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Damiano Grassselli

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A DAMIANO GRASSELLI

Per il terzo appuntamento di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Milano a Bergamo per incontrare Damiano Grasselli, direttore, regista e attore di Teatro Caverna, spazio artistico di proprietà del comune. Teatro Caverna abita un quartiere periferico della città: in esso vengono creati progetti che costruiscano attorno all’esperienza artistica un incontro con le persone, fiducioso nella possibilità di vivere una comunità attraverso un dialogo aperto e continuo col presente.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Francesco Pennacchia in Mario e il mago Spazio Caverna

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Spazio Caverna negli ultimi due anni ha vissuto diverse fasi. Per i primi 4 mesi di pandemia nessuno (nemmeno noi) è entrato nella sala. Bergamo era talmente sommersa dall’emergenza che ci si spostava solo per evidenti casi di necessità: i teatri erano chiusi e nessuno di noi usciva di casa. Poi abbiamo pian piano riprese, una prima volta, le attività, dedicandoci ai bambini del quartiere in primis. Con la seconda chiusura ci siamo inventati diverse “possibilità” per il nostro spazio: abbiamo creato alcuni podcast radiofonici; abbiamo costruito il progetto di solidarietà e protesta, che abbiamo chiamato Pane e Poesia e che ha avuto grandi riscontri sia tra gli abitanti del quartiere che a livello mediatico nazionale; abbiamo attrezzato un piccolo studio di registrazione e diffusione video per alcune letture e dibattiti coi ragazzi delle scuole superiori. Se però devo citare una cosa particolarmente significativa del nostro dialogo con le persone dico questo: nel nostro quartiere c’è una sede della Chiesa Evangelica. Loro potevano celebrare riti in presenza, ma la loro sede era troppo piccola per contenere tutti col distanziamento. Quindi abbiamo ospitato gruppi di giovani fedeli per i loro canti e preghiere. Sono stati momenti di incontro per decine di ragazzi che altrimenti sarebbero rimasti chiusi in casa ancora una volta. Ci è sembrato necessario farlo.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Personalmente ho letto molto, cercando di approfondire i temi che più mi stanno a cuore: il suono, il silenzio, la musica, la parola, il linguaggio. Il legame che esiste tra questi concetti: in questo senso si è orientata anche l’attività di Teatro Caverna nei periodi di chiusura totale, con produzioni radiofoniche che hanno coinvolti anche attori esterni alla compagnia. Ho lavorato molto per migliorare la ricerca sonora del nostro fare teatro. Ma al tempo stesso ho scritto, ho cercato di dialogare con tutte le persone con cui riuscivo a mantenere contatti: sia in forma pubblica, scrivendo su giornali e riviste, sia in privato, ritornando a fare una cosa che non facevo da un po’, scrivere lettere. E’ stato un modo per scoprire una dimensione più umana del tempo, fatta non solo di scadenze, ma anche di silenzi e riflessioni. La vera ricerca è stata cercare un modo per costruire ponti anche laddove le strade erano deserte.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

I fondi sono ovviamente utili: avevamo una struttura da tenere viva anche se chiusa, avevamo delle incombenze. Ricevere i fondi dell’ExtraFus o del Fondo costituito dal Comune di Bergamo è stato molto positivo in quel periodo. Ma non sono mancati anche degli incontri istituzionali che ci hanno convinto a continuare malgrado tutto nel progetto che stavamo creando: per esempio nel secondo lockdown si è cominciato ad immaginare, con l’amministrazione comunale di Bergamo, la possibilità di avere un secondo spazio di lavoro, cosa che è accaduta poca settimane fa. E poi si sono create, anche su proposta di alcune istituzioni locali, reti di lavoro comune dove abbiamo potuto condividere con colleghi situazioni che affrontare da soli sarebbe stato impegnativo. Mi riferisco per esempio alla prima edizione di Lazzaretto On Stage e di Affacciati alla Finestra, due eventi che dopo la prima ondata il Comune ha proposto, le Fondazioni hanno sostenuto e gli artisti hanno programmato. Devo dire che soprattutto nell’estate 2020 e soprattutto nell’ambito cittadino si è avvertito un certo modo di agire “positivo”. In seguito la situazione è divenuta più “ombrosa per tutti”: ora bisognerà capire cosa può rimanere di quell’agire fianco a fianco. Se qualcosa rimarrà…

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Questa per noi è stata una domanda centrale, soprattutto da settembre 2020 in poi, quando abbiamo capito che tutto era ancora in divenire e saremmo stati lungamente segregati. La radio su questo mi ha aiutato molto: ho iniziato a “giocare” col mondo radiofonico molto prima che con quello teatrale, avevo solo 15 anni. E così abbiamo iniziato a raccontare storie sia attraverso radio nazionali (abbiamo prodotto Fenoglio e le Langhe: una questione privata per Radio3), con le radio locali, con i podcast da scaricare o appositamente creati per le scuole, per raccontare fiabe ai bambini. Sono arrivati molti messaggi che dicevano: grazie, ci tenete davvero compagnia. Allora a settembre abbiamo deciso di creare un progetto, che oggi prende il nome di Radio Caverna, a partire da una delle tradizioni più amate a Bergamo: la consegna dei doni da parte di Santa Lucia. Su questa tradizione abbiamo realizzato un podcast originale di 8 puntate con un gioco interattivo per le famiglie. Abbiamo raggiunto quasi 5000 ascoltatori con picchi anche di 400 contatti giornalieri, per noi un grande successo. Certo però che ci è mancato molto lo sguardo, il vedersi, il sorridere insieme: per questo ci siamo inventati anche Pane e Poesia. Il nostro è un quartiere che ha qualche difficoltà a stare al passo col costo della vita di Bergamo. Per questo abbiamo inventato una consegna di pacchi alimentari preceduta però da una lettura, faccia a faccia, di una poesia. Chi veniva a prendere la spesa (offerta gratuitamente da un gruppo di donatori) aveva la possibilità di scegliere una poesia e sentirsela leggere da un attore, in presenza. Un modo per scambiare 4 parole, raccogliere storie, vivere delle idee insieme. Anche questo ci ha avvicinato molto alle persone. Non eravamo quelli sul piedistallo che fanno cultura. Eravamo tra la gente, con gli spaghetti, il pomodoro e Majakovskij. La cioccolata, il riso e Quasimodo. Amici poeti, attori, il quartiere. Persone, tra le persone.

Il Tenace soldatino di stagno Regia di Damiano Grasselli

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Cerco sempre di chiedermi poco sul futuro. Certo penso a programmare: abbiamo attività in calendario fino a giugno 2024… Intendo però dire che, fissati alcuni obiettivi di base, serve anche che le cose viaggino un po’ da sole, sulla loro strada, con gli eventi che accadono. Il teatro, e lo stiamo scordando follemente, è accadere… Detto ciò è chiaro che si sta un po’ fingendo che tutto sia tornato “normale”. Le persone sono impaurite, impigrite dalle serrate, spaventate dalla situazione lavorative economica. Dire semplicemente: “abbiamo riaperto, ora tornate a teatro”, mi pare utopico e un po’ riduttivo. Forse addirittura canzonatorio. Mi aspetto che nascano progetti, idee (magari anche bandi) che riaccompagnino veramente le persone a teatro. Scriviamo sempre pagine e pagine sulla fidelizzazione del pubblico, ma raramente affrontiamo questo processo in maniera organica. È sempre tutto un po’ lasciato allo “speriamo che qualcuno venga”. Credo che adesso come non mai ci troviamo davanti ad una situazione tale per cui bisognerebbe fare qualcosa per cambiare la relazione col pubblico: non sono scatolette (vuoti ad arrendere) adagiate in platea, sono l’altra metà del nostro lavoro. L’altro è l’altro. Il che non significa andare nella direzione che la massa chiede, al contrario. Stimolare, creare, offrire diversità: YouTube e Mediaset sono molto meglio di noi nel creare intrattenimento. Smettiamo di inseguire quei modelli bulimici. Creiamo una dilatazione del tempo, che alimenti la curiosità delle persone. Nella frenesia aggressiva, il teatro offra lentezza e relazione. Chiaro che il Ministero sta chiedendo numeri e documenti. Ma forse noi non potremmo offrire idee diverse una volta tanto? Non la novità stucchevole (che poi spesso non è nuova). Idee diverse. Andare verso altro. L’altro. Il non IO. Si fa un gran parlare di individualismo: secondo me l’individuo, con la sua responsabilizzazione e la sua unicità, sta scomparendo. C’è un’affermazione cadaverica dell’Io invece: quando noi teatranti parliamo diciamo solo frasi in prima persona singolare sui nostri lavori. Ma credo che al centro del vivere attorale, citando Aldo Capitini, dovrebbe starci questa frase: La mia nascita è quando dico un tu. Non nasce alcun teatro senza il suono di un Tu. Mi aspetto che, Ministero o non Ministero, in me continui a rimanere viva questa cosa. Altrimenti possono seppellirmi anche valanghe di finanziamenti, ma sarei morto in quel caso, sepolto dalla bolsa burocrazia.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Ecco mi riallaccio a quanto ho appena scritto: non abbiamo considerato che c’è un ALTRO. Ripeto: non per seguire gusti e mode, ma per interrogare. L’altro è un punto interrogativo sulla fronte spaziosa delle nostre certezze. Se non siamo capaci di dire: voglio ascoltare altro, vivremo tombali nel nostro mausoleo, piccolo o grande che sia, sarcofago, loculo o urna per ceneri. Saremo la morte del teatro. Si è ripetuto molto questo concetto: il ministro, le istituzioni, le fondazioni… Stanno facendo quello che nessuno aveva fatto in migliaia di anni: uccidere il teatro! E gli artisti? Cosa fanno per tenerlo vivo? La nostra pratica masturbatoria è eccitante (Artaud si chiedeva se avesse senso cercare una compagna sessuale quando ci si può masturbare…). Ma è esclusiva. Non ci accorgiamo che stiamo lasciando fuori i punti di domanda. Carmelo Bene diceva di essere nel porno, e come lui lo era Kafka. Ecco forse la grande occasione persa è proprio questa: continuiamo sulla strada di un desiderio inesauribile di onanismo. Ma questo è molto distante dal creare arte. Poi certo se guardiamo alle occasioni perse dal punto di vista legislativo, possiamo scrivere dieci volumi… Ma in quanto artista tendo a guardare ciò di cui sono responsabile. E di cui mi posso fare carico. La domanda individuale che mi pongo come artista è: che cosa ho da dire realmente che riguardi la vita?

Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE II

:”Solo quando avranno ridotto le forme che si sono sviluppate indipendentemente da loro a pure e semplici commedie che s’inseriscono nel gioco del commercio, la loro unica passione, fino a vederci nient’altro che una rigida dimostrazione di forza monetaria, a quel punto si sentirà risuonare una grassa risata”.

Alain Desnault La mediocrazia

Come crawling faster/ obey your master/ your life burns faster/ obey your master

Metallica Master of Puppets

Economia è regina incontrastata di ogni settore dell’umana attività in questo Ventunesimo secolo. Essa regna affiancata da Burocrazia e Cronofagia, e spadroneggia indisturbata come un tempo Ares dominava i campi di battaglia, insieme ai figli Phobos (paura) e Deimos (Terrore). E come Ares strappò Afrodite, dea della bellezza, dalle braccia di Efesto, dio artigiano ma zoppo, così oggi Economia compie il ratto dell’arte rubandola alla sua bottega e mettendola sul mercato. Non è un caso che uno dei sogni nefasti sorti agli albori della modernità capitalista sia quello di Baudelaire sul bordello-museo, dove lui, l’artista, accorre a presentare il suo nuovo libro alla maîtresse, e trova le sale piene di opere d’arte, prostitute e signori dell’alta finanza.

Difficile è individuare quando esattamente sia iniziato il processo. C’è chi dice (Alain Badiou) negli anni Settanta quando diversi fenomeni coincidenti cominciarono a verificarsi: fallimento in Occidente dei moti rivoluzionari e riformatori giovanili, armati o pacifici che fossero; avvio della deregulation del capitalismo; inizio della dissoluzione del blocco sovietico. Poi gli anni ’80 di Reagan e della Thatcher, quelli della Milano da bere e del There is no Alternative. Nella storia ogni punto d’origine è sempre arbitrario ma se per un momento proviamo a pensare a quanto è cominciato a accadere nel campo delle arti performative proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, riscontriamo un graduale e parallelo scemare delle istanze politiche e sociali nonché delle utopie riformatrici. L’arte gradualmente si è richiusa su se stessa. Forse la scomparsa di una contronarrazione efficace al capitalismo liberista ha fiaccato il campo dell’opposizione e col tempo si è creato quello che potremmo chiamare Effetto Parasite dal meraviglioso film di Bong Joon-ho: non più ribellione né contrasto ma bensì desiderio di emulazione.

Ancora negli anni ’90 però vi era una vitalità politica forte, riconosciuta e condivisa Pensiamo a Barboni e a Guerra di Pippo Delbono, il Marat-Sade di Armando Punzo, la Biennale di Carmelo Bene (1989), i Teatri Invisibili e la nascente Generazione Novanta. Ma quella stagione sembra sempre più un’estate di San Martino. Oggi si parla più di bandi ministeriali, di FUS ed ExtraFUS, di borderò piuttosto che di funzioni o di finalità politiche del teatro. Quando l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo scorso anno disse: ”i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, il mondo teatrale si scandalizzò, dimenticandosi però che Valerio Binasco, assumendo il ruolo di consulente artistico al Teatro Stabile di Torino disse parole ancor più gravi: «Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta»!

Umberto Boccioni Rissa in Galleria

Da tempo dunque il mondo delle arti performative ha perso un ruolo da giocarsi nella società, condividendo istanze e problematiche con altre categorie sociali come avveniva nel passato. Perché questo è avvenuto? Probabilmente perché non è più stata la politica il referente antagonista, ma bensì l’economia, la quale più che avversario e competitore con cui è possibile discutere, magari in maniera accesa, essa si è imposta come matrigna fortemente ingerente nella vita dei figliastri recalcitranti; e con una genitrice che elargisce una paghetta non si arriva a un compromesso, si può solo obbedire o disubbidire in un rapporto costituito in massima parte da premi e punizioni. Come disse nell’aprile del 2016 George Mombiot sulle pagine di The Guardian, quotidiano non certo tendente all’estrema sinistra :«Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche sono esercitate al meglio attraverso la compravendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene che “il mercato” fornisce benefici che non potrebbero mai essere raggiunti dalla pianificazione».

Gli effetti di tale ingerenza non sono facilmente districabili. Essi si diramano come un corpo estraneo in ogni ambito della filiera creativa dalla formazione alla internazionalizzazione, sovrapponendosi però a un sistema che ancora risente di valori a essa alieni. La filiera artistica risponde a questa estranea possessione in maniera scomposta a volta rigettando, a volte rendendo impossibile l’agire, altre in modalità autoimmune. Per risolvere la questione bisognerebbe agire come Alessandro di fronte al nodo gordiano: tagliare e resettare, ma questa si profila la possibilità più remota e utopistica. Nell’analisi della filiera, non potendo isolare i sintomi, non resta che toccare gli argomenti e di volta in volta ritornare, ripetere, riformulare.

Cominciamo dal principio ossia dalla volontà di trasmutare l’azione culturale, attività artistica e politica come quant’altre mai, in azienda o impresa di cultura. La prima considerazione è che le parole non sono innocue: quando il teatro, il cui etimo greco significa: il luogo da cui si guarda, e quindi prevede un osservatore che profonda il suo sguardo in un oggetto o in un mondo, diventa un luogo di profitto, in cui qualcosa viene venduto a qualcuno, ci troviamo in un universo completamente alieno da quello di partenza. Se poi osserviamo le parole dal punto di vista della comunità che frequenta il luogo in oggetto (perché teatro è un luogo prima che un arte!) essa si trova trasformata da agorà a cliente e consumatore, ed ecco che improvvisamente qualsiasi valenza politico sociale si annienta nel buco nero della quantificazione economica. Ultima ma non ultima l’economia mal s’accomoda a fianco dell’etica. Qualcuno potrebbe affermare, e non senza ragione, che nemmeno l’arte va troppo a braccetto con la dama pudica e castigata, ma la cultura sì, come l’istruzione. Essa si basa su principi etici di apertura a tutte le categorie, soprattutto alle più svantaggiate e deboli, tende a voler far crescere la società nei suoi valori, e nei momenti di crisi è stata il collante delle comunità (pensiamo agli Ebrei o ai Tibetani, popoli che nell’esilio sono sopravvissuti e sopravvivono proprio grazie ai valori culturali). In economia vince solo il più forte, chi ha più capitale, e quindi la naturale conseguenza, come diceva Trump, diventa: i poveri sono dei perdenti.

Impresa culturale è termine che ci trasporta in un altrove volto a snaturare le funzioni e quest’ultime sono tutt’altro che questione di lana caprina o di lanugini ombelicali, si parla delle fondamenta di un’arte millenaria. Ecco dunque che proprio nell’assunzione del termine ci si trova di fronte alle prime anomalie: sostegno pubblico e impresa culturale difficilmente si trovano in un piano di accordo vicendevole. Infatti le normative rivelano difetti e malformazioni. In epoca Covid, in tempi di ristori e di aiuti straordinari in molte regioni le cosiddette imprese culturali si sono trovate escluse dai sostegni alle piccole e medie imprese proprio per il fatto di essere senza fine di lucro, status necessario a chi richiede fondi di sostegno per l’attività culturale sia da parte regionale sia da fondazioni bancarie. E questo all’alba della riforma del terzo settore che obbliga tutti gli attori del settore culturale a divenire impresa di cultura. Quale? Nemmeno l’Agis saprebbe consigliarvi per il meglio.

Facciamo qualche esempio tre regionali e uno nazionale. Cominciamo dalle segnalazioni regionali tre casi sparsi per il territorio nazionale tra Nord, Sud e Isole. Primo: il bando Sì Lombardia, in cui Regione Lombardia chiedeva per la partecipazione l’iscrizione al REA (Registro delle imprese) e l’ottenimento del DURC, così come altri vincoli specifici al mondo imprenditoriale, eppure nonostante queste richieste il comparto culturale è stato escluso perché non ha fine di lucro. Secondo: la Legge quadro sulle azioni di sostegno al sistema economico della Sardegna a salvaguardia del lavoro a seguito dell’emergenza epidemiologica da covid-19 in cui i sostegni previsti sono a compensazione di un mancato reddito di impresa cosa difficilmente dimostrabile per chi è senza scopo di lucro. Terzo: la Basilicata si potrebbe annoverare tra i “casi curiosi”, in quanto ha pensato al tessuto dell’impresa profit, escludendo l’impresa non profit, anche nei casi in cui la normativa lo prevedeva e consentiva. Un caso concreto: Avviso Pubblico Misura straordinaria emergenza sanitaria COVID 19, emanato a giugno 2020, proprio per dare le prime risposte alle difficoltà causate dalla pandemia, assegnando un contributo, seppur minimo, a fondo perduto per i soggetti giuridici che ne avessero fatto richiesta. L’impianto normativo di riferimento e i criteri di concessione del contributo risultano interessanti, ovvero c’è il “classico” rimando al Regolamento UE n. 651/2014 e al suo Art. 1 dell’Allegato 1, ormai caposaldo di Avvisi e Bandi e che definisce il perimetro dell’Impresa, facendo rientrare anche le Associazioni che svolgono regolarmente attività commerciale; ed è definito un importo del contributo in base al numero di addetti/dipendenti del soggetto richiedente: mille Euro per nessun addetto, duemila Euro per chi ha in organico fino a cinque addetti e tremila Euro per chi ha da 6 a 10 addetti. Pur non volendo entrare nel merito tecnico e discutere l’adeguatezza o meno del provvedimento specifico, la cosa che si evidenzia e che contraddice l’azione dell’Ente Regione è l’impossibilità, per le forme associative (anche se iscritte al R.E.A. della Camera di Commercio di riferimento esattamente come in Lombardia) di poter accedere alla Misura: non per motivi di Codice ATECO o mancanza di dipendenti ( l’Avviso tutelava anche soggetti senza dipendenti), bensì per il tipo di forma giuridica: Associazione. Dopo questo breve excursus esemplificativo su base regionale riportiamo un esempio nazionale: Invitalia e il “suo” Bando Impresa SIcura per il rimborso degli acquisti di dispositivi di protezione per i propri lavoratori, sostenuto da un fondo INAIL -di cinquanta milioni di Euro- di cui tutti conosciamo le funzioni: contrasto agli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Un bando che in uno dei suoi primi articoli specifica chiaramente che la tipologia di forma giuridica del soggetto non inficia la richiesta di contributo, ma nella sezione FAQ riporta l’impossibilità per le forme associative di accedere al contributo, e porta con sé quindi una contraddizione forte nel momento in cui si pensa alla tutela dei dipendenti, e alla luce di una normativa impresa, ripetiamo, che allarga lo spettro dell’impresa stessa. C’è un fondo INAIL, che è alimentato anche dalle associazioni con dipendenti e che quindi versano l’assicurazione obbligatoria, c’è il riferimento ai lavoratori, ma ciò che conta è la forma giuridica. Non se ne comprende la motivazione.

Questi sono solo quattro esempi su decine che si possono fare della contraddizione in termine di cultura, impresa e sostegno pubblico nelle normative attuali alla vigilia della riforma del terzo settore.

Nella visione dell’economista la cultura è un impresa e come tale ha un unico obiettivo centrale su cui si deve focalizzare il finanziamento: la produzione di un oggetto di consumo. L’opera è il prodotto. Tutta la filiera delle arti performative si è così concentrata nell’unica attività premiata dal modello economico: il prodotto e lo ha fatto talmente bene che le ore di produzione sono quasi tre volte tanto quelle di rappresentazione! Si calcola in ben 23000 ore di recite di produzione e solo 9100 di recite di distribuzione dato questo che lascia intendere due cose: una spinta decisa e sproporzionata sulla produzione e il disequilibrio evidente tra le opere e la loro effettiva possibilità di circuitare. E stiamo parlando solo dei valori censiti nelle strutture riconosciute e finanziate dal Ministero.

Il mercato quindi è inondato di prodotti di cui in verità c’è scarsa domanda, ma essendo l’unico modo per percepire denari attraverso i borderò ecco che tutti persistono nell’errore di produrre nuovi oggetti destinati a nascere già morti. Pensiamo a quanto avviene in questi giorni di teatri chiusi, dove l’unica attività lecita sono le prove, tutti hanno prodotto, ma su quale mercato verranno venduti? E se consideriamo l’accumulo delle creazioni viste poco o per niente nel 2020 quali piazze smaltiranno tutti gli invenduti? E nel 2022 che facciamo: produrremo ancora in massa, soppiantando le opere dalla vita brevissima di questo biennio? Si profila all’orizzonte una vera strage degli innocenti.

Umberto Boccioni Velocità

L’iperproduzione è il primo effetto del malsano innesto di valori economici in ambito culturale e artistico. L’opera nasce da un’esigenza che nasce sì nell’artista, ma questo lo dovrebbe cogliere in seno alla società. Dall’incontro tra i due soggetti dovrebbe nascere un dialogo dovuto alla necessità. Come in American Gods i nuovi dei mal digeriscono i vecchi dei e così Economia mal sopporta l’imperio di Ananke, anzi vive e prolifera proprio laddove non vi è necessità alcuna: fatto il prodotto, creato dal nulla il bisogno, si crea il mercato. Non importa che il pubblico chieda o meno l’opera, e nemmeno si necessita che l’artista abbia qualcosa da dire a un pubblico. A ogni stagione bisogna immettere novità in palinsesto, cose mai viste da nessuno, possibilmente in prima assoluta, in mancanza di queste almeno in prima regionale. E di conseguenza ecco l’ossessione per l’audience engagement. Il pubblico deve crescere esponenzialmente come il PIL, non si deve arrestare mai, anzi a ogni stagione bisogna trovare nuovi escamotage per mobilitarne di nuovo. L’arte però ha tempi lunghi, digestioni lente, passaparola antichi, tutti valori che mal s’accordano con i principi di quantificazione immediata del successo. E così per ottenerlo la qualità scende, si ibridano i linguaggi propri della scena con quelli di più sicuro appeal della televisione, della serialità cinematografica, dei social network. Ora chiariamo: niente contro l’ibridazione dei linguaggio purché il teatro resti tale, se diventa televisione, o Tik Tok allora i presupposti sono sbagliati. I mass media di massa, soprattutto quelli digitali, hanno numeri incomparabili a quelli che può raccogliere il vecchio carro di Tespi. La corsa al pubblico è dunque persa in partenza. Per il teatro dovrebbero essere I rapporti ad assumere importanza, e con essi le relazioni con i territori e le questioni sociali, quello che per i sociologi è l’impatto sulla società, ma su questo ritorneremo con un focus apposito. Come detto è difficile districare i temi che sono follemente interconnessi.

Se dunque bisogna produrre a tutti i costi, se la guerra si compie sulla prima ad ogni costo quali sono le conseguenze per il comparto? Innanzitutto sparisce il repertorio. Le opere infatti si riattualizzano rispetto ai contesti che risemantizzano i contenuti, per quanto vivano l’istante hanno una aspettativa di vita ben più lunga dei 12 mesi a cui spesso sono destinate. Ora però se la gara si gioca sulla novità a tutti i costi, le opere giocoforza hanno vita breve se non brevissima, soppiantate dal nuovo prodotto. Stessa cosa per l’artista giovane il quale va sfruttato in fretta, prima cioè che venga immesso uno più giovane sul mercato. E così si inaridisce la fonte primaria di formazione: il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Se si bruciano le tappe sovraesponendo le forze giovani fino all’età critica dei 35 anni, inevitabilmente coloro che passano il fatidico vallo di Adriano e diventano over si trovano per lo più scartati, e così non si storicizza la ricerca, non si passano le abilità e le tecniche. I giovani poi vengono indotti a produrre impreparati perché va venduto non tanto il loro talento ma la loro giovinezza. I palinsesti poi non privilegiano una territorialità ma, sempre in gara con le première, comprano i vincitori di premi, le prime regionali, il giovane appena scoperto. L’artista di esperienza, a meno che non sia famoso, non fa pubblico perché è già visto, lo si conosce già, non ha la patina del nuovo ad ogni costo. Attenzione: quando si parla di novità essa deve però essere rassicurante, non così nuova da scuotere veramente il pubblico. Infatti se per un cellulare o una televisione si corre a comprare l’ultimo modello, in arte viceversa il nuovo terrorizza. Quello che si vede sulle scene deve essere una novità con una patina di assoluta e certa riconoscibilità in modo da confermare i gusti del pubblico e non gettarsi in pasto al rischio di scontentarlo e quindi perdere in sbigliettamenti e abbassare l’indice di incremento degli spettatori-clienti.

Ulteriore danno provocato dal concentrarsi sulla sola produzione è la loro quantificazione. I parametri ministeriali (per ora sospesi ma non aboliti) valutano la qualità solo per il 30%. Il restante 70% si riferisce alla quantità: tanto pubblico, tante date, tanta rassegna stampa. E se la quantità vince sulla qualità, l’opera si adegua a un fast food dove non importa che l’hamburger sia veramente buono, ma che lo consumi più gente possibile.

La vera anomalia però è il mercato stesso. Esiste? Si sono implementati dei reali strumenti per la sua espansione? Ci sono progetti di immissione dei nostri prodotti culturali sul mercato estero? La distribuzione funziona? Nel prossimo articolo proveremo ad analizzare la forma e il ruolo del cosiddetto mercato nella nostra filiera produttiva.