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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – III PARTE

:«Per l’essenziale, i Beni culturali plasmeranno in serie gli individui che formano il bacino di clienti e di sostenitori necessari al capitale» Alain Desnaul La mediocrazia

«Bisogna accettare, come fosse una legge della ragione, che il reale esiga in ogni circostanza una sottomissione piuttosto che un’invenzione?» Alain Badiou Alla ricerca del reale perduto

:«La pura frenesia non crea nulla di nuovo, ma ripropone e accelera ciò che è già disponibile» Byung-Chul Han La società della stanchezza

Nel nuovo e incalzante mondo dell’impresa in cui le arti performative si apprestano a fare il proprio ingresso è lecito farsi una domanda preventiva: di quale capitale dispone la neonascente industria di cultura? Prima di tutto di quello derivato dal sostegno dello Stato attraverso tutte le sue istituzioni (Ministero della Cultura, Regioni, Comuni, Circoscrizioni, Municipalità); in secondo luogo le Fondazioni Bancarie, le quali in alcuni territori, sono veri pilastri nel sostegno alle attività di cultura; in misura più marginale da progetti europei nei suoi vari canali dedicati (Interreg e Alcotra per esempio); infine una minima parte derivata da incasso da attività propria (Bar, biglietteria, merchandising, corsi, affitti sale, etc). La sponsorizzazione privata generalmente, a parte rari casi e in maniera molto diseguale, si concentra nei riguardi di Enti Lirici, Teatri Nazionali, Tric e Grandi Festival che possono garantire ai marchi di prestigio un ritorno di immagine. Per strutture medie e piccole il finanziamento privato, pur con lo strumento dell’art bonus, ossia un credito di imposta pari al 65% per le donazioni liberali nei confronti del patrimonio culturale, stenta e risulta molto saltuario e legato a rapporti personali o territoriali.

Da questa ricognizione si può trarre una prima considerazione di base: senza il sostegno dello Stato, della Comunità Europea e delle Fondazioni Bancarie non esisterebbe alcuna impresa di cultura. Gli incassi derivati dalla vendita del prodotto cultura non sono minimamente sufficienti a sostenere alcunché, nemmeno gli artisti che li creano, figuriamoci chi deve vendere e distribuire i loro prodotti. L’impresa culturale si configura quindi come un’impresa senza capitali propri o, nella migliore delle ipotesi, con capitali insufficienti a mantenere la propria attività. Perché dunque insistere così tanto nell’aziendalizzazione del settore culturale quando appare lampante che le arti performative per mantenere uno standard di qualità elevato necessitano di investimenti fuori mercato? La risposta più ovvia parrebbe quella paternalistica: per evitare gli sprechi (cosa tutta da dimostrare), per imporre agli artisti, sempre pronti all’utopia, una concretezza di scopi, e delle finalità raggiungibili attraverso un percorso organizzato di costi e ricavi. Buone e cattive gestioni patrimoniali però si sono viste fin dalla nascita ormai secolare dei teatri a capitale privato o delle compagnie di giro. Fare buona economia delle risorse non necessita un regime di impresa. Forse come si sta facendo notare da più parti non siamo più in grado di mettere in discussione l’imperio di un modello economico che non manca di dimostrarsi fallimentare. Eppure noi ci affidiamo sempre all’economia convinti che essa sappia come uscire dalle crisi.

La cultura però, e l’abbiamo rimarcato più volte, non si costruisce in serie, non si vende ogni mattina al mercato e necessita di tempi variabili e molto elastici per il suo confezionamento. La proposta di legge Orfini sul contratto di lavoro e la tutela previdenziale e sociale dei lavoratori del settore dello spettacolo e delle arti performative. proposta che prevede l’inserimento nel nostro ordinamento dell’intermittenza alla francese, la quale finalmente riconosce che il lavoro dello spettacolo è di necessità saltuario, costituito di momenti di pausa formativa e di ricerca oltre che di intervallo tra un contratto e un altro, definisce la diversità del lavoro artistico. E quindi come si concilia questo con l’idea di impresa dove il lavoro è continuativo, ripetitivo e volto alla perpetua crescita dei ricavi, ma soprattutto con l’iperproduzione imperante? Ancora una volta tutti noi, dal legislatore, all’operatore, all’artista stiamo affidando un intero settore in mano agli economisti senza mettere in discussione la fallacia del modello. Bisognerebbe costruirne uno apposito, non basato sul neoliberismo, per non far la fine di sanità e istruzione, in cui l’ingresso del modello aziendalista ha abbassato gli standard e la qualità.

George Grosz I pilastri della società

Seconda conseguenza del fatto che il capitale necessario allo sviluppo dell’impresa di cultura derivi in massima parte da erogazioni di Stato e Regioni più le Fondazioni Bancarie, è che gli obiettivi e le finalità dell’attività dell’impresa siano eterodirette. I bandi di finanziamento definiscono di anno in anno, o di triennio in triennio, gli ambiti di intervento a cui bisogna adeguarsi per ottenere i fondi necessari. L’attività culturale e artistica, e questo lo si dice senza nessun giudizio o pregiudizio in merito, diventa spesso sussidiaria di altre attività, soprattutto sociali e didattiche verso soggetti deboli e aree disagiate. Se in molti casi questo avverrebbe e avviene con naturalezza e per istintiva attrazione, e il legislatore ha dunque percepito semplicemente una potenziale alleanza che andava sviluppata e sostenuta, bisogna però anche dire che l’attività culturale non si indirizza solamente in quest’unica direzione e le diverse progettualità possono anche anticipare necessità non ancora evidenti, perché l’arte, per dirla con Agamben, è sempre inattuale, ossia sempre leggermente sfasata dal presente. Siamo dunque ben lontani dalla cronaca. Si parla del mondo ma anticipandolo o riconsiderandolo, non certo correndogli dietro come un cronista dietro alla notizia. Inoltre come ovvio corollario se i bandi si orientano verso una determinata area di intervento giocoforza avremo l’immissione sul mercato di prodotti simili e orientati nella stessa direzione. In economia non sarebbe questa una contraddizione? Considerare una certa libertà d’azione in un campo così aleatorio dovrebbe essere non solo auspicabile ma necessario, e in passato effettivamente sono state considerate domande libere a progetto con cifre però inadeguate. Ora questa possibilità è un ramo pressoché estinto nell’albero dell’evoluzione dello spettacolo dal vivo.

Sempre per restare nell’ambito dei finanziamenti dobbiamo considerare anche una ingente sperequazione degli stessi su base territoriale. Se infatti in regioni come Piemonte o Lombardia operatori e compagnie possono accedere a svariate linee di finanziamento, pubbliche e private, a cui si assommano bandi transfrontalieri come Interrag e Alcotra, nelle Regioni del Sud nella prevalenza dei casi è lo Stato con le sue istituzioni a sostenere l’intero settore. Inoltre anche tre le Regioni vi sono effettive diseguaglianze nei sostegni e per questo basterebbe controllare i bilanci regionali e confrontare l’ammontare dei contributi regionali per lo spettacolo dal vivo. Per fare qualche esempio nel 2020 Regione Campania 15.000.000; Regione Emilia Romagna ha stanziato 3.172.000 € a cui si sommano 459.500 € per la danza e 1.535.000 per le attività multidisciplinari in cui rientrano le residenze artistiche; Regione Piemonte 1.176.000 €; Regione Lazio 1.400.000 €; Regione Toscana 450.000 € più 2.000.000 € per il RAT, sistema di residenze; Regione Sicilia 1.025.485 € ma non prevede sostegno ai festival; Regione Sardegna 6.825.086,21 di cui solo 90.000 alla danza. Ulteriore analisi sarebbe necessaria per la ripartizione di tali fondi ma non è questa la sede. Qui ci interessa semplicemente riportare una radicale differenza nei territori.

George Grosz Eclissi di sole

Veniamo ora a esaminare il mercato di un’impresa che come abbiamo visto iperproduce ben al di sopra dell’effettiva domanda, non possiede capitali propri ed è in massima parte eterodiretta nei suoi obiettivi.

Partiamo dal mercato interno. Esso si costituisce in gran parte di circuiti chiusi e impermeabili. Teatri Nazionali e Tric hanno un loro mercato costituito nella quasi totalità di reciproci scambi, nella logica del raggiungimento della quota annua di borderò e di giornate lavorative minime, per il riottenimento dei fondi legati al FUS. Gli scambi detto per inciso sono un male diffuso e in qualche modo necessario in ogni ramo del mercato teatrale italiano. Se infatti l’obiettivo è soddisfare i minimi richiesti dal ministero in qualche modo ci si aiuta reciprocamente nello scopo. Nefasta conseguenza della pratica è un mercato chiuso che non genera economia di ricaduta, in quanto ci si scambia i cachet e i borderò.

Torniamo ai Teatri Nazionali e Tric la cui programmazione a slot prevede l’inserimento di giovani, donne, repertorio, nuova drammaturgia etc. Nel riempire le caselle dedicate agli under 35 più che al mercato ci si rivolge alle proprie “cantere” ossia alle scuole, che diventano dei veri e propri vivai su modello calcistico. Questo se da un lato permette la crescita dei giovani, dall’altro impedisce l’ibridazioni con linguaggi meno scolastici ed eterodossi. Si rischia un linguaggio “da stabile”. Difficilmente infatti i gruppi indipendenti, per quanto apprezzati da pubblico e critica, entreranno nei palinsesti di questi teatri per molte ragioni prima fra tutte la non reciprocità del borderò, e a seguire l’indisponibilità delle varie direzioni artistiche a puntar sui nuovi linguaggi destabilizzanti per gli abbonati. Da ultimo ovviamente il fatto che nuovi gruppi hanno poco richiamo e un calo di pubblico farebbe abbassare gli indici per l’algoritmo ministeriale e conseguentemente i finanziamenti nell’anno a venire. Si punta sul sicuro, possibilmente con nomi di richiamo televisivo, scommettendo sulle nuove generazioni il tanto che basta.

I festival sono il vero circuito off. Essi sono diventati anche produttori oltre che un vero e proprio circuito alternativo per le nuove tendenze. Purtroppo lo possono fare in maniera insufficiente per mancanza di veri fondi dedicati alla produzione spesso avviata tramite lo strumento della residenza. In questi ultimi anni hanno creato reti alternative ai circuiti regionali e soprattutto costruito collegamenti con l’estero, interfacciandosi con i colleghi stranieri e aprendo dei canali per l’immissione dei nostri artisti sul mercato europeo. Due esempi virtuosi di rete e circuiti: Open, creazione urbana contemporanea avviato da Pergine Festival, insieme a In\Visible Cities, Zona K, Giardino delle Esperidi, Indisciplinarte e Periferico Festival, che oltre a favorire la creazione di nuovi lavori ogni anno sostenendoli in produzione e residenze creative, si costituisce come un microcircuito. Altro esempio la rete Med’Arte con capofila Tersiscorea di Cagliari che riunisce più di trenta soggetti di produzione e creazione nella danza contemporanea da quattro paesi europei e sette regioni italiane. Lo scopo è fornire ai giovani danzatori diversi strumenti dalla formazione, alla residenza creativa, alla distribuzione al fine di far crescere le loro creazioni.

Da poco è nato un coordinamento dei festival il cui scopo è di cercare di avviare politiche comuni oltreché interfacciarsi unitariamente con il legislatore. Molto resta ancora da fare in questo senso, soprattutto nella professionalizzazione delle curatele non sempre preparate al compito, e nella creazione di vere piattaforme di mercato stabili e continuative, ma i festival restano l’unica vera alternativa di mercato per giovani artisti indipendenti e soprattutto per la danza contemporanea che nei Teatri Nazionali e nei Tric risulta molto meno che marginale, relegata in piccole rassegne fuori abbonamento. I festival però sono stati i veri dimenticati nell’emergenza Covid non avendo ricevuto alcun ristoro. Altra anomalia che sa di beffa: il direttore artistico in Italia non è un mestiere riconosciuto.

I circuiti regionali sono la vera anomalia distributiva italiana. Molto si potrebbe dire sul loro funzionamento o malfunzionamento, ma in questa sede ci limiteremo a indicare le anomalie perché quanto ci preme è evidenziare la fragilità dell’intero sistema così come concepito più che puntare il dito su questo o quell’altro settore. I circuiti regionali dovrebbero essere sulla carta il collegamento tra centro e periferia, il diramarsi delle produzioni dalle piazze centrali a quelle più periferiche. La logica numerica voluta dalla centralità ministeriale (minimi di 220 rappresentazioni all’anno con titolarità di borderò) porta a equiparare territori che in nessun modo possono assomigliarsi e necessiterebbero di politiche distributive proprie. Per farla breve il Molise o la Sardegna non sono la Lombardia o il Piemonte. Il caso Basilicata con successivi fallimenti e male gestioni dovrebbe forse essere analizzato anche secondo questa logica, perché il rischio è che anche se ben gestito, con le attuali normative non potrebbe rispettare comunque i parametri numerici imposti.

Altro caso anomalo è Regione Lombardia che ha lasciato il settore in mano a imprenditori privati in libera concorrenza. Risultato: i circuiti sono ben dodici, di cui solo uno Claps è riconosciuto dal Ministero. In Umbria, regione in cui un circuito non si sarebbe potuto sostenere, il Centro di Residenza C.U.R.A. (Indisciplinarte di Terni, La Mama Umbria International di Spoleto, Centro teatrale Umbro i Gubbio, Micro Teatro Terra Marique di Perugia e GE.CI.TE SOC. COOP. Di Foligno) ha formato un piccolo circuito autonomo. Le difficoltà e le divergenze territoriali come si vede abbondano in un paese disomogeneo come il nostro, dove l’unità pare ottenuta solo di nome e non di fatto. Viste le difficoltà in alcuni territori nell’instaurare un circuito, il legislatore sembra voler dare facoltà a quelli esistenti di estendere le proprie attività a regioni confinanti se non dotate di circuiti, Così Arteven opera nell’intero Triveneto e probabilmente il Piemonte annetterà a livello spettacolare la Liguria.

Oltre a questi vettori principali molto disomogenei nelle politiche, nell’efficacia e nella distribuzione territoriale resta la distribuzione fai da te. Per raggiungere i minimi per i contributi ministeriali infatti molti si “accontentano” di piazze molto periferiche, non professionali e con fondi non adeguati alla professionalità degli artisti. Tali piazze si accettano per ottenere il borderò e cumulare le giornate lavorative ma a cachet molto ridotti. Per integrare si scorporano parte di fondi di produzione. In questo modo se ci si garantisce il raggiungimento dei minimi per concorrere al finanziamento ministeriale, allo stesso tempo si impoverisce il tesoretto per la produzione. Infine i giovani e giovanissimi all’esordio non trovando spazio nei principali circuiti, occupano ogni spazio possibile, spesso in maniera gratuita, senza tecnica, al limite del dilettantesco rischiando così di rimanere invischiati in un anonimato senza speranza. A livello di distribuzione interna quindi il paese sembra un un organismo male assemblato, con i diversi organi che non solo non comunicano tra loro ma paiono far parte di corpi alieni e sconosciuti.

Se la situazione del mercato interno non è rosea per impermeabilità dei sistemi, disomogeneità regionali e anomalie gestionali e normative, sul côte internazionale scarseggiano strumenti sistemici, organismi nazionali dedicati, competenze e soprattutto, una visione e investimenti a lungo raggio.

Innanzitutto mancano istituzioni che investano sull’immissione e la promozione degli artisti italiani sul mercato estero sul modello per esempio di Pro Helvetia in Svizzera, organismo volto a favorire e promuovere le arti in ambito internazionale, o di Alliance Française (organismo che si autosostenta al 95% con i corsi di francese e percepisce dallo Stato solo il 5% del budget). Qualcosa in questo senso fanno i nostri Istituti di Cultura Italiana all’estero ma in maniera disomogenea, saltuaria e con pochi fondi a disposizione per lo più per la copertura di viaggi e le spese di vitto e alloggio. Notiamo che gli Istituti Italiani all’estero sono in numero di 85 contro le circa 1072 di Alliance Française di cui 51 solo in Italia.

Da qualche anno è stato attivato da parte del Ministero il bando Boarding Pass Plus i cui scopi sono: internazionalizzare le carriere e i processi creativi e valorizzare le reciprocità. I progetti ammessi sono ventuno divisi tra danza, musica, teatro, circo e progetti multidisciplinari finanziati per 1.050.000 quindi tra i 40.000€ e i 60.000 €. Una commissione sceglie i progetti tra le domande pervenute e il progetto di sviluppa su un biennio. Oltre a Boarding Pass Plus, ulteriore strumento a disposizione ma limitato a chi è finanziato dal FUS è il Fondo Cultura Estero a sostegno delle tournée italiane, dove la domanda viene sempre valutata da una commissione e le tempistiche di risposta non sono per nulla celeri in quanto solitamente comunicate a fine luglio. Chi venisse invitato dal Festival di Mosca o di Johannesburg ma non accede a questi due unici motori di internazionalizzazione, e nemmeno riesce a instaurare un rapporto con un Istituto Italiano all’estero e quindi magari ottenere dei fondi dal Ministero Affari Esteri, si paga il viaggio oppure resta a casa. E poi ci si domanda perché i nostri artisti siano poco presenti in Europa e nel Mondo?

Sia Bording Pass sia il Fondo Cultura Estero sono dunque interventi estemporanei, limitati, non sistemici e soprattutto sottofinanziati. Per sostenere i nostri artisti all’estero bisognerebbe lavorare su ben altro livello, finanziando in primis ogni soggetto che riceve un invito da un festival o teatro estero indipendentemente che percepisca sostegno dal FUS e aldilà delle valutazioni delle commissioni. Inoltre si dovrebbe sostenere non solo le spese di viaggio ma tutta una serie di attività atte a potenziare e facilitare l’esportazione delle opere dei nostri artisti, dalla sottotitolatura degli spettacoli, al sostegno ai viaggi degli operatori esteri nel nostro paese al fine di visionare opere italiane e soprattutto istituire una o più piattaforme di mercato permanenti in cui favorire gli scambi con l’estero.

La NID platform nella danza si muove in quest’ottica ma con dei difetti congeniti. Innanzitutto è biennale, i lavori ammessi sono in numero troppo ridotto, a produzione chiusa (ossia dopo un debutto) e poco spazio viene concesso ai cosiddetti progetti open, ossia a quelle creazioni in fase iniziale di lavorazione alla ricerca di partner di coproduzione, ambito in cui veramente si potrebbe e dovrebbe potenziare la collaborazione internazionale soprattutto per implementare le scarse fonti di finanziamento alla creazione.

Una modalità per strutturare interventi sul lungo periodo potrebbe essere prendere esempio dal settore cinematografico (vera industria culturale) in cui i grandi festival si sono costituiti come piattaforme di mercato e di incontri tra operatori del settore promuovendo all’interno delle programmazioni, appuntamenti dedicati all’industry con coproduction forum tra paesi europei, pitching di produzione a cui seguono One-to-one tra artisti e produttori, fondi e bandi per le opere prime e seconde (in Italia un esempio è il Torino Film Lab durante il Torino Film Festival, ma il vero modello è Hubert Bals Fund di International Film Festival di Rotterdam). Ovviamente questo significherebbe un radicale rinnovamento del settore che andrebbe finanziato con capitoli di spesa appositi.

Per concludere questo breve excursus sul mercato interno ed estero nel settore dello spettacolo dal vivo, non si può non continuare a notare l’anomalia di voler spingere un settore verso il mercato e l’aziendalizzazione delle sue attività quando mancano tutte le strutture atte a far sì che un impresa operi appunto da impresa. Un’industria culturale che non ha mercato né interno né estero, non possiede risorse proprie a meno che non venga sostenuta da organismi statali o fondazioni private, che non può nemmeno operare pienamente a scopo di lucro a meno di non perdere i fondi di cui sopra, e infine, si trova costretta a proporre ogni anno nuovi prodotti su un mercato saturo in cui l’offerta supera di ben tre volte la domanda, è un’industria che, allo stato dei fatti, può far concorrenza solo al Titanic a meno che non si riveda l’intero sistema.

Da ultimo poi ci si dovrebbe porre la domanda: ma tutto questo sarebbe veramente necessario? Non esistono scenari alternativi? Creare un’industria dello spettacolo dal vivo non cancellerebbe le sue funzioni primarie, quelle politiche e culturali, che ne sono state a fondamento? Questa domanda non nega che ci debba essere sostenibilità dell’impresa, e nemmeno che l’intera produzione abbia solo alte finalità, ma se tutto diventa un prodotto culturale sottoposto a principi esclusivamente economici non si rischia di rendere quasi impossibile la creazione volta a formulare nuovi paradigmi di pensiero? Non si rischia di avere con la comunità-pubblico solo un rapporto economico e non di scambio di relazioni, esperienze, visioni?

Prima di accettare senza discutere la trasformazione voluta da Economia, a cui sembra vengano delegate tutte le risoluzioni dei problemi, benché non sappia nemmeno prevedere le magagne che la riguardano, forse dovremmo farci qualche domanda e considerare se veramente vale la pena saltare sul carro che da quarant’anni ci insegnano essere inarrestabile, benché non cessi di dimostrare quanto proceda a stento e tra crisi continue da lui stesso causate.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE II

:”Solo quando avranno ridotto le forme che si sono sviluppate indipendentemente da loro a pure e semplici commedie che s’inseriscono nel gioco del commercio, la loro unica passione, fino a vederci nient’altro che una rigida dimostrazione di forza monetaria, a quel punto si sentirà risuonare una grassa risata”.

Alain Desnault La mediocrazia

Come crawling faster/ obey your master/ your life burns faster/ obey your master

Metallica Master of Puppets

Economia è regina incontrastata di ogni settore dell’umana attività in questo Ventunesimo secolo. Essa regna affiancata da Burocrazia e Cronofagia, e spadroneggia indisturbata come un tempo Ares dominava i campi di battaglia, insieme ai figli Phobos (paura) e Deimos (Terrore). E come Ares strappò Afrodite, dea della bellezza, dalle braccia di Efesto, dio artigiano ma zoppo, così oggi Economia compie il ratto dell’arte rubandola alla sua bottega e mettendola sul mercato. Non è un caso che uno dei sogni nefasti sorti agli albori della modernità capitalista sia quello di Baudelaire sul bordello-museo, dove lui, l’artista, accorre a presentare il suo nuovo libro alla maîtresse, e trova le sale piene di opere d’arte, prostitute e signori dell’alta finanza.

Difficile è individuare quando esattamente sia iniziato il processo. C’è chi dice (Alain Badiou) negli anni Settanta quando diversi fenomeni coincidenti cominciarono a verificarsi: fallimento in Occidente dei moti rivoluzionari e riformatori giovanili, armati o pacifici che fossero; avvio della deregulation del capitalismo; inizio della dissoluzione del blocco sovietico. Poi gli anni ’80 di Reagan e della Thatcher, quelli della Milano da bere e del There is no Alternative. Nella storia ogni punto d’origine è sempre arbitrario ma se per un momento proviamo a pensare a quanto è cominciato a accadere nel campo delle arti performative proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, riscontriamo un graduale e parallelo scemare delle istanze politiche e sociali nonché delle utopie riformatrici. L’arte gradualmente si è richiusa su se stessa. Forse la scomparsa di una contronarrazione efficace al capitalismo liberista ha fiaccato il campo dell’opposizione e col tempo si è creato quello che potremmo chiamare Effetto Parasite dal meraviglioso film di Bong Joon-ho: non più ribellione né contrasto ma bensì desiderio di emulazione.

Ancora negli anni ’90 però vi era una vitalità politica forte, riconosciuta e condivisa Pensiamo a Barboni e a Guerra di Pippo Delbono, il Marat-Sade di Armando Punzo, la Biennale di Carmelo Bene (1989), i Teatri Invisibili e la nascente Generazione Novanta. Ma quella stagione sembra sempre più un’estate di San Martino. Oggi si parla più di bandi ministeriali, di FUS ed ExtraFUS, di borderò piuttosto che di funzioni o di finalità politiche del teatro. Quando l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo scorso anno disse: ”i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, il mondo teatrale si scandalizzò, dimenticandosi però che Valerio Binasco, assumendo il ruolo di consulente artistico al Teatro Stabile di Torino disse parole ancor più gravi: «Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta»!

Umberto Boccioni Rissa in Galleria

Da tempo dunque il mondo delle arti performative ha perso un ruolo da giocarsi nella società, condividendo istanze e problematiche con altre categorie sociali come avveniva nel passato. Perché questo è avvenuto? Probabilmente perché non è più stata la politica il referente antagonista, ma bensì l’economia, la quale più che avversario e competitore con cui è possibile discutere, magari in maniera accesa, essa si è imposta come matrigna fortemente ingerente nella vita dei figliastri recalcitranti; e con una genitrice che elargisce una paghetta non si arriva a un compromesso, si può solo obbedire o disubbidire in un rapporto costituito in massima parte da premi e punizioni. Come disse nell’aprile del 2016 George Mombiot sulle pagine di The Guardian, quotidiano non certo tendente all’estrema sinistra :«Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche sono esercitate al meglio attraverso la compravendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene che “il mercato” fornisce benefici che non potrebbero mai essere raggiunti dalla pianificazione».

Gli effetti di tale ingerenza non sono facilmente districabili. Essi si diramano come un corpo estraneo in ogni ambito della filiera creativa dalla formazione alla internazionalizzazione, sovrapponendosi però a un sistema che ancora risente di valori a essa alieni. La filiera artistica risponde a questa estranea possessione in maniera scomposta a volta rigettando, a volte rendendo impossibile l’agire, altre in modalità autoimmune. Per risolvere la questione bisognerebbe agire come Alessandro di fronte al nodo gordiano: tagliare e resettare, ma questa si profila la possibilità più remota e utopistica. Nell’analisi della filiera, non potendo isolare i sintomi, non resta che toccare gli argomenti e di volta in volta ritornare, ripetere, riformulare.

Cominciamo dal principio ossia dalla volontà di trasmutare l’azione culturale, attività artistica e politica come quant’altre mai, in azienda o impresa di cultura. La prima considerazione è che le parole non sono innocue: quando il teatro, il cui etimo greco significa: il luogo da cui si guarda, e quindi prevede un osservatore che profonda il suo sguardo in un oggetto o in un mondo, diventa un luogo di profitto, in cui qualcosa viene venduto a qualcuno, ci troviamo in un universo completamente alieno da quello di partenza. Se poi osserviamo le parole dal punto di vista della comunità che frequenta il luogo in oggetto (perché teatro è un luogo prima che un arte!) essa si trova trasformata da agorà a cliente e consumatore, ed ecco che improvvisamente qualsiasi valenza politico sociale si annienta nel buco nero della quantificazione economica. Ultima ma non ultima l’economia mal s’accomoda a fianco dell’etica. Qualcuno potrebbe affermare, e non senza ragione, che nemmeno l’arte va troppo a braccetto con la dama pudica e castigata, ma la cultura sì, come l’istruzione. Essa si basa su principi etici di apertura a tutte le categorie, soprattutto alle più svantaggiate e deboli, tende a voler far crescere la società nei suoi valori, e nei momenti di crisi è stata il collante delle comunità (pensiamo agli Ebrei o ai Tibetani, popoli che nell’esilio sono sopravvissuti e sopravvivono proprio grazie ai valori culturali). In economia vince solo il più forte, chi ha più capitale, e quindi la naturale conseguenza, come diceva Trump, diventa: i poveri sono dei perdenti.

Impresa culturale è termine che ci trasporta in un altrove volto a snaturare le funzioni e quest’ultime sono tutt’altro che questione di lana caprina o di lanugini ombelicali, si parla delle fondamenta di un’arte millenaria. Ecco dunque che proprio nell’assunzione del termine ci si trova di fronte alle prime anomalie: sostegno pubblico e impresa culturale difficilmente si trovano in un piano di accordo vicendevole. Infatti le normative rivelano difetti e malformazioni. In epoca Covid, in tempi di ristori e di aiuti straordinari in molte regioni le cosiddette imprese culturali si sono trovate escluse dai sostegni alle piccole e medie imprese proprio per il fatto di essere senza fine di lucro, status necessario a chi richiede fondi di sostegno per l’attività culturale sia da parte regionale sia da fondazioni bancarie. E questo all’alba della riforma del terzo settore che obbliga tutti gli attori del settore culturale a divenire impresa di cultura. Quale? Nemmeno l’Agis saprebbe consigliarvi per il meglio.

Facciamo qualche esempio tre regionali e uno nazionale. Cominciamo dalle segnalazioni regionali tre casi sparsi per il territorio nazionale tra Nord, Sud e Isole. Primo: il bando Sì Lombardia, in cui Regione Lombardia chiedeva per la partecipazione l’iscrizione al REA (Registro delle imprese) e l’ottenimento del DURC, così come altri vincoli specifici al mondo imprenditoriale, eppure nonostante queste richieste il comparto culturale è stato escluso perché non ha fine di lucro. Secondo: la Legge quadro sulle azioni di sostegno al sistema economico della Sardegna a salvaguardia del lavoro a seguito dell’emergenza epidemiologica da covid-19 in cui i sostegni previsti sono a compensazione di un mancato reddito di impresa cosa difficilmente dimostrabile per chi è senza scopo di lucro. Terzo: la Basilicata si potrebbe annoverare tra i “casi curiosi”, in quanto ha pensato al tessuto dell’impresa profit, escludendo l’impresa non profit, anche nei casi in cui la normativa lo prevedeva e consentiva. Un caso concreto: Avviso Pubblico Misura straordinaria emergenza sanitaria COVID 19, emanato a giugno 2020, proprio per dare le prime risposte alle difficoltà causate dalla pandemia, assegnando un contributo, seppur minimo, a fondo perduto per i soggetti giuridici che ne avessero fatto richiesta. L’impianto normativo di riferimento e i criteri di concessione del contributo risultano interessanti, ovvero c’è il “classico” rimando al Regolamento UE n. 651/2014 e al suo Art. 1 dell’Allegato 1, ormai caposaldo di Avvisi e Bandi e che definisce il perimetro dell’Impresa, facendo rientrare anche le Associazioni che svolgono regolarmente attività commerciale; ed è definito un importo del contributo in base al numero di addetti/dipendenti del soggetto richiedente: mille Euro per nessun addetto, duemila Euro per chi ha in organico fino a cinque addetti e tremila Euro per chi ha da 6 a 10 addetti. Pur non volendo entrare nel merito tecnico e discutere l’adeguatezza o meno del provvedimento specifico, la cosa che si evidenzia e che contraddice l’azione dell’Ente Regione è l’impossibilità, per le forme associative (anche se iscritte al R.E.A. della Camera di Commercio di riferimento esattamente come in Lombardia) di poter accedere alla Misura: non per motivi di Codice ATECO o mancanza di dipendenti ( l’Avviso tutelava anche soggetti senza dipendenti), bensì per il tipo di forma giuridica: Associazione. Dopo questo breve excursus esemplificativo su base regionale riportiamo un esempio nazionale: Invitalia e il “suo” Bando Impresa SIcura per il rimborso degli acquisti di dispositivi di protezione per i propri lavoratori, sostenuto da un fondo INAIL -di cinquanta milioni di Euro- di cui tutti conosciamo le funzioni: contrasto agli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Un bando che in uno dei suoi primi articoli specifica chiaramente che la tipologia di forma giuridica del soggetto non inficia la richiesta di contributo, ma nella sezione FAQ riporta l’impossibilità per le forme associative di accedere al contributo, e porta con sé quindi una contraddizione forte nel momento in cui si pensa alla tutela dei dipendenti, e alla luce di una normativa impresa, ripetiamo, che allarga lo spettro dell’impresa stessa. C’è un fondo INAIL, che è alimentato anche dalle associazioni con dipendenti e che quindi versano l’assicurazione obbligatoria, c’è il riferimento ai lavoratori, ma ciò che conta è la forma giuridica. Non se ne comprende la motivazione.

Questi sono solo quattro esempi su decine che si possono fare della contraddizione in termine di cultura, impresa e sostegno pubblico nelle normative attuali alla vigilia della riforma del terzo settore.

Nella visione dell’economista la cultura è un impresa e come tale ha un unico obiettivo centrale su cui si deve focalizzare il finanziamento: la produzione di un oggetto di consumo. L’opera è il prodotto. Tutta la filiera delle arti performative si è così concentrata nell’unica attività premiata dal modello economico: il prodotto e lo ha fatto talmente bene che le ore di produzione sono quasi tre volte tanto quelle di rappresentazione! Si calcola in ben 23000 ore di recite di produzione e solo 9100 di recite di distribuzione dato questo che lascia intendere due cose: una spinta decisa e sproporzionata sulla produzione e il disequilibrio evidente tra le opere e la loro effettiva possibilità di circuitare. E stiamo parlando solo dei valori censiti nelle strutture riconosciute e finanziate dal Ministero.

Il mercato quindi è inondato di prodotti di cui in verità c’è scarsa domanda, ma essendo l’unico modo per percepire denari attraverso i borderò ecco che tutti persistono nell’errore di produrre nuovi oggetti destinati a nascere già morti. Pensiamo a quanto avviene in questi giorni di teatri chiusi, dove l’unica attività lecita sono le prove, tutti hanno prodotto, ma su quale mercato verranno venduti? E se consideriamo l’accumulo delle creazioni viste poco o per niente nel 2020 quali piazze smaltiranno tutti gli invenduti? E nel 2022 che facciamo: produrremo ancora in massa, soppiantando le opere dalla vita brevissima di questo biennio? Si profila all’orizzonte una vera strage degli innocenti.

Umberto Boccioni Velocità

L’iperproduzione è il primo effetto del malsano innesto di valori economici in ambito culturale e artistico. L’opera nasce da un’esigenza che nasce sì nell’artista, ma questo lo dovrebbe cogliere in seno alla società. Dall’incontro tra i due soggetti dovrebbe nascere un dialogo dovuto alla necessità. Come in American Gods i nuovi dei mal digeriscono i vecchi dei e così Economia mal sopporta l’imperio di Ananke, anzi vive e prolifera proprio laddove non vi è necessità alcuna: fatto il prodotto, creato dal nulla il bisogno, si crea il mercato. Non importa che il pubblico chieda o meno l’opera, e nemmeno si necessita che l’artista abbia qualcosa da dire a un pubblico. A ogni stagione bisogna immettere novità in palinsesto, cose mai viste da nessuno, possibilmente in prima assoluta, in mancanza di queste almeno in prima regionale. E di conseguenza ecco l’ossessione per l’audience engagement. Il pubblico deve crescere esponenzialmente come il PIL, non si deve arrestare mai, anzi a ogni stagione bisogna trovare nuovi escamotage per mobilitarne di nuovo. L’arte però ha tempi lunghi, digestioni lente, passaparola antichi, tutti valori che mal s’accordano con i principi di quantificazione immediata del successo. E così per ottenerlo la qualità scende, si ibridano i linguaggi propri della scena con quelli di più sicuro appeal della televisione, della serialità cinematografica, dei social network. Ora chiariamo: niente contro l’ibridazione dei linguaggio purché il teatro resti tale, se diventa televisione, o Tik Tok allora i presupposti sono sbagliati. I mass media di massa, soprattutto quelli digitali, hanno numeri incomparabili a quelli che può raccogliere il vecchio carro di Tespi. La corsa al pubblico è dunque persa in partenza. Per il teatro dovrebbero essere I rapporti ad assumere importanza, e con essi le relazioni con i territori e le questioni sociali, quello che per i sociologi è l’impatto sulla società, ma su questo ritorneremo con un focus apposito. Come detto è difficile districare i temi che sono follemente interconnessi.

Se dunque bisogna produrre a tutti i costi, se la guerra si compie sulla prima ad ogni costo quali sono le conseguenze per il comparto? Innanzitutto sparisce il repertorio. Le opere infatti si riattualizzano rispetto ai contesti che risemantizzano i contenuti, per quanto vivano l’istante hanno una aspettativa di vita ben più lunga dei 12 mesi a cui spesso sono destinate. Ora però se la gara si gioca sulla novità a tutti i costi, le opere giocoforza hanno vita breve se non brevissima, soppiantate dal nuovo prodotto. Stessa cosa per l’artista giovane il quale va sfruttato in fretta, prima cioè che venga immesso uno più giovane sul mercato. E così si inaridisce la fonte primaria di formazione: il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Se si bruciano le tappe sovraesponendo le forze giovani fino all’età critica dei 35 anni, inevitabilmente coloro che passano il fatidico vallo di Adriano e diventano over si trovano per lo più scartati, e così non si storicizza la ricerca, non si passano le abilità e le tecniche. I giovani poi vengono indotti a produrre impreparati perché va venduto non tanto il loro talento ma la loro giovinezza. I palinsesti poi non privilegiano una territorialità ma, sempre in gara con le première, comprano i vincitori di premi, le prime regionali, il giovane appena scoperto. L’artista di esperienza, a meno che non sia famoso, non fa pubblico perché è già visto, lo si conosce già, non ha la patina del nuovo ad ogni costo. Attenzione: quando si parla di novità essa deve però essere rassicurante, non così nuova da scuotere veramente il pubblico. Infatti se per un cellulare o una televisione si corre a comprare l’ultimo modello, in arte viceversa il nuovo terrorizza. Quello che si vede sulle scene deve essere una novità con una patina di assoluta e certa riconoscibilità in modo da confermare i gusti del pubblico e non gettarsi in pasto al rischio di scontentarlo e quindi perdere in sbigliettamenti e abbassare l’indice di incremento degli spettatori-clienti.

Ulteriore danno provocato dal concentrarsi sulla sola produzione è la loro quantificazione. I parametri ministeriali (per ora sospesi ma non aboliti) valutano la qualità solo per il 30%. Il restante 70% si riferisce alla quantità: tanto pubblico, tante date, tanta rassegna stampa. E se la quantità vince sulla qualità, l’opera si adegua a un fast food dove non importa che l’hamburger sia veramente buono, ma che lo consumi più gente possibile.

La vera anomalia però è il mercato stesso. Esiste? Si sono implementati dei reali strumenti per la sua espansione? Ci sono progetti di immissione dei nostri prodotti culturali sul mercato estero? La distribuzione funziona? Nel prossimo articolo proveremo ad analizzare la forma e il ruolo del cosiddetto mercato nella nostra filiera produttiva.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – I PARTE

… forse il domani somiglierà all’oggi. Si direbbe che noi seminiamo una semente contaminata. Ignazio Silone Vino e pane

Quando giunge il momento di agire, il tuo pensiero deve essere già completo. Non ci sarà spazio per pensare quando l’azione comincerà. Richard Morgan Il ritorno delle furie

:«Sopporti che la bandiera imperiale domini sulla galassia?» :«Non è un problema se non guardi in alto». Rogue One

PREMESSA NECESSARIA

Crisi è la parola probabilmente più usata nel corso dei primi vent’anni di questo secolo. Si passa da una all’altra, dal terrorismo alle catastrofi naturali che naturali spesso non sono, dall’economia alla sanità. Oggi più che mai nemmeno la cultura riesce a sottrarsi a questo termine dopo mesi di serrate forzate, ristori a singhiozzo (quando arrivano), provvedimenti mal digeriti. Alla parola crisi però si fa fatica a far seguire un’indagine sulle ragioni che l’anno generata, spesso perché l’attenzione è già rivolta a quella successiva, e quindi più attuale. L’indagine è però quantomai necessaria proprio per comprenderne i motivi ed eventualmente emendarli, correggerli, porvi rimedio. Non è superfluo ricordare che Crisi è parola di origine greca dal verbo Krino, separare, e che, più in particolare, ha il significato di discernere, valutare, giudicare. La parola contiene quindi in sé l’azione positiva dell’indagine volta a un superamento, non dunque uno spauracchio da agitare per smuovere reazioni istintive e spesso sbagliate.

Nel campo delle arti performative sarebbe atto di chiarezza riconoscere che l’attuale congiuntura non è stata generata dall’epidemia di Covid-19, quanto piuttosto da essa aggravata e/o accelerata. La crisi performativa era in atto da anni, forse da decenni. Ricordate Carmelo Bene da Maurizio Costanzo nel 1992? Parlava di finanziamenti denunciando che questi ultimi, erogati a pioggia, in base alla semplice emissione del borderò SIAE, non avrebbero favorito la ricerca ma la mediocrità. Sempre negli anni ’90 si generò il movimento de I Teatri Invisibili che riuniva coloro che venivano esclusi dal sostegno pubblico e dal sistema dei privilegiati portando avanti istanze di rinnovamento e di riforma. Se confrontiamo le necessità di allora con quelle di oggi, facendo la tara rispetto alle chiusure dovute alla pandemia, si può chiaramente individuare una continuità nelle problematiche e nelle richieste.

I problemi quindi ce li portiamo avanti da tempo e il legislatore così come il comparto, si sono limitati a mettere pezze qua e là per permettere all’intera filiera di continuare a lavorare, ma non si è mai proceduto a verificare quali assunti fossero errati alla base. Senza rivedere le fondamenta su cui si posa tutto l’edificio teatrale non riusciremo mai a risolvere i problemi che inceppano gli ingranaggi della macchina nel suo complesso. Questo va fatto senza por altri indugi perché una cosa è apparsa evidente in questi mesi di serrata dovuta alle misure di contenimento: contrariamente ad altri settori di attività come i ristoratori o gli impianti sciistici o le palestre, a chiedere la riapertura sono stati solo i teatranti e gli operatori non il pubblico, il quale non si è per niente stracciato le vesti per essere stato impedito a frequentare il teatro. Cosa significa questa distanza dalla società che abitiamo? Quando abbiamo perso il contatto? Quando abbiamo perso necessità?

In questa serie di articoli che prende il titolo dal libro di Benjamin Labatout Quando abbiamo smesso di capire il mondo proviamo a individuare, seppur sommariamente e per accenni, le origini e le ragioni della crisi del settore delle arti performative, nella speranza che altri integrino, sviluppino ed emendino le inesattezze. Prima di passare in rassegna i singoli settori dell’intera filiera è bene però inquadrare il contesto, la cornice entro cui si disegna lo scenario in cui ci troviamo ad agire, perché uno dei principali errori che si possono commettere nell’analizzare un problema che riguarda il teatro è pensare che esso riguardi esclusivamente la sfera teatrale come se non si fosse collegati a un corpo sociale. Contrariamente ai sogni e aspirazioni di Antonin Artaud non è il teatro fonte di contagio ma è la civiltà occidentale che noi tutti abitiamo a essere un ecosistema affetto da gravi malanni non solo di origine biologica, malesseri che contagiano il sistema teatrale provocando varianti sue proprie. Occorre quindi in primo luogo individuare la malattia e poi analizzare i sintomi per sperare di trovare una cura.

EGEMONIA DEL PENSIERO ECONOMICO, SGRETOLAMENTO DEL TEMPO E LACCI BUROCRATICI

Potremmo iniziare dicendo che tutto cominciò il giorno in cui l’economia è diventata la regina assoluta di ogni attività umana e, di conseguenza, anche del mondo delle arti performative. Come per la selva dantesca non è dato sapere quando esattamente siamo entrati nella fase in cui ogni aspetto del reale si misura sotto la lente esclusiva dei valori economici. Persino il lessico è cambiato radicalmente: Know-how, marketing, governance, tax credit, mercato, prodotto, impresa. Sono parole ormai d’uso comune nell’ambito delle arti tutte e che si adottano senza problema e senza pensare troppo alla loro origine. Per non parlare di complicati bilanci preventivi e consuntivi, indici di crescita, algoritmi predittivi e parametri di misurazione con cui ogni attore del mondo teatrale e della danza deve prima o poi scontrarsi. Ad un certo punto nel mondo artistico culturale sono scomparsi i termini relativi alla propria sfera di attività e il dizionario si è trovato colonizzato dal pensiero economico. Per rendersi conto del fenomeno ecco un breve passaggio dal Libro verde della Comunità Europea per lo sviluppo e il potenziamento delle industrie culturali: «Con il concorso del settore dell’istruzione, le industrie culturali e creative possono anche svolgere un ruolo decisivo nel dotare i cittadini europei delle necessarie competenze creative, imprenditoriali e interculturali. In questo senso, le industrie culturali e creative possono alimentare i centri d’eccellenza europei e aiutarci a diventare una società fondata sulla conoscenza. Allo stesso tempo, queste competenze stimolano la domanda di contenuti e di prodotti più differenziati e più raffinati, e questo può dare ai mercati di domani una forma meglio consona ai valori europei». Cultura e istruzione sono subalterne e funzionali allo stimolo di domanda per creare mercati consoni ai valori europei.

L’economia dunque ha fatto irruzione in ogni ambito e così nel consueto e scontroso dialogo tra arte e cultura da una parte e potere politico istituzionale dall’altro si è inserito un nuovo personaggio. E questa fin da subito si è posta come leader dettando agli altri due commensali l’agenda delle cose da fare. E nel farlo pone come unico argomento di forza non la conoscenza, e nemmeno la competenza, ma il denaro che spende a sostegno della cultura sopperendo in maniera massiccia alle carenze degli assessorati regionali e comunali e a volte persino del Ministero. In cambio di questo detta linee guida che spingono in maniera decisa verso l’aziendalizzazione della cultura, così come parimenti spinge verso l’aziendalizzazione della sanità (e abbiamo visto i danni causati) o dell’istruzione (pensiamo come con l’aumento delle tasse e della riforma negli anni ’90 il livello di conoscenza si sia abbassato dal vecchio al nuovo ordinamento, così come è messa in dubbio l’indipendenza degli atenei sempre più finanziati dal capitale privato).

Se la politica si è adeguata senza opporre resistenza e anzi si è sentita sollevata che qualcun altro pensasse a risolvere la questione, dal côte culturale ci si aspettava qualche resistenza e invece nulla, anzi si è fatta la corsa ad adeguarsi perché il refolo di finanziamenti che giungeva dall’alto si ingrossava un pochetto grazie al mondo economico finanziario e poi come dice Alain Denault :«il denaro finanzia subito un considerevole sforzo di inibizione: il silenzio. “ti pago, sta zitto”. È la prima ingiunzione implicita che accompagna la retribuzione salariale».

Il capitalismo economico, soprattutto quello degli ultimi decenni dettato dall’iperliberismo deregolamentato, porta però con sé concetti che mal si accordano con gli scopi dell’arte. L’opera non è un prodotto, il pubblico non è un cliente, il teatro non è un centro commerciale. Confucio diceva: quando i termini non si accordano alle cose inizia la decadenza dello stato. Il rapporto tra artista e pubblico non si basa sull’accontentare un bisogno o un desiderio, ma su una necessità che l’artista individua a volte nonostante la società che abita, e nemmeno il compito dell’artista è quello di creare bisogni indotti che inducano il consumatore a comprare ciò di cui non ha nessuna necessità. Esso si basa su altri presupposti, spesso conflittuali e violenti. L’opera d’arte, per lo meno nei suoi presupposti e nei suoi esiti migliori, è, di volta in volta, una chiave di comprensione del reale o uno specchio deformante, comunque sempre un mezzo di conoscenza perché teatro è prima di tutto Teatron: Il luogo da cui si guarda. Il gran teatro del mondo non ha dunque niente a che vedere con la Nutella, alla quale se venisse alterato il sapore o il profumo, perderebbe ogni sua attrattiva. Il teatro brama e necessita di cambiamento, soprattutto di quello non richiesto e nemmeno desiderato. E soprattutto non è un allevamento di polli in batteria: le opere non devono essere tutte uguali e della stessa misura, anzi dovrebbero nutrirsi di diversità, di antagonismi estetici e formali, tutto insomma ma non l’omologazione prevista dal prodotto di mercato che deve replicare le performance di vendita quando non innalzarle.

Il pericolo quando l’economia diventa soggetto dominante è appunto un appiattimento verso valori mediocri volti ad accontentare la maggiore fetta di mercato possibile. L’eccellenza è garantita solo nei beni di lusso che accontentano le poche élite in grado di permettersele, per gli altri resta l’aurea mediocritas, altro valore che mal s’accorda con la natura dell’arte ma va a braccetto con l’intrattenimento, che guarda caso, conquista sempre più spazio. Come avvertiva il già citato Alain Denault: «al denaro succederà di servire l’arte e di servirsi dell’arte, per sentirsi un mezzo capace di veicolare le pulsioni nell’ineffabile splendore della mediocrità».

Il pubblico poi a teatro è nato come agorà e oggi si trova al rango di un cliente che deve essere soddisfatto o rimborsato, un ruolo svuotato di ogni cromosoma politico. Un settore dell’umanità da conquistare alla propria causa, blandendolo e convincendolo a passare il suo tempo nelle nostre sale, dove verrà prontamente sollazzato a dovere. E questa parte di umanità deve crescere esponenzialmente e senza conoscere pausa alcuna come il PIL di uno stato, per non correre il rischio di entrare in un vortice di decrescita.

Ecco dunque che senza sapere bene perché, oggi il mondo culturale è dominato dal pensiero economico, e questo nonostante scuota con violenza i valori su cui esso si basa. Ma l’ingresso dell’economia porta con sé due gravi conseguenze.

La prima è l’erosione del tempo. Il neocapitalismo è mostro cronofago, pronto a divorare il bene più prezioso di cui siamo possessori. Noi siamo sempre connessi, sempre attivi e reperibili, operativi h24 sette giorni su sette. Qualsiasi lavoratore ha visto incrementare le ore di lavoro dagli anni ’80 a oggi. Le grandi società dell’intrattenimento digitale (social e piattaforme) provano a erodere quello che fino a pochi anni fa era il tempo del riposo. Oggi ci troviamo a lavorare in maniera passiva, tramite l’utilizzo del nostro tempo, per Amazon, Facebook o Netflix. Il semplice gesto di ordinare la cena è un lavoro che genera altrui profitto e relativo sfruttamento di nuove categorie deboli. Inoltre la tanto sbandierata semplificazione digitale in realtà è ulteriore lavoro che viene scaricato sulle spalle dell’utente che erode il proprio tempo libero. Tutti noi abbiamo provato sulla nostra pelle a fare domande online, richieste di SPID, pagare bollette e fare bonifici. Di fatto è un lavoro part-time per banche, amministrazioni pubbliche e fornitori. Qualcuno obietterà che fare la fila alla posta, in banca o all’anagrafe era forse una perdita di tempo maggiore, eppure vi sorprenderà sapere che oggi abbiamo meno tempo a nostra disposizione di trent’anni fa!

Questo fenomeno di erosione temporale come si manifesta in ambito teatral performativo? La vita degli spettacoli si accorcia terribilmente. In ogni dove si va a caccia della prima, della novità, del nuovo talento. Così da una stagione all’altra la maggior parte dei lavori appassisce e cade nel dimenticatoio. E poi la tenuta in cartellone si è ormai ridotta a una solo data in piccoli teatri e nei festival. Solo i Teatri Nazionali e i Tric possono permettersi una tenuta maggiore ma pur sempre di pochi giorni. I giorni di prove si assottigliano. Ventuno quelli canonici per le produzioni sostenute da teatri nazionali. Rare le eccezioni verso tempi più lunghi. La norma è una frammentazione in tempi di residenze brevi e dilazionate. E poi da ultimo non dimentichiamocelo: quando diventi over 35 ormai sei vecchio. E il pericolo si sta aggravando con l’entrata in campo degli under 25. Non si lascia il tempo dunque ai giovani di prendersi il tempo per acquisire conoscenza e formazione. Devono produrre il prima possibile.

Il luogo di erosione maggiore del tempo per il teatro è indubbiamente la burocrazia e lo sanno benissimo coloro che nel mondo dello spettacolo dal vivo sono stati alle prese con le domande ministeriali o la compilazione di bandi bancari o delle amministrazioni regionali con relative scadenze per presentare la domanda, per non parlare delle relative rendicontazioni. Tutto lavoro a carico di compagnie, festival, teatri. A questo si assomma la quotidiana attività di promozione sui canali social a cui nessuno oggi può sottrarsi pena la caduta nell’anonimato. A tutto ciò si è aggiunto lo streaming. Tutto tempo eroso al lavoro di creazione che si vede sempre più relegato ai margini dell’attività artistica.

Il silenzio creativo, il raccoglimento per la costruzione di un’opera è diventato sempre più un’utopia. Oggi la creazione si svolge veloce, in mezzo a mille impellenze burocratiche e digitali quotidiane. Questo nelle migliori condizioni perché spesso il momento creativo si svolge in un vero campo minato tra burocrazie, rappresentazioni, compilazione di bandi, rendicontazioni, promozioni, pubbliche relazioni, visioni, trasferimenti, residenze. La cronofagia comporta pericolose minacce al tempo creativo sempre più simile a una specie in via di estinzione.

Secondo macro-problema di cui in parte si è già accennato è la sterminata, intricata e pungigliosa selva burocratica in cui ciascun cittadino della Repubblica si trova a perdersi per aprire un ristorante o per far il bagnino o gestire uno spazio culturale. Nell’ambito culturale ogni amministrazione sia essa comunale, regionale o ministeriale, ogni fondazione bancaria, ogni bando europeo, ALCOTRA o INTERREG presenta forme burocratiche e legislative completamente diverse, che bisogna padroneggiare e comprendere alla perfezione per aspirare a un risultato positivo. Conseguentemente i sistemi di rendicontazione, le spese ammissibili, i costi di gestione sono calcolati in diverse modalità. Inoltre ogni regione italiana e quasi ogni comune ha regole sue proprie a complicare il già difficile paesaggio. E questo solo per i bandi e i finanziamenti. Altro paio di maniche la contrattualizzazione del lavoro, l’amministrazione ordinaria, il pagamento delle imposte e dei contributi. Da marzo 2021 con la riforma del Terzo Settore perfino scegliere la forma istituzionale per la propria associazione risulta incomprensibile tanto che perfino l’AGIS non sa cosa consigliare. La selva è talmente intricata che nemmeno i commercialisti, specialisti in questo, sono concordi su quanto bisogna effettivamente versare al fisco o quale forma societaria assumere. Una semplificazione sarebbe non solo necessaria ma doverosa. È inconcepibile un tale groviglio di regole ed eccezioni.

Imperio economico, erosione del tempo e infine il nodo gordiano della burocrazia sono dunque la cornice entro cui si inscrive la profonda crisi teatrale che stiamo attraversando e che il Covid non ha causato ma semplicemente ha fatto esplodere in tutta la sua evidenza. In questo paesaggio la vita dell’artista si fa sempre più stretta e obbligata come nella favola di Kafka, e per non far la fine del topolino nelle fauci di un grosso gatto urge cambiar direzione e prendere coscienza del fatto che, come dice Hans Magnus Enzensberger: «Da molto tempo la “classe dominante” non crea più la propria cultura e non manifesta alcun bisogno di un prodotto di questo genere».