come piattaforme di mercato e di incontri tra operatori del settore promuovendo all’interno delle programmazioni, appuntamenti dedicati all’industry con coproduction forum tra paesi europei, pitching di produzione a cui seguono One-to-one tra artisti e produttori, fondi e bandi per le opere prime e seconde (in Italia un esempio è il Torino Film Lab durante il Torino Film Festival, ma il vero modello è Hubert Bals Fund di International Film Festival di Rotterdam). Ovviamente questo significherebbe un radicale rinnovamento del settore che andrebbe finanziato con capitoli di spesa appositi.

Per concludere questo breve excursus sul mercato interno ed estero nel settore dello spettacolo dal vivo, non si può non continuare a notare l’anomalia di voler spingere un settore verso il mercato e l’aziendalizzazione delle sue attività quando mancano tutte le strutture atte a far sì che un impresa operi appunto da impresa. Un’industria culturale che non ha mercato né interno né estero, non possiede risorse proprie a meno che non venga sostenuta da organismi statali o fondazioni private, che non può nemmeno operare pienamente a scopo di lucro a meno di non perdere i fondi di cui sopra, e infine, si trova costretta a proporre ogni anno nuovi prodotti su un mercato saturo in cui l’offerta supera di ben tre volte la domanda, è un’industria che, allo stato dei fatti, può far concorrenza solo al Titanic a meno che non si riveda l’intero sistema.

Da ultimo poi ci si dovrebbe porre la domanda: ma tutto questo sarebbe veramente necessario? Non esistono scenari alternativi? Creare un’industria dello spettacolo dal vivo non cancellerebbe le sue funzioni primarie, quelle politiche e culturali, che ne sono state a fondamento? Questa domanda non nega che ci debba essere sostenibilità dell’impresa, e nemmeno che l’intera produzione abbia solo alte finalità, ma se tutto diventa un prodotto culturale sottoposto a principi esclusivamente economici non si rischia di rendere quasi impossibile la creazione volta a formulare nuovi paradigmi di pensiero? Non si rischia di avere con la comunità-pubblico solo un rapporto economico e non di scambio di relazioni, esperienze, visioni?

Prima di accettare senza discutere la trasformazione voluta da Economia, a cui sembra vengano delegate tutte le risoluzioni dei problemi, benché non sappia nemmeno prevedere le magagne che la riguardano, forse dovremmo farci qualche domanda e considerare se veramente vale la pena saltare sul carro che da quarant’anni ci insegnano essere inarrestabile, benché non cessi di dimostrare quanto proceda a stento e tra crisi continue da lui stesso causate.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE II

:”Solo quando avranno ridotto le forme che si sono sviluppate indipendentemente da loro a pure e semplici commedie che s’inseriscono nel gioco del commercio, la loro unica passione, fino a vederci nient’altro che una rigida dimostrazione di forza monetaria, a quel punto si sentirà risuonare una grassa risata”.

Alain Desnault La mediocrazia

Come crawling faster/ obey your master/ your life burns faster/ obey your master

Metallica Master of Puppets

Economia è regina incontrastata di ogni settore dell’umana attività in questo Ventunesimo secolo. Essa regna affiancata da Burocrazia e Cronofagia, e spadroneggia indisturbata come un tempo Ares dominava i campi di battaglia, insieme ai figli Phobos (paura) e Deimos (Terrore). E come Ares strappò Afrodite, dea della bellezza, dalle braccia di Efesto, dio artigiano ma zoppo, così oggi Economia compie il ratto dell’arte rubandola alla sua bottega e mettendola sul mercato. Non è un caso che uno dei sogni nefasti sorti agli albori della modernità capitalista sia quello di Baudelaire sul bordello-museo, dove lui, l’artista, accorre a presentare il suo nuovo libro alla maîtresse, e trova le sale piene di opere d’arte, prostitute e signori dell’alta finanza.

Difficile è individuare quando esattamente sia iniziato il processo. C’è chi dice (Alain Badiou) negli anni Settanta quando diversi fenomeni coincidenti cominciarono a verificarsi: fallimento in Occidente dei moti rivoluzionari e riformatori giovanili, armati o pacifici che fossero; avvio della deregulation del capitalismo; inizio della dissoluzione del blocco sovietico. Poi gli anni ’80 di Reagan e della Thatcher, quelli della Milano da bere e del There is no Alternative. Nella storia ogni punto d’origine è sempre arbitrario ma se per un momento proviamo a pensare a quanto è cominciato a accadere nel campo delle arti performative proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, riscontriamo un graduale e parallelo scemare delle istanze politiche e sociali nonché delle utopie riformatrici. L’arte gradualmente si è richiusa su se stessa. Forse la scomparsa di una contronarrazione efficace al capitalismo liberista ha fiaccato il campo dell’opposizione e col tempo si è creato quello che potremmo chiamare Effetto Parasite dal meraviglioso film di Bong Joon-ho: non più ribellione né contrasto ma bensì desiderio di emulazione.

Ancora negli anni ’90 però vi era una vitalità politica forte, riconosciuta e condivisa Pensiamo a Barboni e a Guerra di Pippo Delbono, il Marat-Sade di Armando Punzo, la Biennale di Carmelo Bene (1989), i Teatri Invisibili e la nascente Generazione Novanta. Ma quella stagione sembra sempre più un’estate di San Martino. Oggi si parla più di bandi ministeriali, di FUS ed ExtraFUS, di borderò piuttosto che di funzioni o di finalità politiche del teatro. Quando l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo scorso anno disse: ”i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, il mondo teatrale si scandalizzò, dimenticandosi però che Valerio Binasco, assumendo il ruolo di consulente artistico al Teatro Stabile di Torino disse parole ancor più gravi: «Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta»!

Umberto Boccioni Rissa in Galleria

Da tempo dunque il mondo delle arti performative ha perso un ruolo da giocarsi nella società, condividendo istanze e problematiche con altre categorie sociali come avveniva nel passato. Perché questo è avvenuto? Probabilmente perché non è più stata la politica il referente antagonista, ma bensì l’economia, la quale più che avversario e competitore con cui è possibile discutere, magari in maniera accesa, essa si è imposta come matrigna fortemente ingerente nella vita dei figliastri recalcitranti; e con una genitrice che elargisce una paghetta non si arriva a un compromesso, si può solo obbedire o disubbidire in un rapporto costituito in massima parte da premi e punizioni. Come disse nell’aprile del 2016 George Mombiot sulle pagine di The Guardian, quotidiano non certo tendente all’estrema sinistra :«Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche sono esercitate al meglio attraverso la compravendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene che “il mercato” fornisce benefici che non potrebbero mai essere raggiunti dalla pianificazione».

Gli effetti di tale ingerenza non sono facilmente districabili. Essi si diramano come un corpo estraneo in ogni ambito della filiera creativa dalla formazione alla internazionalizzazione, sovrapponendosi però a un sistema che ancora risente di valori a essa alieni. La filiera artistica risponde a questa estranea possessione in maniera scomposta a volta rigettando, a volte rendendo impossibile l’agire, altre in modalità autoimmune. Per risolvere la questione bisognerebbe agire come Alessandro di fronte al nodo gordiano: tagliare e resettare, ma questa si profila la possibilità più remota e utopistica. Nell’analisi della filiera, non potendo isolare i sintomi, non resta che toccare gli argomenti e di volta in volta ritornare, ripetere, riformulare.

Cominciamo dal principio ossia dalla volontà di trasmutare l’azione culturale, attività artistica e politica come quant’altre mai, in azienda o impresa di cultura. La prima considerazione è che le parole non sono innocue: quando il teatro, il cui etimo greco significa: il luogo da cui si guarda, e quindi prevede un osservatore che profonda il suo sguardo in un oggetto o in un mondo, diventa un luogo di profitto, in cui qualcosa viene venduto a qualcuno, ci troviamo in un universo completamente alieno da quello di partenza. Se poi osserviamo le parole dal punto di vista della comunità che frequenta il luogo in oggetto (perché teatro è un luogo prima che un arte!) essa si trova trasformata da agorà a cliente e consumatore, ed ecco che improvvisamente qualsiasi valenza politico sociale si annienta nel buco nero della quantificazione economica. Ultima ma non ultima l’economia mal s’accomoda a fianco dell’etica. Qualcuno potrebbe affermare, e non senza ragione, che nemmeno l’arte va troppo a braccetto con la dama pudica e castigata, ma la cultura sì, come l’istruzione. Essa si basa su principi etici di apertura a tutte le categorie, soprattutto alle più svantaggiate e deboli, tende a voler far crescere la società nei suoi valori, e nei momenti di crisi è stata il collante delle comunità (pensiamo agli Ebrei o ai Tibetani, popoli che nell’esilio sono sopravvissuti e sopravvivono proprio grazie ai valori culturali). In economia vince solo il più forte, chi ha più capitale, e quindi la naturale conseguenza, come diceva Trump, diventa: i poveri sono dei perdenti.

Impresa culturale è termine che ci trasporta in un altrove volto a snaturare le funzioni e quest’ultime sono tutt’altro che questione di lana caprina o di lanugini ombelicali, si parla delle fondamenta di un’arte millenaria. Ecco dunque che proprio nell’assunzione del termine ci si trova di fronte alle prime anomalie: sostegno pubblico e impresa culturale difficilmente si trovano in un piano di accordo vicendevole. Infatti le normative rivelano difetti e malformazioni. In epoca Covid, in tempi di ristori e di aiuti straordinari in molte regioni le cosiddette imprese culturali si sono trovate escluse dai sostegni alle piccole e medie imprese proprio per il fatto di essere senza fine di lucro, status necessario a chi richiede fondi di sostegno per l’attività culturale sia da parte regionale sia da fondazioni bancarie. E questo all’alba della riforma del terzo settore che obbliga tutti gli attori del settore culturale a divenire impresa di cultura. Quale? Nemmeno l’Agis saprebbe consigliarvi per il meglio.

Facciamo qualche esempio tre regionali e uno nazionale. Cominciamo dalle segnalazioni regionali tre casi sparsi per il territorio nazionale tra Nord, Sud e Isole. Primo: il bando Sì Lombardia, in cui Regione Lombardia chiedeva per la partecipazione l’iscrizione al REA (Registro delle imprese) e l’ottenimento del DURC, così come altri vincoli specifici al mondo imprenditoriale, eppure nonostante queste richieste il comparto culturale è stato escluso perché non ha fine di lucro. Secondo: la Legge quadro sulle azioni di sostegno al sistema economico della Sardegna a salvaguardia del lavoro a seguito dell’emergenza epidemiologica da covid-19 in cui i sostegni previsti sono a compensazione di un mancato reddito di impresa cosa difficilmente dimostrabile per chi è senza scopo di lucro. Terzo: la Basilicata si potrebbe annoverare tra i “casi curiosi”, in quanto ha pensato al tessuto dell’impresa profit, escludendo l’impresa non profit, anche nei casi in cui la normativa lo prevedeva e consentiva. Un caso concreto: Avviso Pubblico Misura straordinaria emergenza sanitaria COVID 19, emanato a giugno 2020, proprio per dare le prime risposte alle difficoltà causate dalla pandemia, assegnando un contributo, seppur minimo, a fondo perduto per i soggetti giuridici che ne avessero fatto richiesta. L’impianto normativo di riferimento e i criteri di concessione del contributo risultano interessanti, ovvero c’è il “classico” rimando al Regolamento UE n. 651/2014 e al suo Art. 1 dell’Allegato 1, ormai caposaldo di Avvisi e Bandi e che definisce il perimetro dell’Impresa, facendo rientrare anche le Associazioni che svolgono regolarmente attività commerciale; ed è definito un importo del contributo in base al numero di addetti/dipendenti del soggetto richiedente: mille Euro per nessun addetto, duemila Euro per chi ha in organico fino a cinque addetti e tremila Euro per chi ha da 6 a 10 addetti. Pur non volendo entrare nel merito tecnico e discutere l’adeguatezza o meno del provvedimento specifico, la cosa che si evidenzia e che contraddice l’azione dell’Ente Regione è l’impossibilità, per le forme associative (anche se iscritte al R.E.A. della Camera di Commercio di riferimento esattamente come in Lombardia) di poter accedere alla Misura: non per motivi di Codice ATECO o mancanza di dipendenti ( l’Avviso tutelava anche soggetti senza dipendenti), bensì per il tipo di forma giuridica: Associazione. Dopo questo breve excursus esemplificativo su base regionale riportiamo un esempio nazionale: Invitalia e il “suo” Bando Impresa SIcura per il rimborso degli acquisti di dispositivi di protezione per i propri lavoratori, sostenuto da un fondo INAIL -di cinquanta milioni di Euro- di cui tutti conosciamo le funzioni: contrasto agli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Un bando che in uno dei suoi primi articoli specifica chiaramente che la tipologia di forma giuridica del soggetto non inficia la richiesta di contributo, ma nella sezione FAQ riporta l’impossibilità per le forme associative di accedere al contributo, e porta con sé quindi una contraddizione forte nel momento in cui si pensa alla tutela dei dipendenti, e alla luce di una normativa impresa, ripetiamo, che allarga lo spettro dell’impresa stessa. C’è un fondo INAIL, che è alimentato anche dalle associazioni con dipendenti e che quindi versano l’assicurazione obbligatoria, c’è il riferimento ai lavoratori, ma ciò che conta è la forma giuridica. Non se ne comprende la motivazione.

Questi sono solo quattro esempi su decine che si possono fare della contraddizione in termine di cultura, impresa e sostegno pubblico nelle normative attuali alla vigilia della riforma del terzo settore.

Nella visione dell’economista la cultura è un impresa e come tale ha un unico obiettivo centrale su cui si deve focalizzare il finanziamento: la produzione di un oggetto di consumo. L’opera è il prodotto. Tutta la filiera delle arti performative si è così concentrata nell’unica attività premiata dal modello economico: il prodotto e lo ha fatto talmente bene che le ore di produzione sono quasi tre volte tanto quelle di rappresentazione! Si calcola in ben 23000 ore di recite di produzione e solo 9100 di recite di distribuzione dato questo che lascia intendere due cose: una spinta decisa e sproporzionata sulla produzione e il disequilibrio evidente tra le opere e la loro effettiva possibilità di circuitare. E stiamo parlando solo dei valori censiti nelle strutture riconosciute e finanziate dal Ministero.

Il mercato quindi è inondato di prodotti di cui in verità c’è scarsa domanda, ma essendo l’unico modo per percepire denari attraverso i borderò ecco che tutti persistono nell’errore di produrre nuovi oggetti destinati a nascere già morti. Pensiamo a quanto avviene in questi giorni di teatri chiusi, dove l’unica attività lecita sono le prove, tutti hanno prodotto, ma su quale mercato verranno venduti? E se consideriamo l’accumulo delle creazioni viste poco o per niente nel 2020 quali piazze smaltiranno tutti gli invenduti? E nel 2022 che facciamo: produrremo ancora in massa, soppiantando le opere dalla vita brevissima di questo biennio? Si profila all’orizzonte una vera strage degli innocenti.

Umberto Boccioni Velocità

L’iperproduzione è il primo effetto del malsano innesto di valori economici in ambito culturale e artistico. L’opera nasce da un’esigenza che nasce sì nell’artista, ma questo lo dovrebbe cogliere in seno alla società. Dall’incontro tra i due soggetti dovrebbe nascere un dialogo dovuto alla necessità. Come in American Gods i nuovi dei mal digeriscono i vecchi dei e così Economia mal sopporta l’imperio di Ananke, anzi vive e prolifera proprio laddove non vi è necessità alcuna: fatto il prodotto, creato dal nulla il bisogno, si crea il mercato. Non importa che il pubblico chieda o meno l’opera, e nemmeno si necessita che l’artista abbia qualcosa da dire a un pubblico. A ogni stagione bisogna immettere novità in palinsesto, cose mai viste da nessuno, possibilmente in prima assoluta, in mancanza di queste almeno in prima regionale. E di conseguenza ecco l’ossessione per l’audience engagement. Il pubblico deve crescere esponenzialmente come il PIL, non si deve arrestare mai, anzi a ogni stagione bisogna trovare nuovi escamotage per mobilitarne di nuovo. L’arte però ha tempi lunghi, digestioni lente, passaparola antichi, tutti valori che mal s’accordano con i principi di quantificazione immediata del successo. E così per ottenerlo la qualità scende, si ibridano i linguaggi propri della scena con quelli di più sicuro appeal della televisione, della serialità cinematografica, dei social network. Ora chiariamo: niente contro l’ibridazione dei linguaggio purché il teatro resti tale, se diventa televisione, o Tik Tok allora i presupposti sono sbagliati. I mass media di massa, soprattutto quelli digitali, hanno numeri incomparabili a quelli che può raccogliere il vecchio carro di Tespi. La corsa al pubblico è dunque persa in partenza. Per il teatro dovrebbero essere I rapporti ad assumere importanza, e con essi le relazioni con i territori e le questioni sociali, quello che per i sociologi è l’impatto sulla società, ma su questo ritorneremo con un focus apposito. Come detto è difficile districare i temi che sono follemente interconnessi.

Se dunque bisogna produrre a tutti i costi, se la guerra si compie sulla prima ad ogni costo quali sono le conseguenze per il comparto? Innanzitutto sparisce il repertorio. Le opere infatti si riattualizzano rispetto ai contesti che risemantizzano i contenuti, per quanto vivano l’istante hanno una aspettativa di vita ben più lunga dei 12 mesi a cui spesso sono destinate. Ora però se la gara si gioca sulla novità a tutti i costi, le opere giocoforza hanno vita breve se non brevissima, soppiantate dal nuovo prodotto. Stessa cosa per l’artista giovane il quale va sfruttato in fretta, prima cioè che venga immesso uno più giovane sul mercato. E così si inaridisce la fonte primaria di formazione: il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Se si bruciano le tappe sovraesponendo le forze giovani fino all’età critica dei 35 anni, inevitabilmente coloro che passano il fatidico vallo di Adriano e diventano over si trovano per lo più scartati, e così non si storicizza la ricerca, non si passano le abilità e le tecniche. I giovani poi vengono indotti a produrre impreparati perché va venduto non tanto il loro talento ma la loro giovinezza. I palinsesti poi non privilegiano una territorialità ma, sempre in gara con le première, comprano i vincitori di premi, le prime regionali, il giovane appena scoperto. L’artista di esperienza, a meno che non sia famoso, non fa pubblico perché è già visto, lo si conosce già, non ha la patina del nuovo ad ogni costo. Attenzione: quando si parla di novità essa deve però essere rassicurante, non così nuova da scuotere veramente il pubblico. Infatti se per un cellulare o una televisione si corre a comprare l’ultimo modello, in arte viceversa il nuovo terrorizza. Quello che si vede sulle scene deve essere una novità con una patina di assoluta e certa riconoscibilità in modo da confermare i gusti del pubblico e non gettarsi in pasto al rischio di scontentarlo e quindi perdere in sbigliettamenti e abbassare l’indice di incremento degli spettatori-clienti.

Ulteriore danno provocato dal concentrarsi sulla sola produzione è la loro quantificazione. I parametri ministeriali (per ora sospesi ma non aboliti) valutano la qualità solo per il 30%. Il restante 70% si riferisce alla quantità: tanto pubblico, tante date, tanta rassegna stampa. E se la quantità vince sulla qualità, l’opera si adegua a un fast food dove non importa che l’hamburger sia veramente buono, ma che lo consumi più gente possibile.

La vera anomalia però è il mercato stesso. Esiste? Si sono implementati dei reali strumenti per la sua espansione? Ci sono progetti di immissione dei nostri prodotti culturali sul mercato estero? La distribuzione funziona? Nel prossimo articolo proveremo ad analizzare la forma e il ruolo del cosiddetto mercato nella nostra filiera produttiva.

neoliberismo

A NON PIÙ COME PRIMA: NEOLIBERISMO E TEATRO

Quella da Coronavirus non è la prima pandemia che ci troviamo a vivere. L’AIDS è molto più silenziosa, più letale, vive tra noi da vari decenni, ma facciamo in modo di ignorarne la presenza. Questo nuovo virus al contrario si è imposto all’attenzione del mondo con prepotenza, obbligandoci a trincerarci nelle nostre case. La principale causa del suo manifestarsi è la medesima del suo ben più letale predecessore e di altri virus dai nomi inquietanti apparsi negli ultimi anni come Ebola, Marburg o Nipah: l’economia neocapitalista sfruttando e invadendo ogni tipo di nicchia ecologica ha portato a una contiguità senza precedenti tra animali e l’uomo favorendo il fenomeno dello spillover e delle conseguenti zoonosi. La globalizzazione ha poi permesso il rapido viaggiare di questi scomodi passeggeri in ogni angolo del pianeta.

Questa pandemia, al contrario dell’altra, era attesa da anni e non solo dalla scienza (Obama ne parlava già nel 2014 cfr. https://www.youtube.com/watch?v=pBVAnaHxHbM ). Al suo apparire ha avuto come principale effetto di bloccare intere nazioni tra cui il nostro paese dove è esplosa con particolare virulenza e dove tutte le attività economiche e sociali hanno rallentato, quando non si sono del tutto fermate. Uno degli ambiti che più si sono trovati spiazzati e colpiti è stato sicuramente il comparto delle arti dal vivo e non solo per la lontananza dal proprio pubblico ma soprattutto per la precarietà degli artisti e dei lavoratori, a cui pochi negli anni hanno cercato di porre rimedio. Lo spettacolo dal vivo si è trovato impreparato, ma è anche senza un piano per affrontare non solo l’emergenza del momento ma soprattutto l’azione di ricostruzione. Tutt’al più spera di ripartire al più presto e questa è solo l’idea con meno conseguenze dannose.

La stasi obbligatoria a cui tutti siamo stati costretti poteva far pensare a un momento di riflessione e di dialogo costruttivo per cercare di risolvere i problemi che erano già presenti, per tentare di emendare gli errori e le aberrazioni esistenti del sistema produttivo-distributivo, invece si è assistito a risposte per lo più frettolose, dettate dall’emozione quando non a dolorosi silenzi. Da una parte dunque il ricorso da parte di molti artisti, così come di molti enti, dello streaming, ora abbracciato anche dal Ministro Franceschini, e che pone molte questioni a un’arte come il teatro che nasce in Occidente con agorà. Di questo non parleremo in questa sede in quanto il discorso che vogliamo fare è di altra natura, anzi semmai è la dimostrazione dell’infiltrazione di un pensiero che tende a considerare la cultura niente più che un prodotto di consumo al pari di un detersivo. Dall’altra un ricalendarizzazione degli appuntamenti e dei festival come se questo tempo che ci è imposto non esistesse e tutti non si aspettasse altro che riprendere da dove eravamo rimasti. Tutto questo dimenticandosi che la crisi del comparto non è nata con il coronavirus ma era persistente da anni, e che il presente lockdown ha semplicemente fatto esplodere.

Da lungo tempo i continui tagli alla cultura, l’incertezza sui pagamenti delle istituzioni, la colonizzazione da parte dell’economia degli obbiettivi propri dell’arte, la precarietà del lavoro (quando è riconosciuto), e l’incapacità degli artisti come degli operatori di sentirsi parte di un unico sistema (per difendersi si necessitava di posizioni unitarie e come dice Fredric Jameson :«una cultura veramente nuova potrebbe venire alla luce soltanto attraverso la lotta collettiva per la creazione di un nuovo sistema sociale»), da tempo tutto questo incide sulla capacità del sistema teatro di rinnovarsi veramente, di costruire e implementare strumenti veramente utili agli artisti, veri protagonisti insieme al pubblico, di tutti i nostri discorsi e senza i quali nessun sistema teatro sarebbe possibile.

Questa crisi quindi da dove deriva? Da mancanza di idee degli artisti, dalla loro incapacità di rispondere alle sfide del Ventunesimo secolo? Oppure sono venute meno alcune condizioni a partire dal sistema educativo, per passare alla produzione, distribuzione e promozione? Non sarà che lo spettacolo dal vivo è malato perché le condizioni economiche imposte dal neocapitalismo sono difficilmente compatibili con un’attività che prevede: incertezza, fallimento, mettersi in dubbio, ricercare l’incerto e l’improbabile e tempi di produzioni lunghi e riflessivi?

Partiamo dagli obiettivi del capitale: per accrescersi deve potersi accumulare e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito, ma vi sono a volte degli ostacoli che possono provocare delle crisi. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta la conseguenza che i mezzi spesso siano inadeguati al progetto, così come le tecnologie applicabili e infine per un’efficiente organizzazione del lavoro si dovrebbe assumere e coinvolgere altre figure professionali le quali per lo più non possono per mancanza di fondi essere chiamate a collaborare. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti abbiamo sul mercato un’iperproduzione che porta più prodotti di quanti se ne possano consumare. All’artista si chiede di produrre almeno un’opera all’anno imponendogli inoltre la necessità di un risultato certo. Conseguenza: troppe opere da smaltire e in più l’artista, per soddisfare in maniera certa il pubblico e gli operatori, è indotto a ricercare la via facile e consueta ripercorrendo stilemi già accolti, sentiero che ha la controindicazione di annoiare e non rispondere veramente alle mutate esigenze.

In conclusione: eravamo malati ben prima del conclamarsi del coronavirus.

David Harvey

Il teatro si configura come una non-economia che chissà per quale motivo il capitale vuole sia gestito e trattato come un’azienda nonostante non abbia minimamente gli stessi scopi; una non-economia le cui maggiori immissioni di capitale sono elargite da benefattori e solo in parte dal pubblico. Tali “mecenati” pubblici e privati, essendo dei donatori volontari, impongono delle regole a chi vuole ottenerli e i loro scopi spesso divergono da quelli dell’arte e forse sono proprio questi obiettivi che oggi ci hanno condotto a una impasse.

Marc Fisher nei suoi scritti sostiene che una delle caratteristiche principali della nostra cultura è quella di essere affetta da hauntologia, dal verbo inglese To Haunt che indica sia l’abitare che l’essere infestati da fantasmi. Con il termine “rubato” a Derrida il filosofo e critico inglese, intende uno stato emotivo sospeso tra il “non più” e il “non ancora”, uno spazio abitato da fantasmi in cui per lo più si è incapaci di immaginare un futuro. Causa principale di questo sentimento o disposizione d’animo è per Fisher appunto il neocapitalismo. In questo passo spiega bene perché: «i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all’impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l’eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo». Questa necessità di immediato riscontro delle proprie azioni a cui segue il conseguente pensiero per cui il fallimento non è proprio contemplato, prevede che la maggior parte dei cosiddetti successi sia in gran parte solo sulla carta e non incida minimamente sulla realtà delle cose (spesso per esperimento chiedo a colleghi e addetti ai lavori chi abbia vinto il Premio Ubu di due o tre anni fa e raramente ottengo una risposta corretta…). Questa tendenza Fisher la chiama Stalinismo di mercato ossia: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno appunto che durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

Marc Fisher

Il problema è che gli obiettivi dell’arte dovrebbero essere lasciati nelle pertinenze di artisti e direttori artistici, in quanto unici e veri competenti nelle questioni che riguardano il proprio ambito, e invece vengono abbandonate nelle mani della politica e, cosa ancor più perniciosa, degli economisti della cultura. Da qualche anno laddove la politica con il suo sistema assistenziale che non premia i migliori progetti ma la sussistenza di un comparto, è venuta meno a causa delle continue crisi economiche (in Italia il 2011 è stato per esempio un anno orribile), il posto è stato preso dalle fondazioni bancarie, salutate dai più come i veri salvatori della patria. Per usare le parole di Alain Badiou :«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». Peccato che, sempre per stare alle parole del filosofo francese, questi signori non sono stati in grado di prevedere i disastri causati, limitandosi a constatarli soltanto in seguito, come chiunque altro.

Alain Badiou

Trattare l’arte come un’azienda, caricarla di obbiettivi quali l’incremento infinito del pubblico come fosse il PIL, vessarla di continui questionari e autovalutazioni assolutamente inutili, è la risposta ai problemi del teatro? Certo nei decenni addietro il teatro non era stato in grado di concepire soluzioni alle male gestioni, al suo proprio sostentamento, a un rapporto solidale e costruttivo con un nuovo pubblico (pensiamo all’ossessione dell’abbonato di cui già parlava Carmelo Bene) ma adottare i metodi del neoliberismo non sembra aver migliorato la situazione. Anzi si osservano sempre più eventi e spettacoli cloni rispondenti più ai parametri e agli algoritmi che ai desideri di chi li realizza e di chi li fruisce. Sempre più spesso si partecipa a festival che si distinguono solo per il luogo in cui si svolgono e per lo spirito con cui vengono gestiti che per i contenuti o per le modalità. E così pure gli spettacoli vengono ad assomigliarsi per argomento o per tipo di interazione a seconda dei parametri scelti dai finanziatori politico-economici senza considerare i reali bisogni di pubblico e artisti. Con bisogni del pubblico non intendo parlare di gusti ma proprio di temi non risolti i quali affliggono una comunità o società. Se fosse solo una questione di gusti basterebbe far scegliere agli spettatori consegnandogli le chiavi della direzione artistica (e in qualche caso qualcuno ci è arrivato vicino).

Per altro il considerare il teatro un azienda dovrebbe almeno comportare che la filiera produttiva distributiva venga implementata secondo metodi capitalisti in modo che l’investitore possa guadagnare e reinvestire. E questo si sa è cosa praticamente impossibile. Nessuno sano di mente pensa di guadagnare un surplus da reinvestire rispetto a quanto speso per la produzione. E questo dai teatri stabili alla piccola compagnia indipendente. Inoltre in qualsiasi azienda il settore ricerca e sviluppo sarebbe uno dei più cruciali invece nel teatro (e con teatro intendo anche la danza o le performing arts) la ricerca è quasi un di più, qualcosa da fare in residenze creative dislocate nel tempo e nello spazio quando ci sarebbe bisogno di continuità e in molti casi autofinanziate dall’artista stesso con la speranza che questo comporti un inserimento nella programmazione.

Tutto questo, in questa sede semplicemente accennato e non approfondito come dovrebbe, evidenzia come l’aver adottato supinamente i metodi del neocapitalismo non abbia in alcun modo migliorato la qualità delle opere e la situazione lavorativa degli artisti per cui sorge spontanea la domanda: perché tutta questa smania di tornare a come era prima? Perché non approfittare della situazione per chiedere alle istituzioni di cambiare marcia e concordare nuove strategie che comprendano i reali bisogni degli artisti? Perché non pensare insieme a soluzioni alternative che siano veramente di condivisione con il pubblico senza cercare risultati facilmente ottenibili nell’istante ma piuttosto attraverso procedure di lungo periodo? E queste famose reti di cui tutti parlano, perché non farle diventare un luogo di co-creazione invece di una forma mascherata di concorrenza gentile (i tanto sbandierati concetti di rete e collaborazione nella ricalendarizzazione sono sfumati totalmente in una totale sovrapposizione per l’autunno facendo i conti senza l’oste, ossia con il legislatore che pare invece orientato a riparlarne per la fine dell’anno)?

A questo punto del discorso mi vengono in mente due scene tratte da due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. Ci siamo abituati a questo pensiero il quale impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Dall’altra ci siamo abituati alla bistecca che ci veniva elargita. Benché diventasse sempre più esigua, servita fredda e in ritardo ci siamo lasciati convincere che fosse succosa e succulenta seppur insufficiente.

Questo è il momento del coraggio. Dobbiamo scuoterci, prendere la pillola rossa e essere magari pronti a una terribile realtà, ma non ritrarre lo sguardo da una verità: quanto c’era prima era solo un lenta agonia di un sistema incapace di reale rinnovamento e colonizzato da pensieri non propri. Come dice Mark Fisher: «Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono: e non perché in loro il desiderio c’è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio».

Milo Rau
Milo Rau

Solo nel prendere coscienza delle nostre reali competenze e delle funzioni proprie del teatro potremo inventare formule nuove e necessarie per noi e per la società o comunità che abitiamo. Smettiamola di parlare di pubblico o di spettatore, cerchiamo il contatto con chi come noi ha vissuto una storia e condividiamo il momento del racconto. Cerchiamo come suggerito dal Gent Manifesto di Milo Rau di far comprendere la necessità di una nuova filiera produttiva che integri creazione, produzione, distribuzione e che renda il teatro un luogo di condivisione vera, un luogo in cui si possa ricostruire l’agorà, dove le persone possano rielaborare le crisi, trovare soluzioni condivise, ed essere veramente una polis. Se non saremo pronti a cambiare non potrà che avvenire quanto ritratto da Laurens Bancroft, il Mat miliardario di Altered Carbon di Richard K. Morgan: «I giovani di spirito, gli avventurosi, sono partiti a stormi sulle astronavi. Sono stati incoraggiati ad andarsene. Sono rimasti i flemmatici, gli obbedienti, i limitati. L’ho visto accadere, e all’epoca ne sono stato felice perché rendeva molto più facile creare un impero. Adesso mi chiedo se sia valsa la pena pagare quel prezzo. La cultura è ricaduta su se stessa, si è aggrappata alle norme per tenersi in vita, ha optato per il vecchio e il familiare».

Letture consigliate:

David Quammen, Spillover, Adelphi, Milano, 2014
Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018
Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019
Mark Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018
Richard K. Morgan, Altered Carbon, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Angeli spezzati, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Il ritorno delle furie, TEA Libri, Milano, 2018
Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2016
David Harvey, L’enigma del capitale: e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011
Fredric Jameson, Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, Fazi Editore, Roma, 2007
Jean Baudrillard, La scomparsa della realtà: antologia di scritti (comunicazione sociale e politica), Fausto Lupetti Editore, Milano, 2009